CONGREGATIO PRO CLERICIS

«Universalis Presbyterorum Conventus»

«Sacerdoti, forgiatori di Santi per il nuovo millennio»

Sulle orme dell'Apostolo Paolo

 

Santità trinitaria del Sacerdote

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti - Vasto

Malta

19 ottobre 2004

 

 

 

 

 

 

La santità come bellezza: fra utopia e disincanto.

Introduzione

Come presentare la santità alle donne e agli uomini di questa nostra inquieta stagione post-moderna? Come renderla attraente ai giovani, al punto da poterli invitare a giocare per essa la propria vita? È questa la domanda da cui occorre partire per parlare della santità, in particolare quando si tratta di quella del sacerdote e della proposta della vita presbiterale ai giovani come di un'esistenza veramente significativa e piena. È la via della bellezza ad aiutarci a scoprire il senso e il fascino della santità per il tempo in cui ci è dato di vivere: l'essere "separati" per Dio, attratti da Lui ed a Lui destinati in un patto d'amore liberamente contratto, è il significato profondo della santità secondo la concezione biblica. In questa "separazione" d'amore, in questo destinarsi a Lui per appartenerGli senza condizioni o riserve, si realizza anche la piú profonda unità con Lui in questo mondo, quell'unità che secondo il racconto della creazione è anche la vera bellezza: l'ebraico "tov" - il termine che ricorre come un canto fermo nel commento divino all'opera dei sei giorni (cf. Gen 1,4.10.12.18.21.25.31: "E Dio vide che ciò era buono/bello") - dice inseparabilmente la bontà e la bellezza del creato agli occhi del Creatore. In rapporto alle otto opere di Dio la parola ricorre sette volte: secondo la tradizione rabbinica non è detta dell'opera del secondo giorno perché in esso Dio compie la separazione delle acque dalle acque, della terra dal cielo. Ciò significa che il bello è unità, non separazione, domanda di unione con Dio e desiderio del cielo: bello è ciò che nutre la nostalgia dell'Eterno, lanciando ponti verso Colui per cui siamo stati fatti. Perciò la santità, separazione da tutto per essere uniti al solo necessario, è anche e profondamente bellezza: la santità separa per unire, è distacco che accende e purifica il desiderio dell'Eterno, è sete del cielo che apre al dono della bellezza nascosta...

Di questa santità, intesa come bellezza e unità con l'Eterno, la modernità, tempo della ragione forte ed emancipata, ha perso il senso e la strada. Perciò l'epoca moderna è il tempo dell'utopia: dove la ragione moderna pensava di aver tutto compreso, la volontà di potenza delle ideologie ambiva ad imporre alla realtà complessa e drammatica la totalità senza ombre dell'idea, rincorrendo l'aspirazione utopica di un compiuto regno dell'uomo. In questa ambizione, affamata di totalità, non restava spazio per la Trascendenza, perché non può esserci posto per il divino lí dove non siano riconosciuti l'ulteriorità e l'indicibilità del mistero: la bellezza evoca, non cattura, suscita, non arresta, invoca, non presume. Perciò, nel tempo dell'utopia velleitaria della ragione adulta la bellezza è stata respinta, esiliata o ridotta a calcolo, a volgarissimo "kitsch" ("fango", "immondizia", dal verbo "kitschen" = spazzare il fango dalla strada): "La bellezza disinteressata - scrive Hans Urs Von Balthasar, il teologo che piú di ogni altro ha avvertito l'epocale attualità del bello - senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza" (Gloria. 1. La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1975, 10). La conseguenza drammatica di questo esilio della bellezza sta nella inevitabile perdita del senso del vero e del bene: "In un mondo senza bellezza... anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l'evidenza del suo dover-essere-adempiuto... In un mondo che non si crede piú capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica" (ib., 11).

Ciò di cui allora v'è urgente bisogno al compimento della parabola dell'epoca moderna è un recupero della bellezza della verità e del bene, che li faccia amare, poiché "non si può amare che il bello" ("Non possumus amare nisi pulchra": Agostino, De musica, VI, 13, 38). Questo vuol dire che non basta piú testimoniare l'alterità di Dio, la trascendenza del bene e del vero rispetto al mondo, compito pur necessario e prezioso in tante epoche: bisogna testimoniare la bellezza dell'appartenenza a Dio, la forza attraente della santità.

