Quella qui offerta è una riflessione severa ma estremamente realistica della situazione italiana. Una riflessione che non riguarda solo la storia recente ma l'ultimo secolo e mezzo di storia. È un discorso che sconvolge la retorica del "politicamente corretto" di cui i mass-media sono ripieni. Per capire le tesi del Prov. Viglione occorre far tacere l'ideologia e far parlare il nudo dato storico. Solo così molte cose potranno cambiare; solo così molte false premesse della politica nazionale potranno cadere per far posto alla verità, l'unica premessa possibile per un'autentica libertà.

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È fin troppo facile far notare che il 25 aprile è la festa piú insensata e ridicola che sia mai esistita nella storia, visto che di fatto si festeggia una sconfitta miliare di un popolo distrutto e caduto nella guerra civile e nell’odio ideologizzato. E che è ancora piú insensata perché si continua a festeggiarla dopo settant’anni! Una tipica follia democratica.

Naturalmente diciamo questo non certo per nostalgismo pro sconfitti, né perché riteniamo che qualora la guerra fosse stata vinta dal nazional-socialismo noi italiani ce la saremmo passata meglio. Forse nei primissimi anni della vittoria; ma, personalmente ritengo che, specie alla lunga - e questo al di là delle follie razziste dell’hitlerismo - sempre servi saremmo stati, e sempre del Paese che oggi domina l’Europa non con le armi e la Gestapo ma con la finanza e le banche.

Occorre riflettere bene ormai, dopo settant’anni, sul perché di questa stupida festa nazionale. Se essa è stata inventata e continua ad essere imposta ogni anno, nonostante ormai da lungo tempo molti intellettuali - spesso ex-marxisti - stiano oggettivamente invitando all’eliminazione di questo solco di sangue che ancora bagna l’identità italiana - è perché essa è il marchio stesso della Repubblica Italiana. Ne è il sigillo nazionale. Un sigillo troppo pesante perché possa essere tolto e possa divenire pubblico ciò che nasconde.

Per decenni si è taciuto sulle stragi comuniste dei titini in Istria e sulle stragi comuniste dei partigiani in Emilia Romagna e altrove. Per decenni il 25 aprile serviva a occultare nella festa “di tutti” (come Pertini, il presidente di tutti, ricordate?) il sangue innocente (donne, vecchi, seminaristi, sacerdoti, uomini che si erano arresi, ecc.) offerto in tributo all’altare del sol dell’avvenire che sembrava stesse per sorgere in quei tragici giorni.

Soprattutto doveva però nascondere anche l’idea stessa che in Italia vi fosse stata una guerra civile. Tutti noi che siamo stati studenti nella Prima Repubblica, sappiamo bene che la guerra civile fra partigiani e fascisti non è mai esistita: è esistita invece la guerra di “liberazione” - termine che dimenticava, come se nulla fosse, il fatto che se dietro i fascisti vi era un invasore, dietro i partigiani ve ne erano due (o di piú, forse). “Liberazione”: ecco la parola magica inventata, mentre Mussolini pendeva a Piazzale Loreto e il sangue scorreva a litri nel triangolo rosso della morte e in Istria, per occultare sia la sconfitta militare che l’idea stessa di una guerra civile. Al punto tale che - e il cinema ha lavorato molto in tal senso - il “fascista” non era piú neanche italiano, ma era il male in sé, inevitabilmente cattivo perché antitesi dell’inevitabilmente buono, ovvero dell’italiano partigiano.

Ma perché occorreva - e occorre ancora dopo settant’anni - nascondere la sconfitta e la guerra civile? Su questo nodo focale ormai la letteratura è vasta (Galli della Loggia, Emilio Gentile, Paolo Mieli, Marcello Veneziani, solo per citare alcuni fra gli autori piú noti): la ragione vera risiede nella storia precedente, vale a dire nel Risorgimento italiano.

