Ha fatto molto parlare l'articolo di P. Giuseppe De Rosa dal titolo "Attività terapeutica in Italia" pubblicato sulla Civiltà Cattolica del 5 settembre scorso. La sua riflessione, per certi aspetti un po' critica, sulla psicologia è stata ripresa anche dalla stampa nazionale con interventi autorevoli di psicologi e teologi in favore o contro le tesi di De Rosa e, in ultima analisi, in favore o contro Freud nella Chiesa. Il dibattito ha fatto riferimento anche al mondo dei religiosi e dei chierici in generale che, secondo alcuni, sta diventando un ghiotto consumatore delle idee portate dalle nuove psicologie.

Pensiamo quindi sia utile fare alcune precisazioni, dato che la nostra rivista da anni si interessa di questioni psicologiche applicate alla vita religiosa. Prendiamo lo spunto dall'articolo di De Rosa invitando il lettore a leggerlo direttamente per rendersi conto della differenza fra quanto lui ha scritto e i commenti riportati.

 

 

Lo psicologo è attendibile?

 Innanzitutto l'articolo vuol fare un quadro della situazione. Non entra quindi nel tema della interdisciplinarietà, cioè del complesso intreccio fra scienze umane (psicologia) e scienze cosiddette sacre. Spiega il dato di fatto. In Italia esistono diverse forme di psicoterapia e diverse teorie psicologiche. Secondo una ricerca condotta dal Centro Diffusione Psicologia di Genova e riportata dal nostro autore, esisterebbero in Italia cinque indirizzi generali teorici di psicoterapia con 47 possibili sub specializzazioni. Il numero è certamente per difetto. Basta partecipare a un qualsiasi convegno di psicologia per rendersi conto che ogni partecipante, anche se si ispira ad un indirizzo teorico comune, ama definirsi 'eterodosso', cioè fa quasi scuola a sé. C'è molto eclettismo e auto-invenzione.

Ne deriva subito un problema teorico ma con importanti risvolti pratici. Quale è lo statuto epistemologico dello psicologo? da quali assunzioni teoriche parte? quale è il grado di attendibilità delle sue affermazioni? Che metodi di ricerca ha usato per definirle? In che senso le sue affermazioni sono scientifiche? Non sono domande oziose. e neanche inquisitorie, ma proprie al metodo scientifico. E, in pratica, ciò vuol dire: quando vado da uno psicologo, costui necessariamente interpreta la mia situazione di vita, e per farlo usa delle sue categorie in base alle quali 'ricicla' il mio vissuto e mi restituisce, interpretata, la mia situazione esistenziale con in piú delle chiavi di lettura che mi aiutino a padroneggiare meglio la mia esistenza. Non è suo compito darmi ricette del tipo 'fai/non fai' ma, molto di piú, mi suggerisce criteri di valutazione.

Data questa posta in gioco, è legittimo chiedersi la fondatezza e attendibilità delle sue categorie di riciclaggio. Si fondano su ricerche scientifiche o su osservazioni empiriche del tipo 'mi sembra che...', 'dalla mia esperienza risulta che...', 'io penso che...'? È un diritto del 'paziente' saperlo e il terapista non può trincerarsi dietro ad una pretesa neutralità. Come il paziente si svela, anche lui lo deve fare.

 

 

Il diritto di informarsi

 Ritornando alla situazione di fatto, De Rosa ci ricorda che solo dal 1989 esiste una legge dello stato che istituisce l'ordine professionale (per altro non ancora costituito di fatto) e che la stessa legge prevede una sanatoria valida fino al 1994 che in pratica legittima la situazione preesistente. La conseguenza è che attualmente in Italia convivono realtà professionali antitetiche: il serio terapista che si sottopone ad anni di tirocinio prima di iniziare l'attività professionale e il professionista che, lusingato da facili guadagni o dal potere carismatico si trasforma in un plagiatore. Non è colpa di nessuno, ma è una situazione comprensibile e inevitabile quando una attività professionale si sviluppa senza regolamentazioni legali. Ciò vuol dire che la parola 'psicologo', 'psicologia', 'psicoterapia' è una scatola vuota, senza definizione, che contiene figure professionali diverse e opposte fra di loro. Di qui il diritto del 'paziente' di selezionare e di informarsi, prima di affidarsi ad uno psicologo, parola magica che per molti è già sinonimo di guarigione, verità, soluzione dei problemi.

