Lo sport, soprattutto in epoca moderna, ha goduto di un'attenzione particolare nel mondo ecclesiale a motivo della sua grande valenza educativa e sociale. Il benessere che si ottiene grazie alla pratica sportiva è necessario all'equilibrio e alla perfezione della persona. Le manifestazioni sportive inoltre radunando persone diverse per lingua, stili di vita e idee politiche contribuiscono alla formazione di uno spirito fraterno che non conosce frontiere. Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes sottolinea che: «...gli uomini si arricchiscono con la reciproca conoscenza, anche mediante esercizi e manifestazioni sportive, che giovano a mantenere l'equilibrio dello spirito anche nella comunità e offrono un aiuto per stabilire fraterne relazioni fra gli uomini di tutte le condizioni, di nazioni o di stirpi diverse. I cristiani - aggiunge opportunamente il Concilio - collaborino dunque affinché le manifestazioni e attività culturali collettive, proprie della nostra epoca, siano impregnate di spirito umano e cristiano» (GS 61).

Pio XII in un importante discorso tenuto l'8 novembre 1952 al Congresso scientifico nazionale dello sport affrontò queste tematiche offrendo delle chiare linee di discernimento (cfr. Discorsi ai medici, Roma 1959, pp. 215 ss.). Le attività dell'uomo - precisò - sono qualificate dal loro fine prossimo: lo sport non appartiene per sé alla dimensione religiosa, infatti, il suo fine prossimo è la conservazione e lo sviluppo del vigore fisico, tuttavia questo fine prossimo è ultimamente ordinato al fine ultimo di tutti i fini prossimi, che è la perfezione della persona in Dio. Il Papa rilevava anche che tra i fini prossimi dello sport c'è il dominio sempre piú pronto della volontà sopra il suo principale strumento che è il corpo. Un corpo certamente destinato ad essere travolto dalla mortalità ma con il quale si costruisce pure il destino soprannaturale dell'uomo che nella fede aspira ad essere sopravvestito di immortalità (vedi 2Cor 5,4).

È importante ricordare che il benessere fisico non giova immediatamente e necessariamente al benessere morale dell'uomo. Questa presunzione erronea veniva smentita già nell'antichità nello stesso motto di Giovenale, che è giunto fino a noi nel parlare comune, privato di una premessa importante. Mens sana in corpore sano, è in realtà una confutazione del senso che gli si attribuisce. Giovenale infatti non intendeva affermare che in un corpo sano c'è necessariamente una mente sana, ma che bisogna pregare gli Dei affinché ci diano l'uno e l'altra. La proposizione completa, infatti, è: «Orandum est ut sit mens sana in corpore sano» (Sat., X, 356). Non basta dunque l'esercizio dello sport se questo non è accompagnato anche dalla disciplina interiore.

Lo sport è soggetto alle leggi dell'ascetica che vogliono ordinate dalla ragione l'intero essere dell'uomo. Il solo vigore fisico non può essere perciò il fine unico dello sport: se questo viene privato dell'austerità, se non è accompagnato cioè dal dominio dello spirito sulle membra, il rischio è quello di scatenare l'istintualità, la violenza e la sensualità. La coscienza della propria forza e il successo nella competizione non potranno mai costituire pertanto l'elemento principale di questa attività umana e ben a ragione si afferma che nelle competizioni l'importante non è vincere ma partecipare. La mancanza di successo nello sport non sminuisce certo la dignità umana.

Occorre reagire alla moderna eresia del dinamismo per il quale l'azione ha valore di per sé stessa, indipendentemente dall'oggetto e dal fine. Occorre anche uno sguardo critico, soprattutto quando lo sport si allontana da quella tensione morale che dovrebbe sempre accompagnarlo. Non è scontato, per esempio, che lo sport favorisca, oltre che il dominio dello spirito sulle membra, anche la virtú della lealtà e il rispetto fra gli uomini... e quindi la concordia tra le nazioni. L'esercizio sportivo presuppone certamente la disciplina e l'obbedienza a delle precise regole, anche nella lotta, ma ciò non può essere ritenuto sufficiente.