Il processo di unificazione nazionale è stato - al di là del mero risultato territoriale amministrativo - un assoluto fallimento. L’”italietta” nata dal blitz di Cavour e Garibaldi era piú “espressione geografica” dell’Italia dei giorni di Metternich. Niente univa il siciliano e il piemontese, il salentino e il lombardo, il fiorentino e il calabrese. Economicamente era un disastro, piú o meno come oggi. Moralmente screditati e corrotti. Militarmente ridicoli e incapaci (nemmeno gli africani ci rispettavano). Per non parlare della questione meridionale, della mafia, della corruzione, dell’emigrazione di milioni di uomini costretti a lasciare la loro Italia per non morire di fame.

Essendo evidente a tutti il fallimento ideale, civile e culturale del Risorgimento, per forgiare gli italiani fu deciso prima di tentare la via coloniale e fu un disastro, come già accennato. Poi di entrare nella Prima Guerra Mondiale, pur sapendo perfettamente che se ne poteva stare tranquillamente fuori. Il prezzo è stato 600.000 morti e 1.500.000 mutilati e feriti, il tutto per la “vittoria mutilata” (anche la vittoria fu mutilata).

Poi il biennio rosso - con il rischio bolscevico - e infine la dittatura fascista, che si assunse il compito di “fare gli italiani”, ovvero di riuscire dove il risorgimento liberale aveva chiaramente fallito. Il fascismo divenne, come Mussolini stesso dichiarò piú volte e Giovanni Gentile teorizzò filosoficamente - il compimento del Risorgimento. Il Secondo Risorgimento.

Ma il fascismo - al di là di alcuni innegabili risultati positivi - ci ha condotto al secondo disastro mondiale e all’8 settembre, con la “morte della patria”, lo Stato alla sfascio, una monarchia indecente che fugge, un esercito lasciato senza ordini e senza capi, all’invasione degli stranieri e alla guerra civile.

Cosí, il mondo partigiano, almeno l’intelligenza di esso, comprese che occorreva risollevare ancora una volta, per la terza volta, dal baratro il mito fallimentare del Risorgimento. E lo fece facendo scomparire dall’idea italiana il fascismo, la sconfitta e la guerra civile, e presentando la nuova repubblica consociativa, liberal-democratica tendente a sinistra come il vero ultimo passaggio per la realizzazione del “nuovo italiano”, quello appunto sognato dagli eroi risorgimentali. Nacque cosí il “terzo risorgimento”, quello democristian-laico-comunista.

Ecco la necessità di mantenere in vita la festa del 25 aprile. In fondo, abolirla, sarebbe come ammettere che pure il “terzo risorgimento” ha fallito nell’obbiettivo di fare gli italiani e di costruire un Italia unita e rispettabile nel consesso delle nazioni.

Quanto l’Italia di oggi sia unita e rispettabile nel consesso delle nazioni è sotto gli occhi di tutti.

È fallito il primo Risorgimento, quello condotto contro la Chiesa e l’identità cattolica italiana. È fallito il secondo Risorgimento, quello fascista. È fallito pure il terzo Risorgimento, quello del compromesso storico fra “cattolici” liberali, laici e comunisti, che ha prodotto l’obbrobrio in cui oggi viviamo.

Oggi l’Italia neanche esiste piú, essendo divenuta colonia sottomessa a un’entità astratta e al contempo famelica e contro-natura come la UE. Eppure noi continuiamo a festeggiare il 25 aprile.

Come dire... sempre piú stupidi, ogni anno che passa. Sempre meno italiani, ogni anno che passa.

Perché il vero italiano era quello figlio di 26 secoli di storia. Quello che si trovò i piemontesi a casa. Quello era il vero italiano. E oggi, italiano vero, è colui che è in grado di capire e ha la forza di dirlo che questa Italia, questa Repubblica, non ha quasi nulla della vera Italia. E che finché non restaureremo la vera Italia, il nostro destino sarà quello di andare sempre piú allo sfascio generale.

Ma, per usare una loro espressione... “un’altra Italia è possibile”. Non dimentichiamolo e lottiamo per questo.