Appunti biografici sul padre della scienza moderna

20 febbraio 2014

 

 

 

 

«Il giorno sette gennaio, dunque, dell’anno milleseicentodieci, a un’ora di notte,
mentre col cannocchiale osservavo gli astri mi si presentò Giove; poiché mi ero
preparato uno strumento eccellente, vidi (e ciò prima non mi era accaduto per
la debolezza dell’altro strumento) che intorno gli stavano tre stelle piccole ma
luminosissime; e quantunque le credessi del numero delle fisse, mi destarono una
certa meraviglia, perché apparivano disposte esattamente secondo una linea retta
e parallela all’eclittica, e piú splendenti delle altre di grandezza uguale alla loro»

(GALILEO GALILEI, Sidereus Nuncius, Venetiis 1610).

 

 

 

 

 Galileo Galilei

Portrait of Galileo Galilei - 1636
Justus Sustermans (1597-1681)
National Maritime Museum, Greenwich, London (UK)

 

 

 

 

Il 15 febbraio 2014 ricorrevano i 450 anni dalla nascita di Galileo Galilei. Galileo è stato uno dei piú importanti artefici del metodo scientifico, unendo teoria e verifica sperimentale in modo innovativo, coma mai prima nella storia. Oltre che a questa pietra miliare del progresso umano il suo nome è legato alla vicenda che lo vide contrapposto alla Chiesa cattolica, sicché il “caso Galileo” è diventato - al pari del Medioevo, delle Crociate e dell’Inquisizione - il simbolo della lotta ad una presunta Chiesa oscurantista. In altre parole l’ennesimo luogo comune che da troppo tempo avvelena i rapporti tra scienza e fede e gli animi di molti, credenti e non credenti. Ma è proprio questa la realtà delle cose? Siamo certi che questa vulgata diffusa a piene mani attraverso gli obsoleti manuali di una scuola spesso ideologicamente lottizzata risponda a verità? È quello che intendiamo appurare attraverso questi appunti che ci auguriamo siano anche uno spunto di riflessione.

Galileo nasce a Pisa il 15 febbraio del 1564. Suo padre, Vincenzo Galilei, era un mercante ed un appassionato musicista e aveva un profondo interesse per la teoria della musica e per le sue basi matematiche. È probabile che il figlio sia stato da lui ispirato a leggere il grande libro della natura attraverso il prodigioso linguaggio della matematica. In questo connubio, tecnico e artistico, visse colui che diede il piú grande impulso alla scienza moderna. Quando Galilei era professore a Padova possedeva, accanto alla propria abitazione, una bottega in cui fabbricava e provava i suoi strumenti, vide cosí la luce il cannocchiale per l’osservazione astronomica. Galileo non era un freddo tecnico ma neppure un artista privo di senso pratico. Cosí scrisse nella terza giornata dei Discorsi intorno a due nuove scienze, affrontando il rapporto tra teologia e scienza in riferimento al credo sulla creazione: «Ma simili profonde contemplazioni si aspettano a piú alte dottrine che le nostre: a noi deve bastare d’esser quei men degni artefici, che dalle fodine scoprono e cavano i marmi, ne i quali poi gli scultori industri fanno apparire meravigliose immagini, che sotto roza ed informe scorza stavano ascoste» (cfr. GALILEO GALILEI, Opere, a cura di Franz Brunetti, Torino, 2005, II, 135). È la mentalità di un artista che, prima ancora di creare le sue opere, sa ascoltare la natura fin nelle sue fibre piú profonde.

Anche per Michelangelo Buonarroti lo scopo dell’arte era quello di portare alla luce la forma nascosta nelle cose informi. Galilei fa suo il medesimo concetto e lo applica al rapporto tra i saperi. Il filosofo e ancor piú il teologo per lui sono come artisti che dalla pietra grezza ricavano l’opera d’arte della conoscenza. Ogni sapere è autonomo nel suo procedere, allo stesso tempo ogni sapere necessita dell’altro: senza gli scienziati ai filosofi e ai teologi mancherebbe la materia su cui operare, senza filosofi e teologi il lavoro della scienza sperimentale sarebbe solo parziale. Tra i saperi vi è un ordine gerarchico dettato dall’importanza delle verità, una gerarchia che risponde anche all’armonia del cosmo. Cosí si esprime Galilei nella lettera a Cristina di Lorena: «Ora, se la teologia, occupandosi nell’altissime contemplazioni divine e risedendo per dignità nel trono regio, per lo che ella è fatta di somma autorità, non discende alle piú basse ed umili speculazioni delle inferiori scienze, anzi, come sopra si è dichiarato, quelle non cura, come non concernenti alla beatitudine, non dovrebbono i ministri e professori di quella arrogarsi autorità di decretare nelle professioni non esercitate né studiate da loro; perché questo sarebbe come se un principe assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse, non essendo egli né medico né architetto, che si medicasse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de’ miseri infermi, e manifesta rovina degli edifizi» (cfr. GALILEO GALILEI, Opere, a cura di Franz Brunetti, Torino, 2005, II, 570). In questo scritto appaiono le linee portanti di quella che sarà l’opera piú sofferta di Galilei: quella di conciliare la sua coscienza di credente con le esigenze dello scienziato. Come egli intuí, mentre il credente legge il libro delle Scritture, lo scienziato legge il grande libro del Creato, il cui autore è il medesimo, ragion per cui egli riteneva non potesse esserci contraddizione alcuna, pur nella distinzione dei metodi e dei ruoli. Molti hanno discusso del caso Galilei, pochi purtroppo ne hanno letto almeno parzialmente le opere, troppi ne hanno parlato con superficialità, solo per sentito dire. Galilei era un credente convinto e, seppure con i suoi limiti umani, aveva delle profonde basi filosofiche su cui fondare le sue posizioni: quelle di un uomo di scienza e di fede che tenterà di conciliare tesi solo apparentemente opposte. Purtroppo i limiti della sua formazione e quelli epistemologici della sua epoca non glielo consentiranno, perlomeno non come avrebbe voluto.

