Il celebret (letteralmente: "che celebri") indica il permesso di celebrare riconosciuto a un sacerdote cattolico. Oggi consiste perlopiú in un modulo prestampato, oppure in un semplice cartellino. La sua forma varia da diocesi a diocesi: esso può essere piú o meno elegante, con o senza fotografia, magari plastificato. Sostituisce quella che il Codice chiama litterae commendaticiae (la "lettera di presentazione" dell'Ordinario o di un Superiore) e che le traduzioni - a partire da quella italiana piú diffusa (1) - rendono con un improbabile plurale: "lettere commendatizie". Versione probabilmente errata, come segnalano le buone grammatiche di latino fra le particolarità della prima declinazione (litterae-litterarum significa "lettera, epistola", al singolare), nonché poco realistica, come suggerisce il senso pratico (con quante "lettere commendatizie" dovrebbe viaggiare il povero sacerdote?!). Dettagli grammaticali a parte, resta un fatto: benché dalla litterae commendaticiae si sia passati al meno pomposo celebret, ancor oggi un documento che attesti la facoltà di celebrare ha un senso e un'utilità. Non sono rari, infatti, i casi di persone che illegittimamente salgono all'altare e si rendono protagoniste di azioni liturgiche non valide. Basti vedere i prossimi tre esempi, particolari ma al tempo stesso indicativi

 

 

Fra manie religiose e imbrogli a scopo di lucro

1. Nel 1978 varie riviste diocesane pubblicavano la seguente notifica: «Questa Curia è stata informata che pervengono ai parroci e Rettori di Chiese, richieste di intenzioni di Messe, sottoscritte dal sedicente Mons. Vittorio Maria F., vescovo titolare di Tessalonica, residente a Boscoreale. La Curia vescovile di Nola, nella cui giurisdizione si trova Boscoreale, dietro richiesta di questa Curia ha precisato che il detto Vittorio Maria F. non ha mai ricevuto alcuna ordinazione nella Chiesa cattolica, e quindi non può esercitare il ministero sacro sotto qualsiasi forma. Della posizione del suddetto Vittorio Maria F. è stato informato il Ministero dell'Interno - Direzione Generale degli Affari di Culto - da parte della Nunziatura Apostolica in Italia. Si diffidano pertanto i sacerdoti diocesani dall'inviare somme di denaro, specialmente intenzioni di messe, al sopra citato individuo» (2).

2. Nel marzo 1989, la Curia di Milano notificava a mezzo della rivista diocesana il seguente comunicato: «A complemento di quanto pubblicato su Insieme del 1º maggio 1988 riguardo al sig. Luigi di Francia (Luigi del Volto Santo), la cui presenza è stata ripetutamente segnalata in diverse parrocchie della diocesi, si precisa quanto segue. Come risulta da una comunicazione del Vicario Generale della Curia di Nola datata 10 aprile 1984, il Di Francia è un sedicente sacerdote oriundo della diocesi di Pozzuoli che svolge atti di culto senza alcuna autorizzazione. Egli dice di essere stato ordinato sacerdote da un Vescovo ortodosso e non riconosce l'autorità del Romano pontefice e pertanto è fuori della comunione con la Chiesa cattolica. Si ammoniscono ancora i fedeli a non partecipare a presunti atti di culto o a manifestazioni di carattere pseudo-religioso da lui promosse. Si raccomanda ai parroci di vigilare perché i fedeli non si lascino trarre in inganno. La presente nota venga portata a conoscenza dei fedeli e in particolare di quelli residenti nel decanato di Asso» (3).