Ad un'umanità che tanto intensamente ha scoperto la mondanità del mondo e ha rincorso il progetto di emanciparsi da ogni dipendenza estranea all'orizzonte terreno, è necessario piú che mai proporre la verità amabile, il bene attraente, lo scandalo al tempo stesso fascinoso e inquietante della santità di Dio.

Soltanto chi ha il senso della bellezza può anche annunciare il vero e il bene come significativi per l'umanità resa ormai consapevole della piena dignità di tutto ciò che è storico e mondano. Nel tempo del disincanto e della ragione debole, dove la massificazione delle ideologie ha ceduto il posto alla folla delle solitudini del regno del frammento, in questa postmodernità nichilista e debole, rinunciataria di fronte alla verità e al bene perché sospettosa nei confronti di tutti gli orizzonti globali di senso, di cui l'ideologia aveva abusato, solo la bellezza della santità intesa come appartenenza incondizionata all'Eterno può offrirsi come ciò per cui valga la pena di vivere e che sia capace di vincere il dolore e la morte, dando speranza alla vita.

Fra utopia e disincanto sarà la riscoperta del bello che aiuterà ad incontrare il Tutto nel frammento: e questa riscoperta equivarrà a riscoprire la santità dell'incondizionato destinarsi a Dio come progetto credibile e attraente per dare senso e valore alla vita. Solo il riconoscimento dell'offrirsi dell'infinito nel finito nella bellezza di una vita santa, solo la comprensione della verità e del bene come sorgente e patria di bellezza, potranno parlare efficacemente al mondo umano, "troppo umano", che è il nostro mondo post-moderno. Esso non ha bisogno di prove di forza, dopo le tante offerte dall'ideologia. Esso non ha neanche bisogno di rinunce deboliste, di sterili riflussi nel privato. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è l'offerta dell'eternità nel tempo, dell'onnipotenza nella prossimità dell'amore capace di misericordia e di compassione. Il volto della verità e del bene che piú può attrarre a sé è quello della bellezza umile del crocifisso amore: è il volto che si è espresso una volta e per sempre nel Pastore bello (cf. Gv 10,11), abbandonato sulla Croce per noi: "Quel Logos, in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità, - scrive ancora Hans Urs von Balthasar - cade lui stesso nel buio, nell'angoscia... in un nascondimento, che è proprio l'opposto dello svelamento della verità dell'essere... L'indicativo è perduto, l'interrogativo è rimasto l'unico modo di parlare. La fine della domanda è il forte grido. È la parola che non è piú parola... Anche il Logos, che ha accettato la forma a lui adatta, deve essere privato della sua figura... La parola di Dio nel mondo è diventata muta, nella notte essa non chiede piú di Dio; essa giace sepolta nella terra. La notte che la copre non è una notte di stelle, ma notte di desolazione profonda e di alienazione mortale. Non è un silenzio pieno di mille segreti d'amore, che scaturiscono dalla avvertita presenza dell'amato; ma silenzio di assenza, di distacco, di vuoto abbandono, che arriva dietro tutti gli strappi dell'addio" (Il tutto nel frammento, Milano 1972, 223. 226).

La santità, rivelata come bellezza che salva nel Figlio di Dio crocifisso e abbandonato, è, pertanto, la via per annunciare al mondo la gioia della salvezza che in Cristo gli è stata donata. Riscoprire la bellezza della santità, ed in particolare la bellezza trinitaria della santità sacerdotale, sarà una via preziosa per rispondere alla domanda decisiva su dove e come potrà essere possibile ai naufraghi del mondo moderno di ritrovare la via salutare, l'approdo che salva, rivelato e donato nel Vangelo di Gesú. È quanto tenteremo di fare - sia pur in maniera solo evocativa - nelle riflessioni che seguono, avvicinando successivamente la bellezza della santità trinitaria, il volto del Pastore bello consegnato alla morte per noi e risorto alla vita, e l'identità del presbitero, chiamato a partecipare in modo peculiare della santità e della bellezza di Dio nella sequela del Cristo, Sacerdote della nuova ed eterna alleanza.

 

 

1. La bellezza del Dio tre volte Santo

Quale rapporto c'è fra la bellezza e il Dio tre volte Santo? È l'intera esistenza di Agostino a rispondere a questa domanda: si potrebbe dire che tutta la sua ricerca è stata dominata dai temi, intimamente connessi, della Trinità e del bello (Cf. J. TSCHOLL, Dio e il bello in sant'Agostino, Ares, Milano 1996 (originale tedesco: Leuven 1967). Per un maggiore sviluppo e un'adeguata documentazione delle idee che qui presento rinvio al mio volume La porta della Bellezza. Per un'estetica teologica, Morcelliana, Brescia 19992).