 

 

Il divieto di usarlo

E arriviamo al punto dolente dell'articolo. Nell'ultimo paragrafo De Rosa scrive: "lo psicoterapeuta, specialmente se è di formazione psicanalitica freudiana, ha una visione della vita puramente materialista, e quindi a-morale e a-religiosa, oppure una visione pansessualistica. È evidente che il paziente cristiano potrebbe trovarsi in grave difficoltà sotto il profilo morale e religioso... Di qui la proibizione fatta ai religiosi di sottoporsi ad analisi, salvo un permesso esplicito". (Si tratta del monitum del sant'Uffizio del 15-7-1961 pubblicato anche sull'Osservatore Romano del 16-7-61 a pag. 3). Questo paragrafo (o meglio, solo queste righe e non quelle subito dopo che invitano numerosi cristiani a intraprendere questa professione) è stato lo spunto per riattivare l'annosa polemica del sospetto da parte della chiesa nei confronti di Freud e compagni. E cosí, la stampa ne ha fatto un caso nazionale, anche se non si capisce perché non abbia ripreso il discorso di De Rosa nella sua interezza, compreso il grosso giro di affari che ruota intorno alla psicoterapia.

Comunque sia, questo paragrafo incriminato non dice nulla di nuovo. Sappiamo tutti la matrice di certe psicologie, e non solo di quella freudiana. Scorrendo le varie scuole psicologiche, non ne troviamo molte che sostengano la visione cristiana di uomo aperto alla trascendenza e ai valori teocentrici. Per questa realtà troviamo, al massimo, rispetto e un 'no-comment' ma non è facile trovare un psicologia che mostri (come di fatto é) che la dimensione valoriale sgorga ed è richiesta dall'operare stesso dell'uomo. È un tentativo che incomincia ad apparire in questi ultimi anni, sorretto da ricerche empiriche condotte da autori liberi, senza 'pregiudizi' di partenza. Inoltre l'affermazione che la psicoanalisi abbia una antropologia materialista è un dato riconosciuto anche in casa psicoanalitica e, dunque, non una valutazione morale. I grandi attuali della psicoanalisi hanno elencato molti limiti della antropologia freudiana: Bettelheim, Kernberg, Roy Schafer, Shapiro, Arnold, Janis, Ackermann, Rangel... Chi vuole rendersene conto può leggere D. Shapiro, La personalità nevrotica (Boringhieri, 1991) dove questo grande attuale della psicoanalisi fa critiche ben piú sostanziali di quelle di De Rosa alla visione di uomo proposta da Freud. Dalla morte di Freud a oggi, molte cose sono cambiate anche fra i Freudiani che ne denunciano il materialismo e incominciano a considerare la dimensione dei valori come capitolo essenziale per una piú completa visione di uomo. Almeno, loro se ne sono accorti...

 

 

Non banalizzare il mistero dell'uomo

Poi c'è il divieto del sant'Uffizio. Non si tratta di una condanna della psicoanalisi ma un avvertimento per chi entra nella coscienza del religioso (e del cristiano): non può sindacare (semmai senza parole) sulla legittimità dei valori trascendenti, che invece sono elementi costitutivi della identità umana (oltre che cristiana). Non è una guerra alle streghe, né si è voluto identificare Freud con il diavolo. Si trattava piuttosto di garantire e proteggere l'interiorità dell'uomo da facili riduzionismi. Che quel monito non sia un intervento contro la psicologia è chiarissimo se rileggiamo anche gli altri interventi del magistero in proposito. C'è il Discorso di Pio XII ai membri del 5º Congresso internazionale di psicoterapia e psicologia clinica del 13 Aprile 1953 (di 8 anni precedente al monito del sant'Uffizio). C'è la lettera apostolica Octogesima Adveniens di Paolo VI, n. 40). Il discorso di Giovanni Paolo II ai membri della Rota romana del 5 Febbraio 1987 (per non parlare del taglio fortemente antropologico di tutto il suo magistero). Sono tutti interventi che non sposano né criticano la psicologia ma la mettono in un quadro interpretativo e ne indicano l'uso corretto.