3. Nel dicembre 1990 l'ordinariato vescovile di Padova diffondeva il seguente comunicato: «Giungono a questa Curia diocesana sempre piú frequenti richieste d'informazione e di chiarificazione a proposito di celebrazioni, esorcismi, riti e cerimonie compiute da un certo Gabriele Basmagi di anni 47, nato ad Aleppo (Siria) e residente a Padova. Dopo aver espletato accurate indagini, la Curia vescovile di Padova comunica: 1) Il Basmagi non è sacerdote cattolico; richiesto di esibire un attestato della sua ordinazione presbiterale non lo ha fatto, né voluto fare. 2) Secondo informazioni fornite da S.S. Ignatius Zakka I Iwas, Patriarca Siro-Ortodosso d'Antiochia, il Basmagi sarebbe stato ordinato sacerdote illecitamente da un vescovo Siro residente in Brasile. 3) Il Basmagi ha fondato una associazione di cosiddetto "apostolato missionario" denominata "Chiesa cattolica ortodossa dei Siri d'Antiochia" insieme con il sig. Vittorio Maria F. Questi è un noto "vagans" italiano, che da alcuni anni passa da un gruppo ad un altro ed è stato piú volte incriminato per truffa dall'autorità giudiziaria. Il Patriarca Siro-Ortodosso di Antiochia, che mantiene fraterni rapporti ecumenici con la Santa Sede, ha espresso la sua preoccupazione per l'attività del Basmagi, il quale abusa del nome della Chiesa Siro-Ortodossa. 4) Il Basmagi ha tratto in inganno molte persone. Ciò premesso, la Curia vescovile di Padova dispone quanto segue: 1) Viene proibito in via assoluta al Sig. Basmagi G. di presentarsi e agire in nome della Chiesa cattolica e di compiere qualsiasi celebrazione e cerimonia liturgica, nelle chiese e in luogo di culto appartenente alla Diocesi di Padova. 2) Si diffida il suddetto signore dal compiere esorcismi, riti e cerimonie anche in privato, inducendo nell'errore i fedeli cattolici. 3) Si invitano tutti i fedeli a non partecipare alle suddette illecite celebrazioni e a non dare alcun credito alle assicurazioni o minacce che il suddetto signore dovesse proferire, presentando, se del caso, regolare denuncia alla competente autorità. Quanto sopra disposto viene dettato dal grave obbligo che incombe sui Pastori a tutela della fede cristiana, e per il mantenimento delle fraterne relazioni che la Chiesa Cattolica intrattiene con la Chiesa Siro-Ortodossa di Antiochia, la quale è preoccupata di salvaguardare il suo buon nome» (4).

Questi sono solo tre casi tra i tanti che sarebbe possibile citare. Se ci chiediamo cosa possa indurre un non sacerdote a spacciarsi per sacerdote o vescovo e ad esercitare determinati atti di culto, due sembrano le motivazioni piú facilmente ravvisabili: la volontà di truffare, quasi sempre, a scopo di lucro (ciò vale soprattutto per la Messa, cui è annessa l'offerta del fedele) oppure una "mania religiosa". La lettera di presentazione o celebret ha anche lo scopo di arginare gli abusi connessi a tali fenomeni. Il nuovo Codice ne parla al c. 903 (5).

 

 

Il c. 903 e le sue fonti

«Un sacerdote sia ammesso a celebrare anche se sconosciuto al rettore della chiesa, purché esibisca la lettera commendatizia (litteras commendatitias... exhibeat) del suo Ordinario o del suo Superiore, rilasciata almeno entro l'anno, oppure si possa prudentemente ritenere che non sia impedito di celebrare» (c. 903).

Il contenuto essenziale della norma è antico, come indicano le fonti del canone (6). Infatti se il rimando immediato è al c. 804 del Codice 1917, quest'ultimo si radica nei canoni del Concilio di Trento e nel Decreto di Graziano che a sua volta cita il c. 13 del Concilio di Calcedonia (a. 451). Procedendo dagli inizi, dunque, troviamo queste prescrizioni: «I chierici e i lettori forestieri non devono assolutamente compiere un servizio liturgico in un'altra città senza le lettere di presentazione del proprio vescovo (praeter commendaticias litteras sui episcopi nusquam penitus ministrare debere)» (7).

Piú ampio e motivato il testo del tridentino: «Se riconosciamo che nessun'altra azione compiuta dai fedeli cristiani è cosí santa e cosí divina come questo tremendo mistero (il santo sacrificio della messa) [...] appare altrettanto chiaro che si deve usare ogni impegno e diligenza perché esso venga celebrato con la maggior purezza e trasparenza interiore e con atteggiamento esteriore di devozione e pietà. E poiché, sia per la corruzione dei tempi che per la negligenza e malvagità degli uomini, si sono introdotti molti elementi estranei alla dignità di tanto sacramento [...] questo santo sinodo stabilisce che i vescovi diocesani si diano cura e siano tenuti a proibire ed eliminare quanto è stato introdotto dall'avarizia, che è servitú degli idoli, o dall'irriverenza, difficilmente separabile dall'empietà, o dalla superstizione, falsa imitazione della vera pietà [...] Per evitare l'irriverenza, ognuno, nella sua diocesi, vieterà che qualsiasi prete vagabondo o sconosciuto possa celebrare la messa. Inoltre non permetteranno a nessuno pubblicamente e notoriamente colpevole di delitti di servire al santo altare» (8).