L'interesse per questo secondo tema è predominante nel tempo che precede l'ora della sua conversione, quando diventa chiaro al suo cuore inquieto che non c'è altra bellezza al di fuori di Dio e della santità dell'amarLo. È la struggente testimonianza dell'esclamazione delle Confessioni, in cui il Tu dell'invocazione è rivolto a Colui che è in persona la bellezza da amare: "Tardi Ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti amai!" (X, 27, 38: "Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi!"). Agostino ammette che proprio la bellezza delle creature lo aveva tenuto lontano dal Creatore e confessa che questi lo ha raggiunto con la Sua bellezza per quella via dei sensi, attraverso cui noi percepiamo il bello in ogni suo apparire: "Ecco, Tu eri dentro di me, io stavo al di fuori: qui Ti cercavo e, deforme qual ero, mi buttavo sulle cose belle che Tu hai fatto. Tu eri con me, io non ero con Te. Mi tenevano lontano da Te quelle cose che, se non fossero in Te, non sarebbero. Chiamasti, gridasti, vincesti la mia sordità; sfolgorasti, splendesti e fugasti la mia cecità; esalasti il tuo profumo, lo aspirai e anelo a Te; Ti gustai e ora ho fame e sete di Te; mi toccasti e bruciai del desiderio della Tua pace" (ib.). Udito, vista, olfatto, gusto, tatto sono raggiunti e conquistati dalla bellezza: in un primo tempo da quella delle cose create; quindi, dalla Bellezza ultima, sorgente e meta di ogni altra bellezza.

L'itinerario di Agostino appare cosí come un cammino dalla bellezza alla Bellezza, dal penultimo all'Ultimo, per poter poi ritrovare il senso e la misura della bellezza di tutto ciò che esiste nella luce dell'eterno fondamento di ogni bellezza. Ciò che unifica in modo pregnante questo cammino è il motivo dell'amore: in realtà, la bellezza può tanto su di noi perché ci attrae a sé con vincoli d'amore. È ancora nelle Confessioni che si trova questa considerazione: "Allora... amavo le bellezze inferiori, correvo verso l'abisso e dicevo ai miei amici: Non è forse vero che noi non amiamo che il bello?" (IV, 13, 20). Fra rapimento e corrispondenza, il movimento della bellezza non è che il movimento dell'amore, la via della santità: "ordo amoris" è il mondo della bellezza, come "ordo amoris" è il mondo della santità...

Da dove scaturisce la forza di attrazione della bellezza? Perché ciò che è bello attira l'amore? Agostino pone con estremo rigore queste domande, riflettendo ovviamente a partire dal proprio cammino incontro alla santità di Dio. Due diverse risposte gli si offrono: secondo la prima, la ragione formale della bellezza è nelle cose stesse che ci appaiono belle; secondo l'altra, la ragione del bello è nel soggetto, che ne prova piacere. Detto altrimenti: è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace? Per Agostino la risposta è chiara, precisa: la bellezza di ciò che è bello non dipende dal gusto del soggetto, ma è inscritta nelle cose, possiede una forza oggettiva. La bellezza riproduce nel frammento i "numeri del cielo", rispecchiando nella "forma" finita l'armonia infinita. Proprio cosí, la bellezza è una sola cosa con l'amore, inteso come ordine e corrispondenza degli amanti: e perciò la Bellezza piú alta è l'amore piú alto, la Trinità divina, l'"ordo amoris" nella sua forma suprema: "In verità vedi la Trinità, se vedi l'amore" (De Trinitate VIII, 8, 12). "Ecco sono tre: l'Amante, l'Amato e l'Amore" (VIII, 10, 14).

Questo "ordo amoris" si partecipa alle creature, la cui bellezza sarà l'impronta della Trinità creatrice: "Nella Trinità si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta, il gaudio completo" (VI, 10, 12). È questa attrazione al Bello supremo, è questo amore che ispira l'intero movimento di ritorno del creato al Creatore: la bellezza dell'Amore ultimo suscita l'amore della bellezza nel tempo penultimo, quell'amore che di grado in grado fa percorrere all'uomo interiore la via che porta alla gioia perfetta in Dio tutto in tutti. La via della bellezza si rivela cosí come la via della santità, e quindi come la via della salvezza e della verità: nella divina bellezza tutto è unificato, tutto rivelato nel suo ultimo senso.

