Scrivere è un compito difficile e rischioso. Non è facile né semplice condensare in una serie di parole le riflessioni, le idee, i concetti, i sentimenti, le immagini che scorrono nella mente e che risentono del tempo e degli eventi. È un rischio perché le parole, una volta fissate nelle lettere e incastonate in uno scritto, diventano come morte e spesso non trasmettono più quello per cui erano originariamente state evocate.
È impareggiabile la freschezza di un discorso, di un colloquio a tu per tu. Forse è per questo che il Signore non ci ha lasciato nulla di scritto, certo non di suo pugno; forse è per questo che gli amici di Dio scrivono poco, anche se - a dire il vero - non mancano notevoli eccezioni. A volte però uno scritto è necessario, magari una lettera, un biglietto, un qualcosa insomma che ci consenta di lasciare una traccia nel tempo e nello spazio, quando un incontro diretto è impossibile. Questo è forse il nostro caso.
Queste parole non sono scritte per chiunque. Le scrivo per chi, come me, ha avuto il dono di essere stato chiamato alla vita consacrata e/o alla vita sacerdotale ben conoscendo sia la propria indegnità, sia la grandezza ineffabile della bontà e dell'umanità di Dio. No, non è un errore o una contraddizione, l'ho scritto di proposito, perché da quando il Verbo si è fatto uomo possiamo parlare così, nella libertà dei figli di Dio: Verbum caro factum est (Gv 1,14).
Bella la nostra fede! Belle le parole come queste! Però so bene che spesso nella nostra vita la realtà si manifesta in tutta la sua aridità e povertà. Spesso facciamo i conti con la nostra e con le altrui debolezze e allora la "divina commedia" tende ad impoverirsi sempre più in una "commedia umana" tutt'altro che esaltante.
Può accadere nei primi anni, quando ci si lancia con entusiasmo nel ministero e nella testimonianza evangelica; oppure può accadere più tardi, quando dopo tante lotte e tanti sacrifici si ha l'impressione che qualcosa non vada o non abbia funzionato, quando si ha l'impressione che il mondo in cui abbiamo vissuto - e che abbiamo contribuito a creare - tende a dissolversi e a crollarci addosso. Perché? Forse abbiamo costruito su fondamenta non proprio solide, oppure, come spesso accade, non siamo più accolti e capiti in quel contesto. Forse abbiamo perso qualche punto di riferimento, ci siamo dimenticati della nostra vocazione e della nostra dignità, immersi come siamo in questo mondo folle. Forse abbiamo dato fastidio con la nostra testimonianza. Anche questo può accadere talvolta: il Vangelo vissuto sul serio può dar fastidio sia al mondo laico, sia al "mondo ecclesiastico". Sì, perché esiste anche un "mondo ecclesiastico" che non è detto che sia necessariamente evangelico. Insomma, possono essere tanti, innumerevoli i motivi per cui possiamo trovarci in difficoltà, incluso il nostro egoismo, le nostre vedute e le nostre pretese, a torto o a ragione.
Nel nostro caso poi tutto diventa più complicato. Grazie a Dio molti fedeli hanno a disposizione dei buoni sacerdoti e dei religiosi che li aiutano e danno loro una testimonianza di fede e di carità. Quanti sacerdoti o religiosi però hanno a disposizione un confratello che li aiuti? Può sembrare paradossale eppure è così e capita più spesso di quanto non si pensi. In una parrocchia tutti hanno il parroco a disposizione, ma il parroco... ha un parroco? Il confessore... ha un confessore? Certo, potrebbe obbiettare qualcuno, ci sono i vescovi, i superiori. Il vescovo non è forse... il "parroco dei parroci"? Onestamente parlando se vescovi e superiori avessero davvero la possibilità materiale di ascoltare tutti, di essere presenti a tutti, vivremmo in un mondo fuori del tempo. Nella realtà dobbiamo spesso fare i conti con dei limiti che sono invalicabili e che spesso ci impediscono di arrivare ovunque, di dare una risposta a tutti, di raggiungere tutti e ciascuno. Ci sono dei pochi fortunati che hanno piccoli "greggi" e piccole comunità a misura d'uomo, ma anche così non è possibile giungere ovunque. Ci sono anche limiti umani e spirituali, non solo limiti fisici e materiali. Per parlare bisogna capirsi, bisogna entrare in sintonia e questo non sempre è idealmente possibile. Non è raro poi che la solitudine umana di un vescovo o di un superiore sia ancora più grande. Nella nostra vita restano sempre spazi molto ampi per questa solitudine. Ciò che conta è riuscire a riempire questi spazi con Dio. Questo è il segreto della felicità; questa è l'opera incessante che deve vederci impegnati in prima linea, sempre. È questo che la gente cerca in noi ed è questo ciò che dobbiamo anzitutto offrirgli: l'acqua viva che il Signore ha fatto e farà sorgere in noi (Gv 7,38).