 

 

I due massimi sistemi

Che la terra sia al centro e gli astri le ruotino attorno è falso, ma in apparenza “vero”. Che il sole sia al centro e la terra le ruoti intorno è vero, ma sembra “falso”. Tutto il caso Galilei ruota, si può ben dire, attorno alla polemica sui “massimi sistemi”, cioè sui due modelli antitetici con cui veniva rappresentato il movimento degli astri: il modello geocentrico o tolemaico (da Claudio Tolomeo, circa 100 - 178 d.C.), e il modello eliocentrico o copernicano (da Nicola Copernico 1473 - 1543). Nel sistema tolemaico la Terra è immobile, è il centro del mondo e anche il centro dei movimenti di tutti gli astri, un’idea risalente alle prime concezioni cosmologiche dell’antica Grecia. Il sistema tolemaico pareva funzionare perché rendeva conto dei fenomeni celesti (il sole che si muove nella volta del cielo) e della quasi totalità degli altri fenomeni allora osservabili. Inoltre, benché fosse nato in ambiente pagano, il sistema tolemaico non presentava gravi difficoltà al pensiero cristiano, che vi trovava la conferma dei racconti biblici in cui veniva evocata l’immobilità della Terra. Di tutto questo si deve tenere conto quando si considera la riluttanza della Chiesa ad abbandonare il tolemaismo, senza prove evidenti. Il rischio infatti, qualore fosse assodata l’infondatezza del dato scritturale, era quello di mettere in discussione tutto il resto dell’edificio cristiano. Il modello tolemaico oltretutto era corroborato dalle dottrine aristoteliche che vedevano un mondo sublunare imperfetto e un mondo celeste perfetto, scevro da ogni pecca e mutazione. È singolare il perdurare di una concezione pagana in un contesto cristiano pienamente affermato: un cosmo perfetto infatti ruotava intorno ad un mondo sublunare (e quindi attorno ad una terra imperfetta e soggetta a molteplici mutazioni). Sorprende che la Chiesa non sia stata tentata di abbandonare un modello, quello tolemaico, che sottendeva una tale contraddizione senza proporne altri, magari piú teocentrici e meno antropocentrici. Ben pochi autori sembrano essersi interrogati sul perdurare di questa e di altre concezioni pagane in seno alla cristianità antica. In fondo, difendendo il sistema tolemaico la Chiesa difendeva una concezione pagana del cosmo, mentre Galilei sostenendo il copernicanesimo difendeva semplicemente la realtà, una realtà finalmente svelata da occhi e menti cristiane. In effetti la concezione geocentrica fu per lungo tempo il trionfo delle apparenze sulla verità e, in un certo qual modo, anche sul senso teologico del cosmo e della storia. Il paradosso fu che mentre Galilei difese con tesi false una dottrina vera, la Chiesa difese con tesi vere una dottrina falsa.

Il punto di vista eliocentrico, sostenuto con passione da Galileo, in realtà era antico quanto quello tolemaico ed era sempre stato presente agli studiosi: qui è il Sole il centro del mondo, e tutti gli astri gli ruotano attorno, compresa la Terra. Dunque, ciò che caratterizza la dottrina eliocentrica non è tanto il fatto che gli astri si muovano, giacché lo fanno anche nel sistema tolemaico, ma che il Sole sia fisso e che anche la Terra sia dotata di movimento proprio. Tuttavia, il sistema eliocentrico non ebbe fortuna. Uno dei motivi principali fu che esso urtava contro l’evidenza immediata dei fenomeni astronomici. Le difficoltà che esso presentava erano di due ordini: fisico e teologico. Fra queste ultime, la piú nota è quella che riguarda l’intimazione di Giosuè (nell’omonimo libro) durante la battaglia contro gli Amorrei: «Sole, fermati in Gàbaon...» (Gs 10,12-13). Che senso avrebbe ordinare al Sole di fermarsi se lo è già? La Chiesa in realtà non si opponeva all’insegnamento e allo studio del sistema eliocentrico; piuttosto, in assenza di prove evidenti, esigeva che fosse proposto come pura ipotesi. Il dibattito sull’eliocentrismo era dunque libero e, di fatto, lo sarà nel corso di tutto il Medioevo. Quando il canonico Copernico (dunque un cattolico ed un esponente ecclesiastico), nella prima metà del 1500, rilanciò l’eliocentrismo, le implicazioni della teoria erano note e dibattute da tempo; purtroppo, con la rivolta protestante, era venuta meno l’unità spirituale del mondo cristiano e dell’Europa, un fattore che avrà un peso significativo anche nella vicenda galileiana.

