Lucetta Scaraffia, all’epoca editorialista di Avvenire, scrisse questa lettera per commentare il “Dialogo sulla vita” tra il cardinale Carlo Maria Martini e il professor Ignazio Marino; dialogo pubblicato su “L’Espresso”, numero 16, del 2006. L’articolo de "L'Espresso" destò molte perplessità ed ebbe grande risonanza nella stampa laica, sempre favorevole ad iniziative foriere di confusione, soprattutto quando si tratta di difendere il valore e la dignità della vita umana. Si tratta di una lettera che non è solo una critica, è anche una coraggiosa presa di posizione di fronte ad un gigante dei media del calibro di Carlo Maria Martini; una lettera che esige chiarezza, quella di cui hanno bisogno molti uomini e donne, molti credenti, soprattutto su tematiche di così grande importanza. Questa è la ragione per cui vale la pena di darle uno spazio in più. Senza dubbio è spiacevole che, in questo caso, non sia un cardinale a fare chiarezza, ma l'importante è che Cristo sia annunciato, che la dignità dell'uomo sia sempre difesa e questo, con o senza, le uniformi ufficiali.

 

 

 

 

 

 

LETTERA APERTA AL CARDINAL MARTINI

 

 

Eminenza, sono una storica, cattolica e femminista, e da anni mi occupo dei problemi relativi all’aborto e alle nuove tecniche riproduttive. Seguo sempre con interesse ciò che Lei scrive e dice, ma proprio per questo Le confesso di essere rimasta delusa dal Suo colloquio con il professor Ignazio Marino, con il quale s’interrompe il lungo silenzio da Lei scelto per ritirarsi nella meditazione e negli studi.

Nelle Sue risposte, infatti, cosí aderenti agli esempi proposti nelle domande da non riuscire mai a sollevarsi a una riflessione o a un giudizio piú alti, Lei tratta come casi da valutare e giudicare uno per uno, naturalmente con sollecitudine pastorale, problemi che viceversa implicano con ogni evidenza questioni generali, complesse e profonde. Come se fosse giusto non dare l’importanza che meritano e che tutti vi danno, laici e credenti, come se le nuove scoperte della scienza nell’ambito della vita e della morte non investissero i fondamenti stessi della nostra cultura e la nostra idea di persona umana definita dalla tradizione cristiana. Il guaio è che però le Sue parole - come avrà notato leggendo i commenti sui giornali e come Lei, credo, non poteva non sapere conoscendo il mondo dei media - sono state lette come fossero giudizi di tipo generale: le Sue risposte sono state infatti considerate come risposte a quelle questioni bioetiche - per l’appunto di ordine assolutamente generale - a cui l’insegnamento della Chiesa sta dando risposte, non se lo nasconda, Eccellenza, assai diverse dalla sua.

Questa impostazione è stata senza dubbio favorita dal tono pragmatico, vorrei dire quasi dimesso e minimalista, adottato dal professor Marino, che ha posto solo quesiti concreti prescindendo dal tessuto problematico complessivo che essi implicano. Mi sembra però che Lei, Eminenza, lo abbia assecondato un po’ troppo, contribuendo a una derubricazione delle questioni poste: il tutto grazie, da parte sua, a quel modo di ragionare casuistico che, come Lei sa, ha rappresentato lo stereotipo negativo dei gesuiti fin dai tempi di Pascal. Lei individua, infatti, la presenza di “zone grigie, dove non è subito evidente quale sia il vero bene dell’uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell’umanità intera”, e rispetto a queste propone un giudizio che si vuole piú tollerante di quello espresso dall’insegnamento della Chiesa: con una tattica riduzionista, che permetterebbe di risolvere problemi morali fondamentali in base a un generico senso comune ma che, con l’intenzione dichiarata di “non creare inutili divisioni”, sembra piuttosto avere il risultato di negare la rilevanza delle questioni. Mi permetta qualche esempio.

