1. - Brevi cenni della vita

Nacque a Trivolzio (Pavia) il 2 agosto 1897 dai coniugi Innocenzo e Angela Campari, ottimi cristiani, e fu battezzato il giorno seguente, con i nomi di Erminio Filippo: decimo di undici figli. Rimasto orfano di madre all’età di tre anni, fu affidato agli zii materni, dimorati a Torrino, frazione di Trivolzio. Fin dalla fanciullezza si aprí alla grazia e si orientò verso la santità. Alunno interno del Collegio Sant’Agostino di Pavia, dopo gli studi umanistici, si iscrisse alla facoltà di medicina nell’Università di quella città. Stando a Pavia fu socio del Circolo Universitario Severino Boezio e della Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, e si iscrisse al Terz’ordine Francescano.

Dal mese di aprile 1917 alla fine del 1920 prestò il servizio militare negli ospedaletti da campo, curando con grande amore i soldati feriti. Laureatosi, a pieni voti, in medicina e chirurgia nel 1921, poco dopo fu nominato medico-condotto di Morimondo (Milano). Vi rimase sei anni, fino a quando si fece religioso, medico dei corpi e delle anime, trasformando “l’esercizio dell’arte medica in missione di carità”. Fu altresí prezioso collaboratore del Parroco di Morimondo, cofondatore e presidente del Circolo giovanile di Azione Cattolica, e segretario della Commissione Missionaria della Parrocchia.

Nel 1927 entrò nell’Ordine Ospedaliero S. Giovanni di Dio, assumendo il nome di fra Riccardo; emise i voti religiosi a Brescia il 24 ottobre 1928. Il primo maggio del 1930 morí santamente a Milano. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Trivolzio e poi, nel 1951, traslato nella chiesa parrocchiale del paese, dove si trova ancora in grande venerazione.

 

 

2. - Sotto le armi

«Avrai forse sentito parlare del terribile terremoto che, distruggendo interi paesi, ha cagionato migliaia e migliaia di vittime nell’Italia centrale; un pericolo ancor piú grande minaccia ora l’Italia, quello d’essere travolta nell’immane conflitto che da ben sette mesi strazia le altre nazioni europee. Prega che Iddio tenga lontano sí terribile flagello che porterebbe il dolore in tutte le famiglie, in molte la desolazione e la rovina». Cosí egli scriveva il 13 marzo 1915 da Pavia alla sorella suora missionaria.

Mancavano due soli mesi alla dichiarazione ufficiale di guerra: già l’odore della polvere era diffuso ed i presagi descritti nella lettera non erano infondati.

«Come certo già saprai, essendo andato a nuova visita nello scorso febbraio ed essendo stato fatto abile, il primo aprile indossai la divisa militare, assegnato al corpo della Sanità. Dopo essere stato tre mesi a Milano, un po’ in caserma ed un po’ in un Ospedale Militare di riserva, sono stato assegnato alla 86a Sezione di Sanità e mandato in zona di guerra. Fortunatamente qui mi sono trovato molto meglio di quanto mi ero aspettato; poiché, essendo stati mandati come truppa suppletiva, non siamo stati aggregati ad alcun reggimento, restando in un paesello tranquillo, molto lontano dalla linea di combattimento, e quindi fuori da ogni pericolo. Ora da due settimane faccio servizio in un Ospedaletto da Campo in sala di medicazione. Quale scempio della povera carne umana, che squarci, quante membra fracassate! Speriamo che per la Divina Misericordia questo flagello abbia a terminare presto, molto presto!».

Questa lettera del 1° settembre1917 era piuttosto reticente anche in ciò che lo riguardava e se ne comprende il perché: il sentimento di carità verso la sorella lontana molto sensibile. Nel 1917 venne chiamato alle armi ancor diciannovenne ed essendo già studente del secondo corso fu destinato al Corpo di Sanità.

Il 1° aprile fu destinato alla caserma di San Vincenzo in Prato, di Milano, ove dopo tre mesi conseguí il grado di caporale di Sanità. Nel giugno venne inviato col raggruppamento al fronte facendo parte della 86a Sezione ed addetto all’Ospedale del corpo d’armata funzionante come centro di rifornimento per gli ospedaletti situati nelle retrovie del Carso.

Nell’estate 1917 si trovava in un primo tempo a Turriaco, poi passò a Ruda, sul basso Isonzo, dove prese il grado di sergente. Vi rimase fino alla ritirata di Caporetto, cioè verso la fine di ottobre. Queste tragiche giornate fecero meglio conoscere la sua fedeltà ed onestà proprio nello sbandamento generale. Ma ne scapitò la sua salute, a tal punto da potersi riconoscere in tale strapazzo una delle cause che lo condussero anzi tempo alla tomba.

L’episodio di Caporetto viene cosí raccontato da un suo compagno d’arme e di università che lo seguí per buon tratto dell’esodo:

«Partiti da Villa Vicentina coll’86a Sezione di Sanità, il Pampuri, non volendo abbandonare l’ingente materiale sanitario che doveva essere poi distribuito ai molti ospedaletti della zona, prese un carro agricolo trainato da una mucca e con quello s’incamminò a salvamento sotto una pioggia torrenziale. La confusione era grandissima e tutti sorpassavano a corsa il modesto mezzo di trasporto del Pampuri, il quale per due giorni consecutivi e sotto la sferza dell’acqua fredda e penetrante, proseguí sino a Latisana, finché, superata appena quella località, il ponte veniva colpito e distrutto» (professor Giulio Meda).

Il sacrificio del sergente Pampuri passò inosservato in quel momento d’universale confusione né venne premiato da qualche encomio.