Non è vero pertanto che la Chiesa fosse irremovibile per questioni di principio sulla dottrina tolemaica che, fra l’altro, contrariamente alla solita vulgata, non godeva affatto dello status di dogma, né si vede come avrebbe potuto goderne. I dogmi riguardano verità teologiche e morali fondamentali, non certo questioni di scienze naturali. La storia della Chiesa e il suo magistero testimoniano, al contrario, la disponibilità a mutare giudizio persino nell’interpretazione delle Sacre Scritture, qualora l’evidenza dei fatti lo postuli: una posizione che si trova già in Sant’Agostino (354 - 430) e, per tornare all’epoca del nostro protagonista, anche in San Roberto Bellarmino (1542 - 1621), esperto pure lui di astronomia, amico e difensore di Galileo, al quale ricordava che in assenza di un experimentum crucis (ossia di una prova decisiva) non è possibile pretendere una diversa interpretazione dei testi sacri, cosa che invece Galilei auspicava con troppa facilità.

 

 

La questione copernicana

Galileo aveva insegnato a Padova astronomia tolemaica ma a Firenze era diventato un deciso assertore di Copernico. Ciò lo pose in difficoltà con i Domenicani, i quali erano preoccupati di come l’insegnamento di tale dottrina si potesse conciliare con le affermazioni della Bibbia che dicevano il contrario, come la già ricordata descrizione del moto del sole in Gs 10,12; ma anche in Sal 19,6-7; e in Qo 1,4-5. Nel 1613 Galileo scrisse una lettera ad un suo vecchio studente, il benedettino Benedetto Castelli (1578-1643), affermando che il moto della terra non era necessariamente in opposizione con la Sacra Scrittura. Un anno piú tardi Galileo fu seriamente criticato dei Domenicani proprio a motivo dei suoi insegnamenti. Preoccupato da questi fatti egli scrisse la nota Lettera alla Granduchessa Cristina (1615), dove sviluppò le tesi espresse nella precedente lettera a Benedetto Castelli. Uno scritto da molti considerato eccellente nel suo sforzo di conciliare i testi biblici con le scoperte scientifiche (cfr. MOSS, 1983). Quasi in contemporanea il carmelitano Paolo Foscarini (1580 - ca. 1616) giungeva indipendentemente alle medesime conclusioni scrivendo una lettera al cardinal Bellarmino (cfr. BLACKWELL, 1991).

Consapevole di questi nuovi sviluppi, il cardinal Bellarmino, il 12 aprile 1615 scrisse a Foscarini e a Galileo che il sistema copernicano poteva essere sí utilizzato per i calcoli astronomici, ma che il moto della terra era da considerarsi solo un’ipotesi finché non fosse stata provata definitivamente. Egli mise in guardia circa il fatto che, fino a prova contraria, la comune interpretazione delle Scritture doveva essere mantenuta: «Dico che mi pare che V. P. e il Sig. Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire che, supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno [...]. Dico che quando ci fusse vera demonstratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allhora bisognerà andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e piú tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra» (Opere, XII, 171). preoccupato dagli sviluppi della questione, Galileo chiese e ottenne il permesso di Cosimo de’ Medici per andare a Roma, dove poi giunse verso la fine dell’anno.

Frattanto, il 23 febbraio del 1616 un apposito gruppo di consultori del Sant’Uffizio, dichiarò che la tesi eliocentrica, opponendosi al senso letterale delle Scritture, era da considerarsi eretica. Due giorni dopo, papa Paolo V (1605-1621) chiese al cardinal Bellarmino di informare Galileo e di comunicargli di non sostenere le tesi copernicane. Il giorno successivo, il 26 febbraio, il Bellarmino lesse un pubblico monitum alla presenza dei membri del Sant’Uffizio. Con l’occasione venne redatta un’ingiunzione da inviare a Galileo nel caso che egli non accettasse il loro giudizio. Nel testo si affermava che Galileo doveva abbandonare la sua posizione sull’immobilità del sole e sul moto della terra e che essa «non si doveva pertanto sostenere, né insegnare, né difendere in alcun modo, tanto oralmente come per iscritto». Considerando però che Galileo aveva già dato il suo assenso l’ingiunzione non gli fu inviata, restò tuttavia agli atti, negli archivi del Sant’Uffizio. Ci fu chi interpretò il fatto come se Galileo avesse abiurato ricevendo una sanzione per aver insegnato le tesi copernicane. Galileo, onde evitare ogni diffamazione, ottenne udienza dal cardinal Bellarmino il 3 marzo 1616 ed ebbe da lui una certificazione che ciò non corrispondeva a verità. Due giorni dopo, la Congregazione per l’Indice pubblicò un decreto contro il copernicanesimo, condannando un lavoro del Foscarini e sospendendo la pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Caelestium di Copernico, pubblicato a Norimberga nel 1543, fino a quando il testo non fosse stato debitamente emendato.

