In base alla maggior parte degli autori che si sono occupati del fenomeno il burnout (termine inglese che significa “bruciarsi”) può essere definito come una sindrome complessa a componente prevalentemente psichica che si instaura in risposta ad una condizione di stress lavorativo prolungato e che è caratterizzata da: a) esaurimento emotivo, b) depersonalizzazione, c) mancata realizzazione personale. In altri termini essa è l’esito patologico di un processo generatore di stress che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto (helping profession), qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi che il loro lavoro comporta.

Il fenomeno attirò l’interesse di psicologi, psichiatri e sociologi nei primi anni ‘70 del Novecento. Nel 1975 Herbert Freudenberger, psichiatra, e nel 1976 Christina Maslach, sociologa, avviarono delle ricerche in tal senso. Freudenberger in particolar modo descrisse la sindrome basandosi sull’esperienza acquisita in un reparto di igiene mentale dove, insieme ai suoi collaboratori, aveva sperimentato un progressivo impoverimento emozionale e motivazionale e una conseguente riduzione dell’impegno professionale.

Per la prima volta la sindrome venne definita con un termine che nel linguaggio comune veniva impiegato per descrivere gli effetti dell’abuso cronico di droghe: burnout. Negli anni ‘80 del Novecento presero l’avvio numerosi studi empirici in cui la ricerca considerava campioni di persone molto piú ampi. Gli studi vennero condotti allo scopo di trovare gli strumenti piú adatti per valutare ed accertare la sindrome nei soggetti in esame. Nacque cosí il metodo di valutazione ancora oggi piú utilizzato: il Maslach Burnout Inventory (MBI, noto anche come scala di Maslach) messo a punto da Maslach e Jackson nel 1981.

L’MBI consiste in un questionario che valuta le tre componenti del burnout: 1) l’esaurimento emotivo (EE), ossia la sensazione di essere inaridito emotivamente e demotivato nel proprio lavoro; 2) la depersonalizzazione (D), intesa come distacco e indifferenza nei confronti dell’oggetto professionale; 3) la mancata realizzazione personale (RP), intesa come valutazione personale circa la propria competenza e circa il proprio desiderio di successo nel lavorare con gli altri.

Esistono diverse versioni del MBI come il MBI-HHS, per il personale che opera nei servizi sociali e medici; l’MBI-ES, per il personale docente, e infine l’MBI-GS per altre categorie.

L’esaurimento emotivo è evidente quando il soggetto ritiene di non aver piú niente da offrire agli altri, ragion per cui sorgono sentimenti di impotenza, di disperazione, di depressione, di impazienza e irritabilità, ciò che porta ad un incremento delle tensioni e dei conflitti interpersonali. Non mancano anche i sintomi fisiologici come la fatica cronica, i frequenti mal di testa, la nausea, le tensioni muscolari e i disturbi del sonno.

La depersonalizzazione genera indifferenza ed induce comportamenti negativi verso gli altri, verso sé stessi e il proprio lavoro.

La mancata realizzazione personale genera sfiducia nelle proprie capacità e conduce ad una revisione critica, anche severa, di tutto ciò che si è fatto in precedenza.

Da notare che sebbene il burnout sia spesso associato ad ansia e a depressione, esso si differenzia dalle altre due patologie in quanto i sintomi si presentano in relazione all’esperienza lavorativa e non nel complesso della propria esistenza.

La sindrome affligge in particolare le categorie dedite a professioni che comportano un impegno assistenziale di vario genere verso persone bisognose di cure e di attenzione. Le categorie piú esposte sono quelle degli educatori, medici di base, insegnanti, poliziotti, vigili del fuoco, infermieri, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, sacerdoti, religiosi, fisioterapisti, anestesisti, medici ospedalieri, studenti di medicina, guardie carcerarie, responsabili e addetti a servizi di prevenzione e protezione aziendali, operatori del volontariato, etc... Queste categorie sono afflitte da una duplice fonte di stress: il proprio inevitabile stress personale e quello dei loro assistiti.

Ne consegue che, se non adeguatamente preparati e supportati, questi soggetti cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e neutralizzare lo stress accumulato. In tali condizioni può succedere che queste persone si facciano eccessivamente carico delle problematiche delle persone di cui si occupano, non riuscendo neanche piú a discernere tra il proprio dramma esistenziale e il loro.