Nella sessione successiva, la XXIII, la questione veniva ripresa e cosí sintetizzata nel Decreto di riforma: «Nessun chierico straniero privo di lettere commendatizie del proprio ordinario sarà ammesso da un vescovo a celebrare i divini misteri e ad amministrare i sacramenti (sine commendatitiis sui ordinarii litteris ab ullo episcopo ad divina celebranda et sacramento administrando admittatur)» (9).

 

 

Qualche rilievo

Nel vigente Codice, la norma è collocata nel contesto dei sacramenti, e in particolare tra quelle riguardanti "il ministro della santissima eucaristia" (Libro IV, parte I, cap. I, art. 1). Cosí era anche nel Codice del 1917 (Libro III, De rebus; parte I, De sacramentis, cap. 1, De sacrosancto Missae sacrificio). Da questa prospettiva, pare di capire che la necessità del celebret, da richiedere ed esibire, sia da restringere al solo caso della celebrazione della Messa. Le fonti antiche testimoniano invece un suo piú ampio utilizzo. Esse, e inequivocabilmente il tridentino, esigono la lettera di presentazione sia per la celebrazione dei divini misteri sia per l'amministrazione dei sacramenti in genere. Da un punto di vista pratico, l'antica regola sembra essere quella piú conveniente. Perché, infatti, garantirsi solo per una lecita e valida celebrazione della messa, e non curarsi adeguatamente, ad esempio, della lecita-valida celebrazione del sacramento della confessione? Naturalmente il discorso può essere esteso anche agli altri sacramenti, ma i due citati sono quelli per i quali l'illecito può essere piú facilmente compiuto, sia perché sono i sacramenti piú celebrati, sia perché sovente affidati anche a sacerdoti estranei alla parrocchia o alla diocesi.

Per quanto riguarda il sacramento della penitenza, sappiamo che il Codice prevede che la concessione della facoltà di ricevere abitualmente le confessioni deve essere data "per iscritto" al sacerdote (c. 973) e quindi si potrebbe richiedere il documento che comprova l'essere in possesso delle facoltà necessarie. Naturalmente ne deriva che, ogni volta, il sacerdote in trasferta debba portarsi con sé almeno due documenti: quest'ultimo (le cosiddette facoltà) e il celebret. Non sembri pignoleria, se aggiungiamo, che, a rigor di logica, al sacerdote che intende celebrare, sarebbe quanto mai opportuno chiedere anche una tessera ecclesiastica di identità: essa, magari attraverso una foto, dovrebbe comprovare che il latore del documento sia effettivamente la persona cui il documento si riferisce. Tornando al celebret, il c. 903 aggiunge che la lettera commendatizia - per fare fede - deve essere rilasciata da non piú di un anno (litteras... saltem intra annum datas). È questa una particolarità introdotta dal nuovo Codice (10), e, per certi aspetti essa può apparire inspiegabile: data la grande possibilità di spostamento che oggi i sacerdoti hanno e di cui usufruiscono abbondantemente (si pensi alle innumerevoli gite-pellegrinaggi che vedono protagonisti i sacerdoti in Italia e all'estero!) in pratica essa costringerebbe le Curie a rilasciare, ogni anno, un nuovo celebret per ogni sacerdote.

 

 

Ripensare il celebret

Considerando quanto abbiamo detto, è forse necessario ripensare il nostro classico documento, e magari tentare, già a partire da qui, una qualche semplificazione degli aspetti burocratici delle nostre Curie. Prima di illustrare un'ipotesi, però, richiamiamo le esigenze cui il nostro documento dovrebbe rispondere: 1. è un documento che deve dare garanzie a chi non conosce la persona: dovrebbe pertanto poter essere facilmente interpretato (il che suscita anche il problema della lingua in cui è redatto); dovrebbe non essere facilmente contraffatto; dovrebbe permettere di verificare la corrispondenza tra la persona che lo esibisce e quella a cui si riferisce (il che renderebbe necessaria la presenza di una fotografia); 2. nella linea di una semplificazione, in un unico documento potrebbero essere riassunte e le facoltà per la confessione di cui al c. 973 e la dichiarazione che il sacerdote può celebrare lecitamente l'eucaristia (cf. c. 900). Ciò premesso, [...] viene proposto un [modello] pensato in linea con questi criteri. Questo documento vuole rispondere, oltre alle esigenze canoniche, anche ad esigenze pratiche. Ciò spiega alcune sue caratteristiche, quali:

1. Il formato tessera e la plastificazione (che lo rendono facile da tenere con sé ma difficile da contraffare e non soggetto a veloce deterioramento).