 

 

La tesi galileiana delle maree

Contrariamente a quanto si crede, in questa complessa storia fu proprio la Chiesa ad avere assunto un atteggiamento “scientifico”. Galileo infatti non disponeva delle prove del movimento della terra. Perfino il filosofo anarchico Paul Feyerabend convenne che: «La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione piú che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione» (cfr. FEYERABEND P., Wider den Methodenzwang, Frankfurt/Main, 1976, 206). È noto che Galileo tentò di spiegare la teoria eliocentrica citando il fenomeno delle maree. Il flusso ed il continuo ritrarsi delle maree nei diversi mari ed oceani della superficie terrestre era un effetto da spiegare e Galileo sospettava che potesse essere collegato con il moto della terra. Nella sua Lettera alla Granduchessa Cristina del 1615, egli aveva accennato ad «...effetti naturali, le cause de’ quali in altro modo non si possono assegnare» (Opere, V, 311), senza specificare cosa egli avesse in mente. Pare che egli ne avesse discusso anche con un suo amico, Alessandro Orsini, appena creato cardinale, il quale gli chiese di mettere per iscritto i suoi argomenti. Galileo lo fece in una lettera datata 8 gennaio 1616, intitolata Discorso del flusso e reflusso del mare (Opere, V, 377-395).

Galileo cominciò col notare che le maree implicano un vero moto locale nel mare e che per trovare la loro causa si doveva cominciare col cercare in qual modo si possa imprimere un moto alle acque. Egli segnalò poi la complessità del fenomeno mareale, ed a questo proposito volle vedere se a qualcuno dei possibili agenti si potesse ragionevolmente attribuire il ruolo di causa prima. Egli propose di tener conto anche di cause secondarie o concomitanti per dar ragione della diversità dei movimenti mareali. Poiché il moto del contenente può spesso spiegare il moto del fluido contenuto, Galileo ne arguí che «...la ragione dei flussi e dei reflussi dell’acque marine potesse resiedere in qualche movimento dei vasi che le contengono», focalizzandosi cosí sul moto del globo terrestre quale causa «almeno molto piú probabile» di ogni altra causa previamente assegnata (Opere, V, 381). Su queste basi egli suppose dunque il moto della terra in forma ipotetica (ex hypothesis) ed a partire dai suoi due moti, quello di rivoluzione attorno al sole e quello di rotazione attorno al proprio asse, spiegò come ciò potesse essere la causa del moto dell’acqua marina sulla superficie terrestre. Poiché tale causa non poteva dare ragione sufficiente di tutti i dettagli del fenomeno, egli vi aggiunse l’azione di altre cause. Fra queste vi erano, secondo lui, il peso dell’acqua marina, la lunghezza e la profondità dei bacini in cui è contenuta, la frequenza delle sue oscillazioni ed i modi in cui queste ultime reagiscono ai movimenti delle varie parti della terra. Galileo concluse che le sue spiegazioni erano in grado di armonizzare il moto della terra e le maree «...prendendo quello come cagione di questo e questo come indizio ed argomento di quello» (Opere, V, 393).

Si tratta di argomentazioni scritte dopo la lettera inviata a Maria Cristina di Lorena e dopo la lettera del Bellarmino al Foscarini (e allo stesso Galileo), ma allo stesso tempo prima del decreto ecclesiastico del 5 marzo 1616 contro il copernicanesimo. Tale scritto pertanto riflette il pensiero di Galileo circa il valore probatorio delle maree in un periodo relativamente sereno della sua vita, molto prima che egli venisse invischiato nell’accesa controversia sull’interpretazione della Scrittura, ciò che lo condurrà al processo ed alla relativa condanna del 1633.

Dopo le osservazioni astronomiche del 1609-1610 compiute con il cannocchiale (il nuovo strumento ottico da lui perfezionato allo scopo) Galilei si avvide del fatto che le cose, in cielo, non corrispondevano affatto alle dottrine tolemaiche. Egli diventa sempre piú un convinto assertore dell’ipotesi copernicana e si mette alla ricerca delle prove che la dimostrino: il moto di rotazione (o diurno) e quello di rivoluzione (o annuale) della terra. Delle tre argomentazioni addotte e già sopra accennate purtroppo nessuna sarà conclusiva. Lo capivano bene gli studiosi del tempo e forse lo capiva anche Galilei che tuttavia, trasportato forse anche dal suo temperamento, irrideva gli avversari tacciandoli di ignoranza e inasprendo così gli animi. Effettivamente, a riprova della difficoltà di dimostrare i moti della Terra, è bene precisare che il moto di rivoluzione terrestre fu dimostrato scientificamente solo nel 1837, mentre quello di rotazione fu provato nel 1852, cioè, rispettivamente, 195 e 210 anni dopo la morte di Galileo!