Al momento attuale si può con certezza dire che da parte della Chiesa ufficiale c'è un atteggiamento favorevole nei confronti della psicologia e che semmai la confusione è sul piano operativo circa il reale apporto della psicologia per una visione integrale dell'uomo. Ma nel Magistero troviamo interventi ancora piú espliciti. Il concilio Vaticano II ha riconosciuto alla psicologia il suo contributo in tre aree specifiche: l'opera di formazione dei candidati al sacerdozio (Opt. Tot., 3,11), la preparazione pastorale (Opt. Tot., 20) e l'indagine teologica (GS 62,54). Bisognerebbe rileggere GS 62: "Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei principi della teologia ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti a una piú pura e piú matura vita di fede". Come si vede, la psicologia non è vista solo in funzione di una maggiore maturità umana, né solo per una maggiore professionalità degli educatori, né per una piú ampia specializzazione culturale. È sottolineato il suo contributo per la maturità cristiana: vivere in maggiore profondità i valori della sequela di Cristo e questo attraverso un processo di integrazione progressiva fra strutture psichiche ed esigenze poste dai valori. È quanto Testimoni sta facendo da anni nella rubrica psicologia e vita spirituale. Siamo dunque ben lontani dal santificare o demonizzare una scienza. Il problema non è qui. La Chiesa sta facendo alla psicologia delle domande molto esigenti e importanti e non può ricevere da essa risposte generiche e sommarie. Il vero problema non è il rifiuto della psicologia ma l'inadeguatezza della stessa a far fronte a domande cosí impegnative. Noi, chiesa, l'abbiamo presa sul serio, speriamo di avere una risposta altrettanto impegnativa.

 

 

Attenzione alle mode

Un ultimo punto. Abbiamo letto sui giornali di una presunto aumento di richiesta psicoterapeutica da parte dei religiosi e dei preti. Non so se si voleva dire che aumentano i disturbi psichici nei conventi o che questo denota la serietà di domanda che i conventi rivolgono anche alla psicologia per migliorare se stessi. Sarà vero un tale aumento? bisognerebbe fare delle ricerche statistiche. Comunque sia, non prendiamo queste affermazioni come slogan per lanciare nuove mode! Dobbiamo essere realisti. In questi anni c'è stato il boom della psicoterapia (De Rosa parla di 32.000 psicoterapeuti e di 400.000 utenti). Ma in tempi recentissimi stiamo assistendo anche ad una leggera inversione di rotta. Ci sono molti ex 'pazienti' che si chiedono se valeva proprio la pena sborsare dalle 40.000 alle 100.000 per seduta (e a volte per anni) e ritrovarsi alla fine con gli stessi problemi semmai coscientizzati e analizzati ma sempre presenti. Inoltre il concetto di 'terapia' non è come il cliente si aspetta: lui pensa che essa gli risolva il suo problema, mentre il servizio della terapia non è risolvere ma analizzare. Per risolvere ci vogliono dei valori, dei motivi nuovi, che spingano ad adottare stili di comportamento piú maturi, ma queste forze non le dà certo la psicoterapia. Essa non aggiunge nulla! E poi, la proliferazione di centri, scuole, indirizzi.... sta producendo una vera caccia al cliente. Anche nella cura della psiche, il discorso commerciale ha un suo peso. Aggiungiamo poi il fatto che tutte le principali scuole terapeutiche stanno riscontrando una crisi o un ripensamento circa la loro efficacia. Visti questi smarrimenti che incominciano qua e là ad apparire, ne deriva che il 'bacino utenti' può anche restringersi e, allora si fa l'occhiolino al mondo dei religiosi e dei preti: chissà che non possa costituire un buon rifornimento... Attenzione alle strumentalizzazioni. Il rapporto psicologia e vita cristiana non si gioca solo a livello di dialogo fra le due scienze e di interrogativi circa la loro eventuale conciliabilità. Diventa anche un imbarazzo pratico quando noi stessi decidiamo di andare dallo psicologo o dobbiamo indirizzare altri. Da chi andare? da quale psicologo?