Una di queste “zone grigie” è rappresentata, secondo lei, dall’uso degli embrioni congelati e abbandonati, che - suggerisce il Suo interlocutore ottenendo il suo assenso - potrebbero essere “destinati a donne single che desiderano avere una gravidanza”. Ma lei sa, o dovrebbe sapere Eminenza, che, al di là di una prima lettura compassionevole, nella realtà ciò significa accettare l’inseminazione all’interno di coppie omosessuali femminili. Lei prospetta quindi una soluzione aperta, dovendosi mettere da parte, lei dice, “principi astratti e generali, là dove invece siamo in una di quelle zone grigie dove è doveroso non entrare con giudizi apodittici”. Ma ritiene davvero, Eminenza, che difendere la famiglia naturale, quella cioè composta da un uomo e da una donna, e la procreazione naturale - che avviene attraverso l’atto sessuale, donazione reciproca di due esseri umani - possa essere considerato un inutile appellarsi a “principi astratti e generali”?

Il Suo ragionare sull’aborto, poi, mi ha veramente stupita: se, almeno per il nostro paese, si può accettare l’affermazione del professor Marino che “la legge ha permesso di ridurre il numero complessivo degli aborti”, questo è avvenuto anche perché i nuovi anticoncezionali - come la “pillola del giorno dopo” e la Ru486 - si avvicinano sempre di piú all’aborto, fino a confondersi con esso. Ma Lei non appare interessato a simili questioni e pensa forse che debbano essere solo le donne a interessarsene. E tuttavia all’essere umano, creato a immagine di Dio, Lei ha sicuramente dedicato molte riflessioni: come può arrivare a dire, allora, che “la vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto”, aggiungendo che “v’è dunque una dignità dell’esistenza che non si limita alla sola vita fisica, ma guarda alla vita eterna”? Lei è certo consapevole che mettere in dubbio la dignità di ogni vita fisica significa aprire la porta alla possibilità che ci siano vite - fisiche, naturalmente - prive di dignità, ma a questo punto non può non sorgere la domanda cruciale: chi decide quale vita fisica abbia una dignità e quale invece non la abbia? E con quali procedimenti lo decide? In base a quali criteri? Date queste premesse, come stupirsi se Lei afferma a proposito dell’eutanasia: “neppure io tuttavia vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto”.

Assolutamente sorprendente infine, nella sua banalità, l’asserzione che “non si può fermare il progresso scientifico”: davvero da una personalità di studioso come la Sua non mi sarei aspettata un simile luogo comune. Oggi quello che Lei chiama “progresso scientifico” dipende infatti, nel campo che ci interessa, quasi totalmente dai finanziamenti di multinazionali farmaceutiche che costringono a fare ricerca nelle direzioni che il mercato considera volta a volta piú proficue. Non pensa che sia allora utile, anzi indispensabile, discutere anche queste “scelte”, nonostante il conformismo culturale che ci circonda? E la Chiesa cattolica - chiamata, come Lei sottolinea, a “formare le coscienze, a insegnare il discernimento del meglio in ogni occasione” - cos’altro sta facendo se non svolgere questo compito arduo, condiviso da intellettuali laici come Jürgen Habermas e Luc Boltanski, cercando di giudicare il progresso scientifico con categorie diverse da quelle utilizzate dal conformismo culturale imperante? Non è tanto un problema di divieti, “soprattutto se prematuri” come Lei dice, né di “oscillare tra rigorismo e lassismo”, ma di ricordare alcune semplici verità davanti al dilagare di promesse di felicità e di progenie assicurata a tutti e comunque, che di scientifico hanno ben poco, come nel caso delle “certezze” sui poteri curativi delle staminali embrionali: la verità, soprattutto, sulla dignità dell’essere umano in qualunque condizione e in qualunque stadio del suo sviluppo.

Le Sue parole, invece, vanno nella direzione del conformismo politicamente corretto - e per questo sono rimbalzate con tanto entusiasmo sui media - aiutando assai poco una discussione che è già difficile a causa dello strisciante processo di delegittimazione culturale a cui non da oggi è sottoposto, insieme alla Chiesa, anche ogni cattolico che voglia restare fedele al suo insegnamento.

 

 

 

 

 

Cfr. SCARAFFIA L., Lettera aperta al cardinale Martini, in Il Foglio, 26 aprile 2006, s. p.