 

 

 "Sidereus Nuncius"

Il Sidereus Nuncius di Galileo Galilei

 

 

 

 

Urbano VIII

L’anno 1621 fu testimone della morte di tre figure di rilievo: il papa Paolo V, il cardinal Roberto Bellarmino e Cosimo de’ Medici, il grande protettore di Galileo. A Paolo V successe un cardinale fiorentino, Maffeo Barberini, il quale aveva seguito con interesse l’opera di Galileo appoggiandolo anche nelle dispute con i gesuiti. Quando Barberini ascese al soglio pontificio nel 1623, con il nome di Urbano VIII, Galileo ebbe l’opportunità di dedicare al nuovo Papa la sua replica al gesuita padre Orazio Grassi in tema di comete, intitolata Il Saggiatore, che egli aveva appena terminato. È verosimile che Urbano VIII l’abbia gradita, dal momento che concesse a Galilei ben sei udienze. Buona parte degli studiosi concordano nel ritenere che Galileo cercasse di ottenere da Urbano VIII il permesso per poter riprendere i suoi studi sul sistema copernicano. Con quale esito tuttavia non è del tutto chiaro.

Nella disputa con padre Grassi tuttavia, Galileo fu ben lungi dall'avere ragione e si inoltrò in una polemica sterile che gli avrebbe creato in futuro non pochi problemi. Il Grassi, infatti, avvalendosi delle osservazioni condotte anche in altri collegi gesuitici italiani e stranieri, sosteneva, in virtù dell'assenza di una parallasse apprezzabile nel fenomeno, che la cometa fosse un corpo celeste mancante di luce propria, che seguiva un'orbita circolare collocata tra la Luna e il Sole. A tale opera, avendola interpretata in chiave anti-copernicana, Galilei contrappose il Discorso delle comete (Firenze, 1619), firmato però non da lui ma - ad cautelam - dal suo amico M. Guiducci. Nel Discorso egli avanzò l'ipotesi, chiaramente infondata, che le comete fossero solo addensamenti di vapori terrestri giunti negli strati più elevati dell'atmosfera. Questa volta proprio lui, pur ostile alle tesi aristoteliche e fautore dell'osservazione della natura, finì con il contraddirsi ripetendone pedissequamente gli errori e dimenticandosi dei metodi d'indagine che pure aveva fin lì seguito.

Verso il 1630 Galileo terminò il suo libro, il Dialogo sui due massimi sistemi del mondo, in esso egli valutò tutte le evidenze e gli argomenti a favore e contro i due sistemi, quello tolemaico e quello copernicano, propendendo decisamente per il copernicanesimo e facendo sí che gli aristotelici ed i tolemaici apparissero nelle vesti degli sciocchi. Galileo tratteggiò una vivace caricatura degli avversari attraverso il ricorso ad un personaggio immaginario, l’inetto Simplicio, che traeva la sua dottrina dai soli libri di Aristotele e non dal “libro della natura”. Galileo ebbe difficoltà ad ottenere il permesso per la pubblicazione. Il domenicano Niccolò Riccardi (1585-1647) infatti, incaricato di far da censore all’opera, rammentò a Galileo il decreto contro il copernicanesimo del 1616; egli dovette cosí scrivere una nuova prefazione ed una nota finale, chiarendo che non intendeva proporre il sistema copernicano ma solo trattarne come pura ipotesi matematica. Il Riccardi diede cosí la sua approvazione al manoscritto emendato ed esso fu pubblicato a Firenze nel 1632.

 

 

Il Dialogo sui due massimi sistemi e le sue conseguenze

Con la pubblicazione del Dialogo Galileo si mise in un guaio assai piú grande di quanto non avesse mai immaginato. Quando papa Urbano VIII si accorse che Galileo non aveva mantenuto l’impegno con lui assunto di scrivere in modo imparziale sul tema e che aveva ridicolizzato la sua risposta alla controversia tolemaico-copernicana (ossia che essa non poteva essere risolta in modo definitivo dall’intelletto umano), ne fu seriamente indignato. Fu cosí che nell’agosto del 1632 la divulgazione del libro venne espressamente vietata dal sant’Uffizio. Galileo fu convocato a Roma per essere giudicato con l’accusa di aver volontariamente insegnato la dottrina copernicana, nonostante l'antecedente condanna come contraria alle Sacre Scritture (cfr. FINOCCHIARO, 1989). Galileo verso la fine del 1632 non versava in buona salute, tuttavia accertata la sua idoneità al viaggio, fu portato a Roma in lettiga, ove giunse nel febbraio del 1633. A quella data tutti i membri del Sant’Uffizio che avevano preso parte ai fatti del 1615-1616 erano ormai già morti. Il nuovo commissario del Sant’Uffizio, il padre domenicano Maculano Firenzuola, dovette pertanto basarsi sugli atti depositati in archivio. Fu cosí che scoprí l’ingiunzione del 1616 e decise di fondare la sua azione contro Galileo sulla base di quel documento. Quando il Firenzuola chiese a Galileo di rispondere sull’ingiunzione, e in modo particolare se gli fosse stato notificato che «non si doveva sostenere, né insegnare, né difendere il copernicanesimo in alcun modo, tanto oralmente come per iscritto», Galileo dichiarò di non ricordare nulla in proposito. Rammentò tuttavia del certificato concessogli il 26 maggio 1616 dal cardinal Bellarmino e di cui aveva portato con sé una copia. L’ordine del cardinale era sí di non sostenere o difendere la detta posizione, ma le parole «non insegnare in alcun modo» non erano presenti nel certificato e forse è per questo che Galileo probabilmente non le ricordava.