2. La dichiarazione, sulla facciata anteriore e in lingua nazionale dell'identità del sacerdote, della sua ordinazione e della sua incardinazione.

3. L'aggiunta della fotografia.

4. La dichiarazione, sul retro e in lingua latina, del fatto che il sacerdote è munito delle facoltà abituali per confessare e può celebrare lecitamente l'Eucaristia.

La lingua latina (che ogni sacerdote, in teoria, dovrebbe un po' conoscere) vorrebbe permettere in ogni luogo la comprensione delle informazioni essenziali. Il documento, naturalmente, sarà firmato e timbrato dall'autorità che lo rilascia. Nella parte che costituisce il vero e proprio celebret è volutamente omessa la data di rilascio; al contrario, in calce alla sezione relativa all'identità (facciata anteriore), sotto la data di rilascio, è stata posta l'annotazione ad quinquennium. Con questo accorgimento si intenderebbe evitare il rilascio annuale del celebret. In altre parole: delle due diverse parti, quella di identità andrebbe rinnovata ogni cinque anni, e la cosa consentirebbe anche un certo "controllo" sul celebret stesso; il celebret verrebbe invece inteso come tacitamente rinnovato di anno in anno, per il semplice fatto che il sacerdote sia in possesso della tessera ecclesiastica.

Qualcuno si chiederà se la prassi sia corretta e in linea con il dettato codiciale. Riteniamo di sí, in quanto questa può essere considerata un'ulteriore e possibile determinazione dell'Ordinario (11). In ogni caso, a prescindere dall'esempio proposto, è importante rivalutare l'utilità del celebret: dotare tutti i sacerdoti di questo documento e sollecitare a richiederlo a confratelli non conosciuti non significherà burocratizzare la vita ecclesiale, ma sarà un modo per difenderne la dignità.

 

 

 

 

Cfr. MIRAGOLI E., Il celebret, in Quaderni di Diritto Ecclesiale (4/1994), 435-442.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

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(1) Cf. Codice di diritto canonico. Testo ufficiale e versione italiana, UECI, Roma 1983. Cosí anche il Commento al Codice di Diritto canonico della Pontificia Università Urbaniana (Roma 1985). Traducono al singolare, invece, Il Codice di Diritto canonico. Commento giuridico-pastorale, Napoli 1988 di L. Chiappetta, e le traduzioni spagnole (carta comendaticia): cf. Codigo de derecho canonico, EUNSA, Pamplona 1983 e Codigo de derecho canonico, BAC, Madrid 1993. Ciò premesso, eventuali plurali verranno usati per rispetto dei testi citati

(2) Cf. per es. «La Diocesi di S. Bassiano. Bollettino ufficiale per gli atti vescovili e della Curia di Lodi» 5 (1978) 193.

(3) Ibid. 6 (1989) 146.

(4) Da lettera circolare pro-manuscripto.

(5) Un canone analogo si trova pure nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (c. 703).

(6) PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI AUTHENTICE INTERPRETANDO, Codex Iuris Canonici fontium annotatione et indice analytico-alphabetico auctus, Città del Vaticano 1989.

(7) Concilio Calcedonese, c. XIII, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura dell'Istituto per le scienze religiose, EDB, Bologna 1991, p. 93.

(8) Concilio di Trento, sessione XXII, Decreto su ciò che bisogna osservare ed evitare nella celebrazione della messa, in ibid., p. 736.

(9) Concilio di Trento, sessione XXIII, Decreto di riforma, c. XVI.

(10) La lettura degli atti della Commissione per la revisione del Codice non permette di capire il perché di questa aggiunta, introdotta nel 1978 su proposta di un Consultore. Cf. «Communicationes» 13 (1981) 240; 15 (1983) 191-192.

(11) Nella primitiva elaborazione del nostro canone (cf. «Communicationes» 13 [1981] 240), il testo era completato da un paragrafo secondo che diceva: «Integrum est loci Ordinario hac de re normas magis determinatas edere...». In seconda istanza il testo fu soppresso, poiché giudicato non necessario, poiché - fu notato - il vescovo «può sempre dare ulteriori determinazioni in materia» (L. cit.).

 

 

 

 

N.B.

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