Ogni tanto poi, nel nostro cammino, il Signore mette delle persone che sono come lucerne su un lucerniere o città sopra un monte (Mt 5,14-16) e che rischiarano il nostro orizzonte con il loro vangelo vissuto. È un piccolo seme che cresce pian piano e può diventare un grande albero fino al punto che anche gli uccelli del cielo vanno a rifugiarcisi (Mt 13,31-32).
Ma forse c'è anche chi non ha avuto questo dono. Forse ci sono alcuni che hanno ricevuto proprio pochissimo, senza propria colpa. C'è chi è nato e cresciuto in un ambiente umanamente povero, chi ha conosciuto una formazione arida e spersonalizzante, chi si è trovato di fronte ad una visione della fede - ma anche delle realtà umane - troppo distante da quella evangelica, tutt'altro che liberante e aperta ad una visione serena e positiva. Se è così, se sei stato vittima di questi incidenti di percorso, allora ti dico: non scoraggiarti! Non fare l'errore di identificare questa visione di Dio, della fede, della Chiesa e del mondo con la realtà. Ti assicuro che la realtà è del tutto diversa, hai solo bisogno di incontrare qualcuno che ti aiuti ad uscire da questo tunnel oscuro e ti faccia vedere la luce del sole. Non è Dio che sbaglia, non è la fede che è sbagliata o crocifiggente, non è la Chiesa che ti sta privando del Vangelo. È il contesto in cui sei vissuto e ti sei formato che non è stato in grado di trasmetterti tutto questo. Le tue debolezze umane poi forse hanno fatto il resto.
Dio è amore, la fede è un'esperienza di liberazione, la Chiesa è comunione ed è il luogo dello Spirito! Dice l'apostolo Paolo:
Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore (2Cor 3,17-18).
Ad una condizione però:
Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso (Gal 5,13-14).
«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà...
...amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,13-14)
Cosa fare allora? Non gettare tutto all'aria, non perderti nella critica amara e corrosiva, non fare passi affrettati e polemici, evita i gesti eclatanti, ricordati che sei sempre sotto gli occhi di tutti, soprattutto di quelle persone che - non dimenticarlo mai - vedono Cristo in te. Prendi tempo, cerca degli spazi e dei momenti di riflessione e di preghiera. Soprattutto cerca un buon confratello che sia disposto ad ascoltarti, a trascorrere insieme con te qualche ora, frequentemente, per parlare in libertà di tutti i problemi che sono sorti e che non riesci a risolvere. Stabilisci insieme a lui degli obiettivi da raggiungere, un cammino spirituale da fare con pazienza ed umiltà. Non perdere - per quanto è possibile - la strada del dialogo. Non tagliare i ponti dietro di te. Un dialogo sereno con il vescovo o con il superiore possono chiarire tante cose e spianare la strada a nuovi orizzonti, più adatti alla tua indole e alla tua situazione personale.