Il fatto colse il Firenzuola di sorpresa poiché questi non conosceva il certificato, non avendone copia alcuna nei suoi archivi (in effetti ne fu ritrovata una copia autografa nel 1984, a Roma, ma solo negli archivi dei gesuiti). Il Firenzuola proseguí nel suo interrogatorio chiedendo a Galileo se aveva ottenuto il permesso di scrivere il libro. La risposta di Galileo fu alquanto diplomatica, dal momento che egli sostenne di non aver bisogno di chiedere alcun permesso per scrivere il libro in quanto non vi si difendeva l’opinione di Copernico, semmai la si respingeva. Il contenuto dell’ingiunzione dunque era secondo lui ininfluente in quanto aveva voluto mostrare nel libro che gli argomenti a favore del copernicanesimo erano invalidi. Fu cosí che il Firenzuola chiese ai consultori di leggere attentamente il Dialogo per giudicare se davvero Galilei sostenesse, insegnasse o difendesse il sistema eliocentrico. Tutti i consultori conclusero, senza dubbio alcuno, che Galileo avesse insegnato e difeso l’opinione di Copernico, ma sul fatto che l’autore la sostenesse personalmente non v’era certezza, perché nel testo vi erano diverse valutazioni. Due consultori tuttavia, espressero il forte sospetto che egli la sostenesse. Il puerile tentativo di difesa escogitato da Galileo effettivamente non poteva reggere, cosicché il Firenzuola propose un benevolo accordo: per evitare l’accusa (ben piú seria) che egli sostenesse personalmente l’opinione copernicana, il Firenzuola gli propose di riconoscere l’accusa meno grave (ossia che egli lo aveva difeso) ma che lo aveva fatto solo perché portatovi dal suo temperamento. Galileo accettò la proposta e poté cosí basare la sua successiva difesa su tale posizione. Egli sostenne che, quale devoto figlio della Chiesa, non credeva in coscienza a niente che fosse contrario alle Sacre Scritture. Egli negò ogni intento malizioso, scusandosi di «...natural compiacenza che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze, e del mostrarsi piú arguto del comune de li huomini» (Opere, XIX, 343) chiedendo con ciò clemenza e venia.

 

 

Gli sviluppi del processo

Il processo sarebbe potuto terminare cosí ma sfortunatamente le cose andarono diversamente. Su richiesta di Urbano VIII, ancora amareggiato e dubbioso circa la sincerità di Galileo, gli fu chiesto di giurare che egli non credeva nel moto della terra e di abiurare ai suoi precedenti insegnamenti. Alla condanna fece seguito una penitenza medicinale da scontarsi agli arresti domiciliari, prima a Siena, poi nella sua villa ad Arcetri (cfr. FANTOLI, 1993; SHARRAT, 1994). Ad Arcetri Galileo recuperò i suoi primi manoscritti e riprese il lavoro sulla sua “nuova scienza” del moto, alla quale aveva lavorato, dopo l’epoca di Padova, nel 1618, 1627 e nel 1631. Progettò un nuovo dialogo, anch’esso lungo quattro giornate e con gli stessi personaggi. I primi due giorni li dedicò alla scienza della meccanica e alla resistenza dei materiali e furono conclusi verso la metà del 1635. La terza e la quarta giornata sviluppavano la scienza del moto locale, focalizzandosi sul moto naturalmente accelerato e sul moto dei proietti. L’opera che ne risultò, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali, fu terminata nel 1637 e inviata in Olanda, dove fu pubblicata a Leida nel 1638. Il lavoro conteneva moltissimi riferimenti alle dimostrazioni, sorprendentemente assenti invece nelle pagine del Dialogo del 1632. Galileo non allegò al volume i suoi lavori sui centri di gravità e le forze di percussione scritti cinquanta anni prima (testi consultabili oggi nell’edizione di The Two New Sciences, curata da Drake nel 1974).

 

 

 Il film su Galileo (1968)

La locandina del film "Galileo" del 1968

 

 

 

 

La falsa storia delle torture

Nel film “Galileo” (1968), diretto da Liliana Cavani, con Cyril Cusack e Georgi Kaloyanchev, appare uno studioso che in un clima di tensione e sospetto lancia la sua sfida contro una Chiesa oscurantista e ormai decadente, intimorita dai pericoli del libero pensiero. Sebbene il film sia ambientato nella prima metà del 1600, in linea con l’ideologia dominante negli anni ‘60, contiene non poche ricercate analogie con il mondo contemporaneo. La Cavani in realtà fa del film uno strumento politico e pur di accendere i toni della disputa, inventa ed esaspera di sana pianta intere scene, oltrepassando perfino i limiti del ridicolo, allo scopo di conferire alla pellicola un contenuto estremamente anticlericale. Nel film viene posta in evidenza anche la minaccia della tortura a cui Galileo rischia di essere sottoposto; almeno questo è ciò che lo spettatore coglie grazie ad una sceneggiatura spregiudicata ed efficace. Efficace sí, ma solo per chi ignora la verità dei fatti. Verità dalla quale la Cavani si discosta non di rado e sempre al momento opportuno.