I fattori che possono predisporre all’insorgenza della sindrome sono di natura ambientale e individuale. Per quanto concerne i fattori ambientali essi sono riconducibili sostanzialmente a tre:

1) caratteristiche del lavoro: in vari studi è stata trovata una correlazione significativa tra l’insorgenza della sindrome e lo stress causato da carico di lavoro particolarmente elevato, scadenze pressanti, conflitti ed ambiguità di ruolo, mancanza di appoggio da parte dei dirigenti/superiori, mancanza di informazione, scarsa o nessuna partecipazione alle decisioni.

2) tipo di lavoro: diverse ricerche hanno evidenziato che il burnout è piú frequente in alcuni settori occupazionali quali, per esempio, la docenza, i servizi sociali, la medicina, la salute mentale e l’ambiente carcerario.

3) caratteristiche organizzative: le ricerche hanno posto in evidenza le conseguenze della violazione, vera o presunta, delle aspettative circa gli spazi operativi, la collocazione nella linea gerarchica, le risorse a disposizione. Non meno importanti anche gli aspetti prettamente psicologici che inducono insicurezza circa le opportunità di carriera, gli impieghi a tempo determinato e le conseguenti incertezze economiche.

I fattori individuali riguardano soprattutto i seguenti aspetti:

1) caratteristiche demografiche: l’incidenza della sindrome sembra essere maggiore nelle persone di età superiore ai 30-40 anni, non sposate e con un livello culturale piú elevato.

2) tratti psicosomatici: i soggetti che sopportano passivamente le difficoltà e che indulgono in atteggiamenti difensivi sono piú a rischio di altri nello sviluppare la sindrome, cosí come quelli nei cui tratti caratteriali predominano l’ansia, l’ostilità, la depressione, che non accettano cambiamenti, si estraniano dalle attività quotidiane e comunque hanno uno scarso controllo sugli eventi.

3) attitudine verso il lavoro: le persone che lavorano intensamente e hanno grandi aspettative dalla loro professione, sia per le possibilità di successo e di guadagno, sia perché tentano di affrontare il proprio lavoro con rinnovato entusiasmo, rischiano maggiormente di sviluppare la sindrome qualora non riescano a vedere realizzati i propri desideri.

In ogni caso la correlazione che i fattori individuali hanno con la sindrome è piú debole rispetto a quella esistente con i fattori ambientali.

L’esito delle dinamiche sopra accennate è che il soggetto tende a sfuggire l’ambiente lavorativo assentandosi sempre piú spesso e lavorando con entusiasmo ed interesse sempre minori. Il soggetto inoltre sperimenta frustrazione e insoddisfazione ed una sempre minore empatia nei confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi. Si noti che l’abuso di alcol, di sostanze psicoattive e il rischio di suicidio aumentano nei soggetti affetti da burnout.

 

 

Le fasi del burnout

La sindrome si manifesta generalmente in quattro fasi.

La prima, preparatoria, è quella dell’entusiasmo idealistico che spinge il soggetto a scegliere un lavoro di tipo assistenziale/altruistico.

Nella seconda (stagnazione) il soggetto, sottoposto a carichi di lavoro e di stress eccessivi, inizia a rendersi conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa. L’entusiasmo, l’interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire.

Nella terza fase (frustrazione) il soggetto affetto da burnout sperimenta sentimenti di inutilità, di inadeguatezza, di insoddisfazione, uniti alla percezione, reale o presunta, di essere sfruttato, oberato di lavoro e poco apprezzato. Spesso egli tende a mettere in atto comportamenti di fuga dall’ambiente lavorativo e talvolta atteggiamenti aggressivi verso se stesso o gli altri.

Nel corso della quarta fase (apatia) l’interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente e all’empatia subentra l’indifferenza, fino ad un esito che può essere qualificato come una sorta di “morte professionale”: il soggetto non è piú in grado di assolvere al proprio compito e non può piú aiutare nessuno, probabilmente neppure se stesso.

 

 

Conclusione

Lo studio della sindrome del burnout pone in evidenza il limite umano anche in coloro che si dedicano al servizio dei sofferenti e degli emarginati con una dedizione spesso entusiastica, a volte ingenua, non di rado perfino eroica. Sono limiti che dovrebbero suscitare disponibilità e attenzione e che invece trovano spesso incomprensione o peggio giudizi sommari. In coloro che sono dediti alla helping profession la critica sociale spesso non ammette debolezze di sorta, né comprende che essi stessi necessitano a loro volta di aiuto e ciò può essere tanto piú vero quanto piú alto è il ruolo, la posizione sociale, di colui che si dedica al servizio degli altri.