A testimonianza di ciò stanno le frodi, la violenza, l'intolleranza e il fenomeno degradante del doping. Frodi non solo recenti ma anche datate, come quelle del 1955 in Italia, dove intere squadre di calcio furono degradate per aver corrotto i giocatori delle squadre avversarie. E che dire dei casi estesissimi del 1980 finiti davanti alla magistratura sportiva italiana? Anche gli episodi di violenza sono tutt'altro che recenti. Già nell'ottobre del 1953 l'incontro tra Austria e Iugoslavia richiese una successiva mediazione diplomatica. A Belfast nel dicembre del 1957 i calciatori della nazionale italiana vennero aggrediti dalla folla e si rese necessario l'intervento della polizia. Fenomeno analogo si verificò allo stadio di Lima nel 1964 con decine di morti dopo l'incontro con l'Argentina. Nel maggio 1984 si radunarono a Malta i ministri dello sport di ventidue Paesi europei per cercare un rimedio alla violenza e alle frodi perpetrate nelle arene sportive.

Quanto al mancato rispetto della persona umana non mancano episodi particolarmente gravi. Nel giugno 1955 al circuito automobilistico di Le Mans, una vettura fece strage di numerosi spettatori: non bastarono ottanta morti a fermare la competizione! Infine c'è un fatto storico incredibile che testimonia la violenza e l'odio nazionalistico scatenato da un malinteso senso dello sport: la guerra che per diversi mesi infuriò nel 1969 tra San Salvador e Honduras con tremila morti e dodicimila esuli e che ebbe come casus belli una partita di calcio (cfr. Relazioni Internazionali, 1969, p. 659).

Solo qualche anno prima il card. Dall'Acqua, vicario dell'Urbe, nell'Osservatore Romano del 20 febbraio 1965 aveva esaltato lo sport leggendovi l'acronimo di Salute, Pace, Ordine, Religione e Tenacia: possibile, ma a condizione che esso si informi davvero alla dignità umana messa pienamente in luce solo da una fede autentica.

Paolo VI durante le XX Olimpiadi a Monaco di Baviera, nel 1972, tenne un discorso che fu poi tragicamente contraddetto dalle azioni terroristiche che funestarono quei giochi. Nel discorso il Papa accennò ad una «gioventú sana, forte, agile e bella... rediviva dell'antica forma dell'umanesimo classico, insuperabile per eleganza e per energia; gioventú inebriata del proprio gioco nel diletto di un'attività fine a sé stessa, affrancato dalle avare e severe leggi utilitaristiche del consueto lavoro, leale e lieta nelle piú varie competizioni che vogliono produrre, non offendere l'amicizia». Una gioventú auspicata come: «...immagine e speranza di un mondo nuovo e ideale nel quale il sentimento della fraternità e dell'ordine ci rivela finalmente la pace». Il Papa concluse affermando che: «...lo sport deve essere una spinta alla pienezza dell'uomo e tendere a superarsi per raggiungere i livelli trascendenti di quella stessa statura umana alla quale esso ha conferito non una perfezione statica, ma tesa verso la perfezione totale». Ecco, la perfezione totale è quella che - direbbe l'apostolo Paolo - conduce «...allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13).

Tutte le attività della vita, in quanto capaci di entrare nella finalità morale ad opera della volontà, come lo sport, possono condurre l'uomo alla perfezione: non da sé stesse - è bene sottolinearlo - ma con l'opera della volontà morale e con l'aiuto di Dio. È importante non confοndere la sostanza delle cose rischiando di vedere nello sport una sorta di intrinseca e autonoma "spiritualità". Anche lo sport, se vuole diventare strumento di autentica elevazione, necessita dell'azione soprannaturale della grazia, nella quale tutti siamo destinati a ricevere il premio delle nostre fatiche. Scrive l'apostolo Paolo ai cristiani di Corinto: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitú perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9,24-27).

 

 

 

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