Galileo in realtà subí un processo equo, in linea, anzi, ben al di sopra degli standard dell’epoca e non fu mai né torturato, né maltrattato. Il processo che Galileo subí dal 12 aprile al 22 giugno 1633 fu ben diverso dal racconto che ne fanno i sussidiari scolastici e i libelli anticlericali, ossia quello di un Galileo “quasi... martire della scienza”, poiché avrebbe abiurato solo per timore della tortura. Si tratta, come ha scritto il cardinal Walter Brandmüller, di una «...favola, messa in circolazione già nella letteratura del secolo XVIII, che affonda le sue radici in tempi precedenti». È doveroso dunque puntualizzare alcuni fatti.

1. Galileo non subí il carcere, neppure durante il processo. Nei giorni che trascorse a Roma, infatti, fu ospitato nell’abitazione di uno dei piú alti officiali dell’Inquisizione - il “Fiscale” -, dove la servitú poteva assisterlo e, in un altro periodo, nella residenza dell’ambasciatore fiorentino, presso Trinità dei Monti.

2. La tortura (o, per i poco o nulla informati, addirittura il rogo) che Galileo avrebbe subito è un’invenzione. Galileo subí solo una territio verbalis, ossia una minaccia orale, prevista per tutti dalle formalità processuali dell’epoca, che non poteva avere tuttavia alcun seguito; la tortura infatti non veniva applicata alle persone oltre i sessant’anni.

3. E pur si muove... La nota frase, pronunciata a modo di sfida, in realtà è un falso storico. Nel 1757, a Londra, il giornalista Giuseppe Baretti scrisse il testo che avrebbe fatto nascere la leggenda di un Galilei che alzatosi in piedi avrebbe ribadito: “E pur si muove!”. La frase non è contenuta in alcun documento contemporaneo, ma fu ritenuta veritiera a tal punto che lo stesso Bertolt Brecht la riportò nella sua “Vita di Galileo”, opera teatrale dedicata allo scienziato pisano alla quale si dedicò a lungo. Potere dei luoghi comuni!

4. La sentenza dispose che Galileo dovesse risiedere in domicilio coatto presso la propria abitazione, cioè nella sua villetta "il Gioiello" sita in Arcetri, con l’obbligo della recita per tre anni, una volta alla settimana, dei sette Salmi penitenziali.

Ecco svelati dunque gli “orrori” a cui l’Inquisizione assoggettò Galileo. Se si considera che all’epoca (ma anche oggi, in tante parti del mondo, Guantanamo docet...) i cosiddetti tribunali secolari (ossia civili) comminavano la pena capitale per cose di gran lunga piú futili, e senza alcun processo e garanzia, c’è da fare tanto di cappello alla Santa Romana e Universale Inquisizione, senza per questo sminuire quanto Galileo ebbe comunque a soffrire.

 

 

  La falsa storia dell’oscurantismo medievale

Il caso Galilei costituisce una buona occasione per riflettere anche su un altro argomento molto caro ai detrattori della storia della Chiesa. Secondo questi la scienza moderna nacque all’improvviso, fra il XVI e il XVII secolo, dopo la “lunga notte” del Medioevo. In realtà la scienza nacque sí, in Europa e in quel periodo, ma tutt’altro che all’improvviso. Come ogni nascita viene preparata da una lunga gestazione e, all’inizio, da un incontro, cosí è stato per la scienza moderna. La gestazione fu il lento, ma costante lavoro intellettuale - sempre incoraggiato e protetto dalla Chiesa - con cui, dall’XI secolo in poi una nuova disciplina, la “teologia naturale”, iniziò a distinguersi dalla teologia propriamente detta. La teologia naturale divenne poi “filosofia naturale” e, infine, scienza fisica, con un oggetto proprio: il mondo naturale con le sue leggi razionalmente comprensibili. Il luogo in cui avvenne questo passaggio fondamentale per la civiltà, le vere fucine del sapere scientifico, a cui lo stesso Galileo attinse a piene mani, furono le università medioevali, ossia istituzioni - come sostiene lo storico della scienza Edward Grant - «...diverse da tutto quanto il mondo avesse mai conosciuto: nulla nell’Islam, in Cina, in India o nelle antiche civiltà sudamericane era paragonabile all’università medievale. È in questa cosí importante istituzione, e nelle sue inconsuete attività, che vanno ricercati i fondamenti della scienza moderna».