Comincerei a dubitare però di fronte a posizioni che tendono a sacrificare la persona a favore di esigenze puramente strutturali, là dove si è ridotti ad un numero o dove il sacerdote diventa una sorta di impiegato: qualcuno dovrà pur andare in quella parrocchia o in quel convento! Si, è vero, la persona adatta ci deve andare, gli altri è bene che non ci vadano. Come si fa a capirlo? Con un discernimento autentico non con un atto burocratico-amministrativo basato su criteri impersonali magari stabiliti a priori. Chi invia una persona in una missione o le affida un incarico deve verificare che la stessa persona abbia anche le doti e i mezzi necessari per corrispondere alle legittime aspettative. La logica dell'armiamoci... e partite non è evangelica e non dovrebbe albergare nella comunità ecclesiale.
Attento alle "motivazioni ascetiche": possono essere il modo migliore - si fa per dire - per mandare allo sbaraglio una persona che si trova in una situazione di difficoltà e che reclama maggiore considerazione. Dare compiti o incarichi insignificanti ad una persona che può fare di più e meglio nel diritto moderno si chiama mobbing ed è... un reato penale. È possibile che nella comunità ecclesiale possano verificarsi delle situazioni - si spera provvisorie - un po' mortificanti, però sempre nella logica della sincerità, della verità e della carità. Non è giusto - e soprattutto è dannoso per tutti - nascondere la verità dietro ragioni ascetico-disciplinari facili da accampare ma ben più ardue da dimostrare e realizzare.
E se il dialogo è impossibile? Se ogni possibile intesa è naufragata o si è trovata dinanzi ad un muro invalicabile? Se la sofferenza è tale da compromettere seriamente la vita spirituale e lo stesso apostolato?
Ci sono due possibilità e cito a proposito le Fonti Francescane.
La prima è questa:
«Essendosi recato a Imola, città della Romagna, [Francesco] si presentò al vescovo della diocesi per chiedergli il permesso di predicare. «Basto io - rispose il vescovo - a predicare al mio popolo». Francesco chinò il capo e uscì umilmente. Ma poco dopo, eccolo dentro di nuovo. «Che vuoi, frate? - riprese il vescovo -. Cosa domandi ancora?». «Signore, - rispose Francesco - se un padre scaccia il figlio da una porta, deve necessariamente entrare da un'altra». Vinto dalla sua umiltà, il vescovo con volto lieto lo abbracciò, esclamando: «D'ora in poi tu e i tuoi frati predicate pure nella mia diocesi, con mio generale permesso, perché la tua santa umiltà lo ha meritato» (FF 731).
La seconda è questa:
«Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, ovunque sono, non osino chiedere lettera alcuna nella Curia Romana direttamente o per mezzo di interposta persona, né per le chiese, né per altri luoghi, né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi, ma, dove non saranno ricevuti, fuggano in altra terra a far penitenza con la benedizione di Dio (FF 123).
Ovviamente oggi non ha più valore giuridico la prescrizione di non "chiedere lettera alcuna alla Curia Romana". Rimangono tuttavia il valore morale e il dettato del buon senso: non scrivere "alla Curia Romana" a meno che la serietà della situazione evidentemente non lo richieda. Per il resto - là dove non sei ricevuto - vai altrove a far penitenza con la benedizione di Dio. Cosa significa però non essere ricevuti? Per Francesco il senso era letterale, ossia quando un vescovo o altra analoga autorità negavano ai suoi frati di poter entrare e operare in un territorio. Francesco non voleva essere invadente e non voleva dispute o contese giuridiche. Ma per noi può valere anche un altro senso. Non basta essere accettati giuridicamente in un luogo, in una comunità ecclesiale o religiosa, bisogna anche essere accettati realmente come persone, almeno in ciò che abbiamo di irrinunciabile. Possiamo rinunciare a molte cose, dobbiamo saperci adattare un po' a tutti, ma alla vocazione e alla missione che Dio in coscienza ci ha affidato non possiamo, non dobbiamo mai rinunciare. Qui la materia è delicatissima e solo un discernimento prudente insieme al consiglio di un direttore spirituale possono aiutarci a capire quando è il caso di restare - pur soffrendo - e quando invece è giunto il momento di levare le tende per andare altrove. Non si tratterà di una sconfitta ma solo della ricerca di un terreno più adatto (non semplicemente più comodo!) per la semina evangelica. La storia della Chiesa è piena di santi che sono rimasti là dove erano anche in mezzo alle persecuzioni e di santi che hanno percorso vie nuove alla ricerca di orizzonti migliori. Non sono mancati anche i santi che di lettere alla Curia Romana ne hanno chieste eccome! Ovviamente la speranza è che non si debba mai ricorrere a tanto.