La sapienza della bellezza greca è cosí assunta e superata: l'armonia delle forme è la chiave, ma il movimento d'amore della santità porta ben al di là di una bellezza solo mondana, verso la sponda - gustata come anticipo e caparra - della bellezza eterna del Dio Trinità Amore. Questa bellezza ultima è vittoriosa di ogni sua apparente negazione: come tutto ciò che esiste non esiste che per amore, cosí tutto è bello, perché la suprema Bellezza si partecipa in ogni suo oggetto d'amore, anche quando occhi deboli o un cuore ferito dal male sono incapaci di coglierne la trama misteriosa e feconda...

Resta, tuttavia, la domanda: questa bellezza giustifica anche il disordine e il male che devastano la terra? Come dire a chi soffre o patisce miseria e ingiustizia che la sua vita è bella, e il suo esistere è riserva d'amore? La morte della bellezza nell'ora dell'abbandono della Croce è già tutta assunta e per sempre risolta nella vittoria di Pasqua? o la Croce del Figlio chiama a discernere altri percorsi della Bellezza? Agostino spinge qui oltre Agostino...

 

 

2. Cristo, il "bel Pastore", il Santo di Dio

È il genio di Tommaso d'Aquino ad assumere e superare Agostino nella comprensione del rapporto fra la bellezza, la santità e Dio: la via da lui prescelta è quella propriamente cristologica. È la via riassunta nella formula semplice e densa che esprime la bellezza come "crocefisso amore". La chiave interpretativa della bellezza non è per Tommaso quella classica del rimando da forma a forma, dall'armonia mondana all'armonia celeste: non sono i "numeri del cielo" che - riprodotti - evocano l'Eterno. Qui la bellezza abita in un luogo, in un frammento: qui essa si nasconde "sub contraria specie" nel volto di Colui davanti al quale ci si copre la faccia, e che pure è il volto del piú bello dei figli degli uomini (cf. Is 53,3 e Sal 44,3). È la meditazione sulla bellezza costruita a partire da Gesú Cristo, il "bel Pastore" (cf. Gv 10,11): "La bellezza - scrive Tommaso nella Summa Theologica (I q. 39 a. 8 c) - ha a che fare con ciò che è proprio del Figlio". Ed aggiunge a spiegazione di quest'affermazione netta, decisa, che perché ci sia bellezza occorrono tre cose, l'integritas, la proportio e la claritas: "Tre cose richiede la bellezza: integrità o perfezione... debita proporzione o armonia. E luminosità".

Tommaso riconosce la presenza di questi tre aspetti precisamente nel Figlio inviato dal Padre, rivelazione della Trinità. La bellezza ha anzitutto a che fare con l'integritas, perché in essa è il tutto che si affaccia: cosí, nel Verbo incarnato è la totalità del mistero divino che si rivela, è la natura divina che si rende accessibile nella persona del Figlio incarnato, è il tutto dell'Eterno che abita nel frammento del tempo. Come può il Tutto abitare nel frammento? Nel rispondere a questa domanda, Tommaso attinge ai due mondi della sua cultura, alle due anime della sua vita: la cultura dell'Occidente greco-latino e la testimonianza del messaggio biblico, ebraico-cristiano. Il Tutto si fa presente nel frammento quando il frammento riproduce nell'armonia delle parti, nella proporzione e consonanza di esse, l'armonia del Tutto.

È la via per la quale la bellezza è "forma", armonia di rapporti, e "formosus" è il bello: è la via agostiniana, erede dell'anima greca. La proporzione, secondo Tommaso, "corrisponde a ciò che è proprio del Figlio, in quanto egli è l'immagine espressa del Padre". L'altra via per cui il Tutto viene ad abitare nel frammento, è invece per Tommaso quella della claritas: qui non si tratta piú della totalità che si affaccia nell'armonia delle parti, ma di un'irruzione di essa. È come un risplendere, un brillare nella notte, un trapassare il frammento fatto trasparenza di luce: il Tutto non si offre piú solo come proporzione riflessa, ma anche come irradiazione, abisso che si schiude e che trapassa, silenzio donde viene la parola e a cui essa apre. È il bello come irruzione: splendido, irradiante, sfolgorante è il bello.