Non si sottolineerà mai abbastanza che la dedizione all’altro, lungi dall’essere un esercizio di stoica filantropia ideologica, richiede motivazioni e soprattutto risorse interiori non comuni. È la conclusione a cui non a caso giunge Giandomenico Mucci, del collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica, autore dell’articolo Il «burnout» tra i preti. Il segreto dell’azione umanitaria in realtà si nasconde in una vita profondamente contemplativa. Essa - prendendo a prestito le conclusioni del Mucci - ci insegna a guardare con lo sguardo di Dio il senso della nostra pochezza personale e dei nostri fallimenti. Ci educa, giorno dopo giorno, a confidare in quella grazia che sorregge i deboli e gli sconfitti della vita che vanno avanti con umiltà e amore. Sono valori, questi, non osservabili con gli strumenti dell’indagine sociologica. Ma sono pur sempre i valori vissuti in silenzio da tanti uomini e donne, dediti al loro prossimo, che sperano contro ogni evidente speranza.

 

 

Appunti bibliografici

 

ALBRECHT KARL - SELYE HANS, Stress and the Manager, Prentice-Hall, 1979.

BANKS ROBERT, The Tyranny of Time, Lancer, 1983.

FREUDENBERGER HERBERT, Burnout: How to Beat the High Cost of Success, Bantam, 1980.

MASLACH CHRISTINA, La sindrome del burnout. Il prezzo dell’aiuto agli altri, Cittadella Editrice, 1997.

PELLEGRINO FERDINANDO, La Sindrome del Burnout, Centro Scientifico Editore, Torino, 2000.

PELLEGRINO FERDINANDO, Oltre lo stress, burnout o logorio professionale, Centro Scientifico Editore, Torino, 2007.

SANFORD JOHN, Ministry Burnout, Paulist, 1982.

 

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IL «BURNOUT» TRA I PRETI

Giandomenico Mucci S.I.

 

 

Con il termine burnout si designa quella sindrome che toglie le forze, il coinvolgimento personale e la soddisfazione nel lavoro in quelle persone che precedentemente facevano dell’aiuto agli altri la loro professione. Perciò il burnout è stato molto studiato preferenzialmente nelle categorie sociali (infermieri, assistenti sociali ecc.) che svolgono mansioni di aiuto. A tali categorie può essere accostata quella costituita dai sacerdoti impegnati nei ministeri pastorali. Tre studiosi, Pierluigi Barzon e Giorgio Ronzoni, l’uno psicologo, l’altro pastoralista, entrambi della Facoltà teologica del Triveneto, e Marcantonio Caltabiano, demografo dell’Università di Padova, hanno indagato il fatto e le cause della sindrome all’interno di un gruppo di preti diocesani di Padova. Vogliamo dar conto ai lettori di questa ricerca, avvertendo che essa riguarda propriamente i sacerdoti di una determinata diocesi e pertanto i suoi risultati non sono automaticamente estensibili in tutto ai sacerdoti di altre diocesi. Tuttavia, sono risultati ampiamente generalizzabili in buona parte, anche per i sacerdoti religiosi. Per i dati tecnici della ricerca (questionari, risposte, test, valori normativi e tabelle) rimandiamo al saggio degli autori (1).

 

Lo scopo della ricerca

La ricerca è stata condotta negli anni 2004-05 tra preti diocesani di Padova che lavorano come parroci, viceparroci, insegnanti, assistenti di istituzioni, cappellani. Scopo dell’indagine era la presenza del burnout in questa fascia del clero per avviare una riflessione sulle condizioni nelle quali si svolge oggi il ministero pastorale. Piú precisamente, si è voluto indagare sulle ragioni che mettono in moto le crisi di persone che, dopo aver dato per anni la testimonianza di una totale dedizione al prossimo, a un certo punto si sentono senza energie, distaccate da coloro che poco prima ancora aiutavano e che ora non riescono piú ad aiutare. E stata chiamata «sindrome del buon samaritano deluso».