Occorre chiedersi anche se esista un rapporto fra la nascita della scienza e la religione. Il cristianesimo diffuse un racconto della creazione del mondo diverso da tutti quelli delle antiche religioni. Il primo capitolo del libro della Genesi sottolinea fortemente il fatto che il mondo uscito dalle mani di Dio è “buono” ed è stato creato in modo ordinato e soggetto a leggi razionali ed immutabili. Oltre a questo principio fondamentale ve n’è un altro che ha contribuito alla nascita della scienza e all’emancipazione dell’uomo dalle tenebre del panteismo e dalla paura delle forze naturali: il creato è distinto da Dio stesso perciò, a differenza di quanto accade nelle credenze pagane, non può essere divinizzato in alcun modo, anzi esso è sottomesso alla signoria di Dio e perciò anche a quella dell’uomo. L’idea che la natura sia essa stessa creata e governata da leggi stabili e comprensibili, ossia razionali, era la condizione necessaria affinché la naturale curiosità dell’uomo potesse evolvere nella scienza. Non è un caso, infatti, che la scienza abbia visto la luce proprio nell’Europa cristiana e si sia divulgata anche attraverso quella rete di universitas pontificie, di monasteri e di biblioteche che ne costellavano il territorio.

 

 

Gli ultimi anni di Galilei

Ma torniamo a Galilei e alla sua opera. Lo abbiamo lasciato dinanzi al tribunale dell’Inquisizione, ma la vicenda non è certo l’ultima della sua vita movimentata ma straordinariamente feconda. Come ha sottolineato A. Zichichi: «I pensatori dell’Era pre-galileiana avevano cercato invano le verità fondamentali senza riuscire a trovarne nemmeno una. Nel corso dei secoli e dei millenni poco era cambiato nella visione del mondo. Galilei è il piú grande pensatore di tutti i tempi e di tutte le civiltà in quanto è riuscito a tagliare il traguardo. A questo traguardo, senza precedenti nella storia del pensiero, Galileo Galilei arriva, non per atto di Ragione e basta, bensí per atto di Fede nel Creatore che lascia le Sue impronte nella materia “volgare” [quella, per intenderci, disprezzata dagli aristotelici - Nota propria]» (cfr. ZICHICHI A., Galilei divin uomo, (collana Nuovi saggi), Il Saggiatore, Milano 2001, 153). Fu proprio cosí. Galileo, lungi dal contentarsi delle autorità dottrinali (Aristotele in primis) sulle quali si basava gran parte dell’insegnamento allora impartito, ebbe il coraggio di “interrogare Dio” attraverso la natura da lui creata. È questo il grande atto di fede di cui parla Zichichi e che deve essergli ascritto a merito.

 Nei restanti anni della sua vita, Galileo lavorò alla redazione del quinto e del sesto giorno dei suoi Discorsi. Nel novembre del 1641 Galileo fu colto da una forte febbre e da palpitazioni cardiache che lo costrinsero a rimanere a letto. Dopo due mesi di malattia si spense serenamente ad Arcetri l’8 gennaio del 1642. Fu sepolto in una cappella laterale della chiesa francescana di Santa Croce in Firenze. Il 13 maggio 1736 i suoi resti furono traslati all’interno della stessa chiesa, accanto alle tombe di Michelangelo Buonarroti e di Nicolò Machiavelli.

L’iscrizione collocata nel suo sepolcro attesta: «GALILÆUS GALILEIUS PATRIC. FLOR. GEOMETRIÆ ASTRONOMIÆ PHILOSOPHIÆ MAXIMUS RESTITUTOR NULLI AETATIS SUÆ COMPARANDUS HIC BENE QUIESCAT».

 

 

 La tomba di Galileo Galilei

Tomba di Galileo Galilei nella Chiesa di Santa Croce a Firenze (I)

 

 

 

 

Il contributo di Giovanni Paolo II al caso Galilei

Il 3 luglio 1981 Giovanni Paolo II nominò una speciale commissione con il compito di studiare e di pubblicare tutti i documenti disponibili sul caso Galilei. I risultati del lavoro della commissione furono presentati dallo stesso Pontefice alla Pontificia Accademia delle Scienze il 31 ottobre 1992. Di fatto, Galileo non aveva dimostrato in maniera rigorosa il moto della terra, ma i teologi, pur confutando correttamente le sue argomentazioni insufficienti, sbagliarono nel loro giudizio circa i suoi insegnamenti. Ecco alcuni passaggi centrali del discorso papale del 31 ottobre 1992: «Se la cultura contemporanea è caratterizzata da una tendenza allo scientismo, l’orizzonte culturale dell’epoca di Galileo era unitario ed era contrassegnato da una particolare formazione teologica. Tale carattere unitario della cultura, che è in sé positivo e che sarebbe auspicabile anche oggi, fu una delle cause della condanna di Galileo. La maggior parte dei teologi non coglievano la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione, il ché li indusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto rilevante della ricerca scientifica» (n. 9). «A partire dal secolo dei Lumi e fino ai nostri giorni, il “caso” Galileo ha rappresentato una specie di mito [...]. Questo mito ha avuto un ruolo culturale considerevole; ha infatti contribuito a radicare numerosi scienziati in buona fede nella convinzione che ci fosse incompatibilità tra lo spirito della scienza e la sua etica di ricerca, da un lato, e la fede cristiana dall’altro. Una tragica incomprensione reciproca è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva fra scienza e fede. Le chiarificazioni cui si è giunti grazie ai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso equivoco appartiene ormai al passato» (n. 10).

 

 

 

 

 

 

Fonti

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