Questa bellezza Tommaso la riconosce attuata nell'incarnazione del Figlio, dove la luce viene a splendere nelle tenebre: Gesú, in quanto è il Verbo, è "luce e splendore dell'intelligenza". Il Tutto si fa, dunque, presente in Lui, Verbo incarnato, come irradiazione della gloria del Padre. La bellezza è amore rivelato e nascosto, carità crocefissa, consegna del Tutto nel frammento nell'evento dell'Abbandono del Figlio eterno: essa è cosí l'evento simbolico che tiene insieme lo splendore e la forma, l'irruzione e il riposo, pensati a partire dalla discesa di Dio nelle tenebre del Venerdí Santo. È proprio qui che si dischiude il senso piú profondo della meditazione di Tommaso sulla bellezza: la bellezza è tensione, fuoco del rapporto che si crea quando l'Altro irrompe nel frammento e raggiunge spezzandola la cattura dell'identità chiusa in se stessa.

L'esperienza della bellezza sarà allora inseparabilmente visione e riposo, rottura e morte, "agón" e "agápe", lotta ed amore. Nel Signore Gesú una volta per sempre il Tutto ha abitato il frammento, trapassandolo da parte a parte, verso l'abisso della divinità e verso le opere e i giorni degli uomini. La vera bellezza è il "crocefisso amore", la carità donata fino alla fine, e - proprio cosí - la santità dell'esodo da sé senza ritorno, vissuto nella sequela di Colui, che è il piú bello dei figli dell'uomo, l'uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia.

Appare qui in tutta la sua luce la rivelazione contenuta nel Vangelo di Giovanni, quando è detto di Gesú, "il Santo di Dio" (Gv 6,69), che è "il bel Pastore" ("o poimén o kalós": Gv 10,11): sarà l'ora pasquale a rivelare il volto di questa bellezza. Nell'Uomo dei dolori che si consegna alla morte per amore nostro è la bellezza della santità, la bellezza del dono di sé fino alla fine che viene a risplendere. Lo aveva peraltro intuito già Agostino, quando aveva espresso in forma evocativa ciò che Tommaso dice in forma organica e compiuta. Ascoltiamolo: "Due flauti suonano in modo diverso, ma uno stesso Spirito vi soffia dentro. Dice il primo: 'Egli è il piú bello tra i figli degli uomini' (Sal 45,3); e il secondo, con Isaia, dice: 'Lo abbiamo visto: non aveva piú né bellezza, né decoro' (Is 53,2). I due flauti sono suonati da un unico Spirito: essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l'apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: 'Il piú bello tra i figli degli uomini'; 'benché avesse la forma di Dio, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio' (Fil 2,6). Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: 'Lo abbiamo visto: non aveva piú né bellezza, né decoro': questo perché 'spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana' (Fil 2,7). 'Egli non aveva bellezza né decoro' per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L'amore della carità, affinché tu possa correre amando e amare correndo... Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello" (Sant'Agostino, In Ioannis Ep., IX, 9). È l'amore con cui ci ha amati che trasfigura "l'uomo dei dolori davanti a cui ci si copre la faccia" (Is 53,3) nel "piú bello dei figli degli uomini": il crocefisso amore è la bellezza che salva.

Se la via del Vangelo è anzitutto quella della conversione del cuore a Cristo, allora la sequela del Suo amore crocefisso è per eccellenza la via della santità ed inseparabilmente la via della bellezza: anche per il sacerdote, chiamato ad essere "alter Christus", Pastore nell'unico Pastore, bello nella bellezza che salva, rivelata e donata nella morte e resurrezione dell'Umile...

 

 

3. La santità del Presbitero: con Cristo, nella bellezza della Trinità

Un dato evangelico aiuta a riconoscere nella via della bellezza - vissuta come sequela di Cristo - la via della santità, cui tutti i cristiani, ed i presbiteri in particolare, sono chiamati, nella partecipazione alla vita di Dio Trinità Santa: a notarlo in maniera singolare è Pavel Florenskij, il "Leonardo da Vinci russo", genio della scienza e del pensiero teologico e filosofico, sacerdote di Cristo, morto martire della barbarie staliniana. Commentando Mt 5,16 - "Cosí risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" - egli osserva che "'i vostri atti buoni' non vuole affatto dire 'atti buoni' in senso filantropico e moralistico: 'ymón tà kalà érga' vuol dire 'atti belli', rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale - soprattutto un volto luminoso, bello, d'una bellezza per cui si espande all'esterno 'l'interna luce' dell'uomo, e allora, vinti dall'irresistibilità di questa luce, 'gli uomini' lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra cosí sfolgora" (Le porte regali. Saggio sull'icona, Adelphi, Milano 19997, 50). La testimonianza di Gesú si compie grazie allo sfolgorio della bellezza negli atti d'amore del discepolo interiormente trasfigurato dallo Spirito: dove la carità si irradia, lí s'affaccia la bellezza che salva, lí è resa lode al Padre celeste, lí cresce l'unità dei discepoli dell'Amato, uniti a Lui come discepoli del Suo amore crocifisso e risorto.