Dopo la ritirata fu nell’ospedale di Medole. Poté cosí respirare un po’ di libertà e scrisse alla sorella suora, da Torino, dove si trovava presso gli zii godendo una breve licenza: «Io sono stato qui a Pavia dal febbraio alla fine di maggio, ed ora, dopo breve licenza, ritorno in un ospedaletto da campo, dove mi troverò certamente bene e fuori pericolo» (6 giugno 1918). Questa licenza era concessa a tutti gli universitari, in modo che il quadrimestre di frequenza poteva equivalere, agli effetti degli esami, ai due del corso regolare. L’ospedaletto da campo, indicato come fuori pericolo, era quello di Malonno in Val Camonica: egli vi rimase sin quasi al termine dell’anno.

Fu anche per breve tempo all’ospedale succursale di Cadenabbia sul lago di Como col semplice grado di sergente, sebbene ai primi di gennaio del 1919 figurasse studente del quarto corso di medicina.

Era «stanziato», come si diceva nel linguaggio militare, saltuariamente in diversi posti, ma sempre alle dipendenze delle autorità militari perché venivano licenziati gradualmente anche dopo il 4 novembre 1918. Godeva di brevi riposanti licenze che gli permettevano soggiorni presso gli zii in Torrino; ma pur avendo certa facilità di movimento vestiva sempre in divisa, nonostante si fosse ormai alla fine del 1918. Mentre sperava d’ottenere un’altra licenza o di rimanere a casa definitivamente, come scriveva alla sorella il 18 febbraio 1919, dovette restare ancora parecchio tempo in servizio sino alla fine di marzo del 1920.

«Io sono a casa in licenza, dovendo riprendere il servizio militare in qualche ospedale di Milano quale aspirante medico» (lettera 20 marzo 1920 alla sorella).

In quella del 31 dicembre 1920 non parla piú d’impegni militari e fa presente alla sorella che il nuovo anno «dovrebbe essere l’ultimo degli studi ed il primo della vita professionale».

Cosí terminò la parentesi del servizio militare e del contributo disciplinato e generoso dello studente universitario Erminio Pampuri.

I suoi commilitoni lo ricordano in questi ospedaletti da campo, assiduo alle sue devozioni specialmente nell’assistenza alle S. Messe, alle volte numerose secondo gli orari di servizio. Non attendeva però soltanto a cose pie, ma prendeva volentieri uno svago nei giochi con i poveri ammalati o amici di servizio.

La compassione che sentiva verso le carni martoriate dei soldati, la premura che usava nei suoi doveri e la serenità che aveva conservato in quel difficile ambiente, soprattutto la fedeltà che aveva dimostrato nobilmente nelle pratiche della vita cristiana, erano indici sicuri che quell’anima s’era conservata pura, e, passata accanto al fuoco, non era stata intaccata dalle fiamme.

«Seppe dovunque esser lui, cioè coerente ai suoi doveri» (dottor Secondi).

 

 

3. - Tratto dall’omelia del Santo Padre alla Messa per la Canonizzazione

«Beati i misericordiosi... Beati i puri di cuore» (Mt 5, 7-8). In appena trentatre anni, quali quelli del Cristo da lui amato sopra ogni cosa, la vita di S. Riccardo Pampuri fu tutta un dono, a Dio e ai fratelli: come giovane apostolo tra gli studenti universitari, tra i militari in trincea durante gli orrori della guerra, tra i fedeli della parrocchia dove fu medico condotto. Seguendo poi la sua vocazione personale, egli entrò nell’Ordine dei Fatebenefratelli, perché attratto dallo specifico ministero di questa famiglia religiosa di natura laicale, sorta per un servizio di carità anche eroica verso gli infermi, e verso i sofferenti piú poveri.

In una comunità che doveva fare della misericordia il motto principale del proprio ministero, San Riccardo sentí di dover rispondere con un nuovo segno ed una nuova disponibilità a Cristo, «con una corrispondenza sempre piú pronta e generosa, con un abbandono sempre piú completo, sempre piú perfetto nel Cuore Sacratissimo di Gesú» (Lettera alla Sorella, 6 ottobre 1923).

Occorre però ricordare che San Riccardo iniziò il suo cammino di santificazione nel contesto dell’intensa spiritualità dei laici, proposta dall’Azione Cattolica. Per questo, sia come adolescente, che come giovane studente e professionista, s’impegnò nel lavoro di formazione con l’aiuto di un’attenta direzione spirituale, facendo degli Esercizi Spirituali un suo impegno forte e attingendo alla pietà eucaristica l’energia necessaria per proseguire nonostante le difficoltà. Soprattutto egli penetrò il messaggio della carità evangelica alla luce della meditazione e della preghiera, trascorrendo intensi tempi di contemplazione accanto all’Eucarestia, e dedicandosi poi, con una sensibilità particolarmente acuta, ai sofferenti in ogni circostanza.

Come non essere toccati dalle parole con cui San Riccardo si rivolgeva, in un ultimo colloquio, al suo direttore spirituale: «Padre, come mi accoglierà Iddio?... Io l’ho amato tanto, e tanto lo amo». In questo intenso amore sta il supremo valore del carisma di un vero Fratello dell’Ordine di San Giovanni di Dio, la cui vocazione consiste proprio nel riproporre l’immagine di Cristo per ogni uomo incontrato nel proprio cammino, in un rapporto fatto di amore disinteressato e alimentato alla sorgente di un cuore puro.

 

 

 

 

 

Cfr. San Riccardo Pampuri, in Bonus Miles Christi, 3 (1990), 201-204.