Quali sono le ragioni di queste crisi? La ricerca mette in luce che le crisi, sia quelle che hanno come esito l’abbandono del sacerdozio sia quelle che hanno esiti diversi, non possono essere uniformemente spiegate tutte con il metro tradizionale della fragilità umana e della negligenza nella preghiera. E necessario riflettere bene, per prevenirle e curarle, anche sulla modificazione di elementi e comportamenti che appartengono all’istituzione ecclesiastica. L’età media del campione di preti intervistati è inferiore a quella dell’insieme dei preti padovani. Nel campione, una quota rilevante di sacerdoti ha un’età inferiore ai 50 anni. Gli ultrasettantenni sono appena 37 su 321 intervistati. Tra questi, prevalgono coloro che hanno meno di 20 anni di sacerdozio. Poco meno della metà degli intervistati vive con altri preti (48%), la maggior parte con uno (29,3%). Un terzo ha frequentato il corso teologico istituzionale ma senza conseguire il titolo del baccellierato. Un altro terzo ha conseguito questo titolo. Un quinto possiede un titolo superiore: licenza o dottorato in materie ecclesiastiche, laurea civile, specializzazione dopo la laurea. E da notare che i sacerdoti diocesani di Padova sono 806. Quindi, il campione è rappresentativo dell’intero clero padovano.

 

L’analisi dei risultati

I preti che hanno partecipato all’indagine sono stati suddivisi in sei gruppi per poter distinguere individui con caratteristiche diverse. Di questi sei gruppi, due sono grandi, cioè molto numerosi, quattro sono piú piccoli, cioè contenenti un numero limitato di sacerdoti. Il primo gruppo numeroso è caratterizzato da bassi livelli di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di alta realizzazione personale. Su 321 preti sono 124 quelli per i quali «tutto va bene». secondo gruppo numeroso, che comprende anch’esso 124 preti, è all’antitesi del primo, perché è caratterizzato da alti livelli di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e bassa realizzazione personale. Sono questi i sacerdoti «bruciati» nel loro ministero e bisognosi di opportune misure di sostegno e di recupero.

Il piú numeroso dei quattro gruppi minori formato da 28 preti «insoddisfatti», con basso esaurimento emotivo, bassa depersonalizzazione e bassa realizzazione personale. Non hanno particolari problemi di burnout, ma sono scontenti dei frutti del loro ministero. Il secondo è degli «stanchi», 19 preti con alto esaurimento emotivo e bassa depersonalizzazione e realizzazione personale, che non reggono alla forte pressione emotiva e/o fisica. Il terzo è quello «del ruolo»: 12 preti con basso esaurimento emotivo e alta realizzazione personale con una depersonalizzazione che tende alla soglia critica. Sono preti che vivono il ministero come il ruolo di chi dispensa servizi religiosi senza sentirsi pastore. Il quarto è degli «efficienti sofferenti»: 14 preti con alta realizzazione personale e alti esaurimento emotivo e depersonalizzazione che sanno di svolgere bene il loro compito ma, contemporaneamente, avvertono fortemente il disagio della condizione nella quale si trovano.

Sono degne di nota alcune osservazioni degli autori della ricerca. La coabitazione con altri preti o altre persone non incide sui profili citati, almeno per quanto riguarda i due gruppi piú numerosi. Ma i preti per i quali «tutto va bene» vivono per lo piú da soli come anche il 58% degli «stanchi», mentre i due terzi degli «efficienti sofferenti» vivono con altri sacerdoti. I due terzi dei sacerdoti giovani, di età compresa tra i 25 e i 29 anni, rientrano nel gruppo piú a rischio, forse a motivo di crisi episodiche legate all’età e alla scarsa esperienza. Tra i preti cinquantenni si riscontra la situazione migliore, e tra gli ultrasettantenni aumentano le situazioni di disagio. [...] Sui cappellani di ospedali, sui confessori e sugli assistenti di seminario, ossia sui ministeri legati particolarmente all’aiuto e all’ascolto, l’istruzione riduce 1a depersonalizzazione e accresce la realizzazione personale. Agisce invece negativamente su quest’ultima il numero sia delle ore settimanali di attività sia degli anni di sacerdozio, segni forse di stanchezza dovuta a lavori emotivamente impegnativi svolti per lungo tempo.