È lo stesso Florenskij a indicare come questa via della bellezza - irruzione della santità trinitaria nella storia del mondo - si compia in modo eminente nella vita e nell'azione del sacerdote, che è in persona il luogo del misterioso incontro del tempo e dell'eternità, grazie a cui si costruisce l'unità voluta dal Signore. Ricordando una delle sue celebrazioni nella Chiesa sulla collina Makovec, rivolta verso il grande Monastero (la "Lavra") di Sergiev Possad, cuore del cristianesimo russo, cosí descrive la paradossale bellezza della presidenza eucaristica nella liturgia, simbolo dei simboli del mondo, in cui il cielo dimora sulla terra e l'eternità mette le sue tende nel tempo, trasformando lo spazio nel "tempio santo, misterioso, che brilla di una bellezza celeste": "Il Signore misericordioso mi concesse di stare presso il suo trono. Scendeva la sera. I raggi dorati danzavano esultanti, il sole appariva come un inno solenne all'Eden. L'occidente impallidiva rassegnato, e verso di esso era rivolto l'altare, posto sulla sommità della collina. Una catena di nuvole si stendeva sulla Lavra come un filo di perle. Dalla finestra sopra l'altare erano visibili le nitide lontananze e la Lavra dominava come una Gerusalemme celeste. Al Vespero il canto 'Luce di pace' sigillava il tramonto. Il sole morente si abbassava sontuoso. Si intrecciavano e si scioglievano le melodie antiche come il mondo; si intrecciavano e si scioglievano i nastri d'incenso azzurro. La lettura del canone pulsava ritmicamente. Qualcosa nella penombra tornava alla mente, qualcosa che ricordava il Paradiso, e la tristezza per la sua perdita veniva trasformata misteriosamente dalla gioia del ritorno. E al canto 'Gloria a Te che ci hai mostrato la luce' accadeva significativamente che la tenebra esterna, pure essa luce, calava, ed allora la Stella della Sera brillava attraverso la finestra dell'altare e nel cuore di nuovo sorgeva la gioia che non svanisce, quella gioia del crepuscolo della grotta. Il mistero della sera si univa con il mistero del mattino ed entrambi erano una cosa sola" (P. Florenskij, Sulla collina Makovec, 20. 5. 1913, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato 1999, 260 ss.).

Il sacerdote è chiamato a realizzare nella sua vita e con la sua opera questo incontro del "mistero della sera" - ovvero della notte del mondo assetato di luce - e del "mistero del mattino" - ovvero della luce che viene dall'alto per puro dono dell'amore divino trinitario: in questo consiste la sua santità, in questo la bellezza della sua esistenza donata per il Regno di Dio fra gli uomini.

Perciò, se Cristo non è solo la verità e il bene, ma è in persona la bellezza che salva, il sacerdote, "alter Christus" donatore di Cristo e ministro della riconciliazione in Lui, è chiamato a partecipare della bellezza di Lui, ad essere in Lui e per Sua grazia un "pastore bello" che attrae le creature a Dio con vincoli d'amore: e perciò, essere preti ed esserlo con fedeltà incondizionata ed umile non sarà solo vivere un'esistenza utile, ma anche e soprattutto vivere una vita bella, ricca di significato e di passione.

Essere sacerdoti è bello, al di là di ogni misura di stanchezza o di ogni interpretazione solo mondana del mistero ricevuto e donato: nella bellezza di una vita presbiterale spesa senza riserve nella fede con speranza e amore, nella bellezza singolare del poter dire "Questo è il mio Corpo - Questo è il mio sangue" o del rimettere i peccati, è il dono della vera bellezza che passa per le mani, le labbra e il cuore di un prete.

Nascosto con Cristo in Dio, attingendo alle sorgenti della Trinità divina e della sua santità infinita, il sacerdote proprio con la santità della sua vita è il testimone contagioso della Bellezza che salva.

E proprio cosí la sua vita merita di essere vissuta ed annunciata ad altri come possibilità splendida e significativa per la storia degli uomini e la sua meta ultima, la gloria di Dio tutto in tutti, al tempo in cui il mondo intero sarà la patria della Trinità, dimora finalmente del tutto accogliente della bellezza e della santità divine...