Che tu resti o che vada l'essenziale è che lo faccia solo per il Vangelo, solo per amore di Dio. Occorre discernimento, sempre, ma è essenziale che le scelte future ti mettano nelle condizioni di amare e servire di più, mai di meno. Le scelte secondarie - se tali realmente sono - le possiamo rivedere, quelle fondamentali mai!
E la croce? Forse abbiamo dimenticato la croce? No! È vero che la croce e la sofferenza fanno parte della nostra vita ma anche qui dobbiamo saper discernere. Ci sono croci che vengono da Dio e ci sono croci false fabbricate ad arte dagli uomini. Ci sono dei casi in cui dobbiamo portare la croce - e aiutare gli altri a portarla - e ci sono altri casi in cui dobbiamo rifiutarla e dobbiamo aiutare gli altri a liberarsene. La fame nel terzo mondo non è forse una croce? Si, ma non viene da Dio, viene dall'egoismo umano. Certo, il Signore nella sua bontà ci aiuta a portare tutte le croci, ma in molti casi ci ha detto di portare la liberazione non la rassegnazione:
«Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8).
Ecco, quando la croce non è solo fonte di sofferenza ma si radica in una struttura di peccato e serve a perpetuarla allora ci troviamo di fronte ad una croce che non viene da Dio. Prima di stupirsi di una frase del genere sarà bene ricordare che Satana si avvalse perfino della Scrittura per tentare Gesù (Mt 4,1-11). Anche nella nostra vita possiamo trovare false croci che non sono da Dio e che abbiamo il dovere di togliere dal nostro cammino.
Forse chiederai un poco di tempo per riflettere e pregare con più libertà: se ne hai bisogno non è un male né una vergogna, semmai è un dovere; l'importante è che questo periodo sia vissuto come un tempo di grazia per approfondire la comunione con Dio, con Colui che è Via, Verità e Vita e che può aiutarti a conoscere te stesso e il mistero della sua volontà (Ef 1,9). E qui giungiamo al punto più importante di questa lettera. La critica è una cosa buona, se è costruttiva, però non basta. Di fronte alla sofferenza e al dolore, quando il mondo intorno a noi sembra più ostile, quando le certezze che ci hanno sempre sostenuto vacillano, sorge una domanda che risuona più forte quanto più passa il tempo: tu cosa vuoi fare? Vuoi limitarti a contestare? Vuoi sprofondare in una critica amara e distruttrice? Vuoi forse trascinare nel tuo malessere le persone che stanno intorno a te?
No, tutto questo non avrebbe alcun senso! Un giorno mi trovai per caso ad accompagnare un confratello per una visita alla chiesa del Sacro Cuore a Roma. Ci fermammo di fronte ad un magnifico ritratto di Don Bosco che aveva un'espressione singolare. Sembrava volesse dire: tu cosa vuoi fare? Vuoi amare di più? Ecco, credo sia questa la domanda fondamentale a cui dobbiamo sempre rispondere. Non basta contestare! Se crediamo che nella comunità ecclesiale sia necessaria una nuova effusione dello Spirito creatore e santificatore dobbiamo dare il nostro assenso, dobbiamo avere il coraggio di rischiare in prima persona e di offrire umilmente il nostro contributo. La Chiesa ha sempre bisogno di energie e di risorse nuove, ha sempre bisogno di uomini capaci di estrarre dal loro tesoro cose antiche e cose nuove (Mt 13,52).
Che Dio ti benedica e ti aiuti a fare tutto questo secondo la sua volontà!
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