 

Le cause del «burnout»

Gli autori della ricerca hanno posto ai preti partecipanti una domanda: quale fossero, a loro giudizio, le cause del burnout tra i preti diocesani. E, per non influenzarli, hanno taciuto inizialmente sui risultati delle ricerche scientifiche sulle cause del burnout. Le risposte dei sacerdoti offrono un panorama variegato sulle cause del fenomeno come sono intuite all’interno del clero diocesano. Alcuni sacerdoti individuano come causa principale o la carenza di applicazione alla vita interiore o la qualità dell’interiorità nel soggetto in burnout. Parecchie altre risposte prendono in considerazione le cause esterne al soggetto. Il lavoro pastorale è vissuto spesso come un peso sia per la mole degli impegni sia per l’invito a rifarsi continuamente alle indicazioni diocesane sia perché espone emotivamente il soggetto che è frequentemente a contatto con situazioni umane di disagio. Quel lavoro è spesso frustrante per il sacerdote che vive la spiacevole sensazione di offrire un «prodotto» che non sembra corrispondere alla domanda reale della gente e intanto richiede al sacerdote lo stress di affrontare situazioni, a volte imprevedibili, quasi mai programmabili.

L’insorgenza del burnout è anche messa in relazione con la condizione celibataria, che, secondo alcuni preti, crea una vita diversa e artificiosa, esposta alla solitudine affettiva e all’implosione dei sentimenti. Altra possibile causa di burnout è il rapporto con l’istituzione. Alcuni sacerdoti ritengono che essa tenda a creare l’impossibilità a comunicare tra pari quel burnout che dipende dalla funzione dei superiori. Ciò aggrava oggi la crisi di quei preti che si interrogano sul significato del loro ruolo sempre piú incerto, e privo dell’antico potere, nella società attuale. Non sono mancate voci di preti che inseriscono anche la formazione ricevuta tra le possibili cause di burnout. In questi casi, ci si riferisce specialmente all’eccessiva insistenza, negli anni della formazione, sul dono di sé agli altri e alla mancata cura per il soggetto e per una vera vita di comunione con il presbiterio. Abbiamo già detto che al burnout sono esposti maggiormente i preti giovani. È interessante perciò osservare che i viceparroci hanno lamentato il peso su di loro delle decisioni del parroco come causa della sindrome.

Sono sei le cause di burnout individuate da C. Maslach e M. Leiter nel 1997: sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo su di esso, insufficiente gratificazione, venir meno del senso di appartenenza comunitario, assenza di equità percepita nel proprio trattamento, percezione di un contrasto tra i valori propri e quelli dell’organizzazione. A giudizio dei partecipanti, la quarta, la prima e la sesta sono le cause principali della sindrome. Meno importanti la seconda e la terza. La quinta è stata giudicata irrilevante (2).

 

Riflessioni pastorali

Gli autori della ricerca concludono il loro saggio con una serie di considerazioni che formano la parte del loro lavoro piú estensibile ad altri cleri e anche ai preti religiosi. Sono pochissimi i sacerdoti che hanno sentito parlare di burnout. Pertanto, un’informazione su di esso, sulle sue cause e sulle strategie per uscirne sarebbe utile e auspicabile. A nessun prete la sindrome cade addosso all’improvviso. La crisi dei preti giovani impegnati in parrocchia è preparata dal ritrovarsi in una realtà completamente nuova rispetto a quella immaginata prima dell’ordinazione. Successivamente, l’impatto con le frustrazioni generate dal contatto con i fedeli, gli insuccessi pastorali, le difficoltà di relazionarsi e spesso convivere con il parroco, la diminuzione del proprio tempo libero fanno il resto. E perciò indispensabile aver cura dei sacerdoti nei loro primi anni di ministero, perché in questi anni è piú grande il pericolo di burnout.

Invece, la crisi dei preti di età compresa tra i quaranta e i cinquant’anni è tipica dell’età, non nasce cioè dal confronto con una situazione nuova. Rispetto ai preti giovani, che possono sperare in un futuro migliore, e ai preti piú anziani, che conoscono le difficoltà del ministero e i modi per superarle, molti quarantenni/cinquantenni soffrono la consapevolezza che le loro difficoltà non sono superabili a breve e a medio termine. Anche perché, essendo già stati per anni parroci e viceparroci, sanno distinguere tra le difficoltà contingenti, superabili con un mutamento di sede, e quelle legate alla stessa condizione di sacerdote. D’altra parte, pur avendo bisogno di aiuto, sono restii a chiederlo e a riceverlo sia perché le delusioni degli anni trascorsi li precipitano in atteggiamenti di cinismo e di sfiducia verso l’istituzione della Chiesa sia per il pudore di chiedere che li porta a pensare che l’uomo adulto deve saper dare da solo soluzione ai propri problemi.