 

 

Il diritto di sapere

Il 'paziente' ha il diritto di conoscere lo statuto epistemologico dello psicologo a cui si affida, conoscerne i presupposti teorici e i criteri che egli usa per interpretare il vissuto altrui. Ma, di fatto, spesso non può avvalersi di questo diritto: non è un tecnico del mestiere e non conosce le differenze fra le molteplici scuole psicoterapeutiche. Spesso non rimane che affidarsi alla cieca e sperare di essere stati fortunati nella scelta. Ecco la prima cosa da evitare: andare alla cieca, riservandosi semmai di verificare la scelta a contratto terapeutico iniziato. La chiarificazione va fatta all'inizio, prima di incominciare il cammino vero e proprio. Dopo i primi incontri con lo psicologo la persona deve valutare se continuare o no. Infatti il processo terapeutico, una volta avviato, produce un legame abbastanza profondo fra psicoterapeuta e cliente, che è del tutto particolare perché asimmetrico: uno dei due svela la propria interiorità e l'altro la osserva e la 'tratta'. Non c'è dunque reciprocità. E in questo contesto, ritirarsi a cammino avvenuto può essere vissuto dal cliente come fallimento o interpretato dallo psicologo come difesa e quindi fa scattare sentimenti di colpa. Anche qui, vale il principio: 'patti chiari e amicizia lunga'. È il rapporto terapeutico stesso che richiede chiarezza da parte di entrambi. A mio parere, c'è da sospettare se l'esperto svicola dal rispondere a domande circa il suo orientamento teorico, trincerandosi dietro ad una interpretazione riduttiva della regola (legittima) di essere solo uno specchio attento e silenzioso per il cliente.

 

 

La componente dei valori

Per definizione, nella psicoterapia il cliente "proietta" sullo psicoterapeuta il suo mondo interiore (conscio e inconscio). In questo mondo ci sono anche i valori, non solo religiosi e trascendenti, ma anche quelli naturali. Cioè, il paziente riferisce i criteri che lui usa per orientarsi nel mondo e valutare ciò che vale e non vale. Forse non ne parla esplicitamente, ma attraverso i piccoli o grandi fatti della sua vita, comunica quali sono le coordinate fondamentali del suo esistere, il canovaccio che lui ha scelto per sorregge il suo operare e vivere. Ora, questi valori possono anche essere da lui vissuti in modo distorto, infantile, per colpa, reazione, abitudine, paura... ma ciò non toglie nulla alla loro validità oggettiva e non significa neppure che siano, per la persona che li usa cosí, solo delle sovrastrutture difensive. Questo, almeno, quando la persona non soffre di gravi disturbi psicotici, nel qual caso (ma non sempre) i valori sono in realtà pulsioni trasformate. Voglio dire: per vivere in modo maturo occorre rispettare certi valori che non creiamo noi, ma che noi possiamo solo riconoscere. In secondo luogo, l'uso distorto che io faccio del valore non è indice della sua assenza in me: una parte di esso è vulnerabile, ma un'altra è ancora intatta, sana e 'germinativa'. In pratica ciò significa:

1. Nessuno psicologo, a qualunque scuola appartenga, si può permettere di sostenere che di fronte alla vita la persona umana ha una assoluta creatività, quasi che vita beata e psicologicamente matura sia sinonimo di arbitrarietà nella scelta dei valori (naturali oltre che rivelati) da seguire. Non è questione di teorie psicologiche ma di rispetto per la vita umana, la quale deve svilupparsi lungo dei filoni oggettivi, condizione 'sine qua non' per il suo successo. In questo campo, l'uomo non ha una libertà assoluta. C'è quindi da stare in guardia quando ci sentiamo dire: "fallo, se è un tuo desiderio...", "lasciati andare ai tuoi sentimenti...", "se per te va bene cosí, non aver paura, agisci"... Sono banalità e frasi fatte che non reggono per mancanza di senso prima ancore che per ragioni cristiane.