Maggior cura dovrebbe essere riservata al controllo dei sentimenti, nel senso che i preti dovrebbero essere preparati o educati a gestire le faticose relazioni quotidiane con ogni genere di richieste. Anche da questo punto di vista, oltre che per capire se stesso, è consigliabile che il sacerdote possegga un notevole grado di istruzione. Neppure deve essere sottovalutata la vicinanza dei superiori e dei compagni di ministero. Tra le cause non secondarie di burnout c’è, infatti, la sensazione del disinteresse del presbiterio e dei fedeli, la sofferenza cioè dell’incomprensione e dell’isolamento che non raramente si configura come incoerenza percepita, nei presbiterio e nei fedeli, tra i valori proclamati come prioritari e la prassi della vita.

In un passato neppure tanto lontano, era normale avere un prete in ogni parrocchia, data l’abbondanza delle vocazioni. Oggi, e ancor piú nel prossimo futuro, si renderà necessaria l’istituzione di unità pastorali con le quali alcune parrocchie sono affidate a un numero di sacerdoti inferiore rispetto a quello delle parrocchie. Il che comporta per i preti un sovraccarico di lavoro per garantire il servizio liturgico e apostolico e da tale superlavoro deriva il rischio di una maggiore depersonalizzazione, di una minore realizzazione personale e di un piú forte esaurimento emotivo: cioè il rischio di un piú facile burnout. Vi potranno resistere soltanto i preti che riusciranno a darsi totalmente al loro ministero, facendo coincidere con questo la loro realizzazione personale. E saranno i preti che, secondo la formula del Couturier modellata sulla spiritualità eucaristica, accetteranno di «essere mangiati vivi». Ma forse, a questo punto, si dovrebbero studiare anche i probabili effetti negativi che il superlavoro potrebbe generare sulla psicologia del sacerdote o almeno sulla psicologia di alcuni preti con un inevitabile riflesso sulla vita della comunità cristiana (3).

Notiamo che gli autori della ricerca, secondo il metodo del loro lavoro, si sono limitati a qualche cenno sulla funzione positiva che una regolare vita spirituale esercita sui sacerdoti variamente provati nel nostro tempo. Da parte nostra, insistiamo sull’importanza di questo collaudato presidio del ministero sacerdotale e ne lamentiamo l’affievolimento nella coscienza e nella pratica di alcune fasce di clero. C’è un elemento portante della vita spirituale che, fedelmente coltivato, può riverberarsi con effetti benèfici sull’intera esistenza del prete. Lo si chiamava, una volta, meditazione. Oggi va sotto il nome di lectio divina.

Quale che sia la sua definizione, sono importanti il suo esercizio e 1a sua funzione. La riflessione giornaliera sulla Parola di Dio o sugli scritti dei grandi autori spirituali o sui documenti salienti della Chiesa ravviva nel sacerdote la fede non soltanto nella storia della salvezza e nelle verità rivelate ma anche nel suo ministero pastorale, rinnovandone le motivazioni profonde. Gli insegna a guardare con lo sguardo di Dio il senso della sua pochezza personale e dei suoi fallimenti. Lo educa, giorno dopo giorno, a confidare in quella grazia che sorregge i deboli e gli sconfitti della vita che vanno avanti con umiltà e amore. Sono valori, questi, non osservabili con gli strumenti dell’indagine sociologica. Ma sono pur sempre i valori vissuti in silenzio dai preti migliori che sperano contro ogni evidente speranza.

 

 

 

 

 

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(1) Cfr. P. BARZON - M. CALTABIANO - G. RONZONI, «Il burnout tra i preti di una diocesi italiana», in Orientamenti Pedagogici 53 (2006)313-335; G. RONZONI (ed.), «Preti “bruciati”», in Aggiornamenti Pastorali, 2007, n. 2, 8-21.

(2) Cfr. C. MASLACH - M. LEITER, Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro, Trento, Erickson, 2000.

(3) Cfr. L. SPERRY, Psicologia, ministero e comunità, Bologna, Edb, 2007; L. BALUGANI «Il presbitero e le sue “patologie”», in Settimana, 25 marzo 2007, n. 12, 10.

 

 

 

 

 

Cfr. MUCCI G., Il «burnout» tra i preti, in La Civiltà Cattolica, III (2007), 473-479.