2. Nessuno psicologo, per sciogliere la parte vulnerabile dei nostri valori, può negare la loro validità, non solo in se stessi, ma nel modo come già li stiamo vivendo. Nel campo della psiche, la debolezza di una parte non squalifica il tutto. Se l'interpretazione dell'esperto non rispetta questo principio, non tenetela per buona. Ad esempio: interpretazioni strettamente psicogenetiche del tipo "sei cosí perché nell'infanzia...", interpretazioni totalizzanti senza inquadrarle in un contesto piú ampio del tipo "qui sta parlando il bambino che è in te", "ricerchi nel superiore la figura paterna", "credi di vivere per gli altri e invece li stai usando per te"... Sono interventi che non solo non vi guariscono la parte vulnerabile, ma hanno il potere di togliervi quel tanto o poco di germinativo che già avete. La corretta tecnica terapeutica dice invece che per diminuire un sintomo occorre ampliare il contesto, cioè esattamente il contrario degli slogans suddetti. Il cambiamento si ha quando si aiuta una persona a ripristinare il senso di paternità dei suoi comportamenti e ad alzare il suo livello di intenzionalità. Una azione che era vissuta come casuale o deterministicamente, ora può essere vissuta come intenzionale: ecco la molla della crescita e il vero contributo dell'esperto. In sintesi, c'è un criterio di valutazione che tutti possono usare: un aiuto (non solo in sede psicologica ma anche di direzione spirituale) è sbagliato quando diminuisce la responsabilità della persona adulta.

 

 

La verità di noi stessi

Di solito si va dallo psicologo per conoscersi meglio. Ma ciò non vuol dire che lui arrivi a conoscerci meglio di noi stessi. Lui conosce di noi solo poco di piú di quanto noi conosciamo. Semmai, il suo vantaggio è di vedere con un punto di vista diverso (speriamo piú maturo e libero). Dunque non aspettiamoci da lui la verità su noi stessi ma manteniamoci il diritto di essere, noi, a dire la parola definitiva su noi stessi. Nella relazione terapeutica, il cliente è, per cosí dire, tagliato fuori dai suoi veri sentimenti, è estraneo ad essi. Lui pensa di sentire e credere una cosa mentre effettivamente sente e crede un'altra cosa (ad esempio, pensa di essere triste ma in realtà è arrabbiato). ma questa 'altra cosa' (nell'esempio il sentimento di rabbia) gli appartiene, è dentro di lui, attiva e viva. Solo che lui non sa darle un nome. Lo psicoterapeuta, piú libero di fronte a quella cosa, la sa cogliere e la 'restituisce' al cliente, cosí che anche lui possa riconoscerla ed esserne padrone. Cosa ha fatto l'esperto: non ha pronunciato nessun oracolo o profezia. Ha semplicemente dato voce e parole a ciò che già era dentro al cliente. E in questo senso non gli dice nulla di nuovo. Fa solo emergere una verità che già era dentro al cliente ma senza parole. E allora, l'aiuto che ricevete lo dovete sentire vero voi; vero perché vi rimette in contatto con le forze piú positive di voi che quella estraniazione precedente aveva incapsulate in un sacchetto impermeabile. Nel caso contrario, lasciate che un estraneo, meno informato di voi su di voi, sia arbitro della vostra verità. Voi diventate dei dipendenti e lui un terrorista. In pratica: un aiuto è vero se dopo l'incontro potete dirvi "ecco, finalmente uno che mi ha preso sul serio".

 

 

Capire subito

Tutto questo va fatto all'inizio. Basta allora fare quello che lui fa nei primissimi incontri. Ascoltandovi, lui valuta la vostra 'disponibilità' facendovi delle domande. Voi guardate come accoglie il vostro problema. Non si esprime mai per cui non avete capito con che tipo avete a che fare, interpreta subito il vostro problema dandovi la chiave di lettura, vi propone subito un cammino interminabile, gli interessano solo i sogni e le fantasie (preferibilmente sessuali) o l'infanzia, vi dice che lui prescinde o rispetta i vostri valori morali e religiosi ma rimane 'neutrale', chiede una parcella esorbitante. In questi casi io rimarrei piuttosto scettico. Comunque sia, io non andrei da uno psicologo che non faccia esplicita professione personale di fede: il coinvolgimento richiesto dal rapporto è troppo alto per lasciare la fede cristiana fra le scelte opinabili. Forse ho dato l'impressione di avercela con la categoria degli psicologi o di voler inculcare nei religiosi l'ombra del sospetto. Il punto non è questo. Personalmente non perdo occasione pur di propagandare l'uso corretto della psicologia nei nostri ambienti. Il punto è che il cristiano cerca, come può, di prendere sul serio la propria vita ed è per questo che va dallo psicologo. Da lui pretendiamo una risposta altrettanto impegnativa, oltre ogni riduzionismo e psicologismo. La psicologia deve mantenere alto il tono delle sue risposte, perché alto è il tono delle nostre domande.

 

 

 

 

 

Cfr. Testimoni 18 (1992), 6-8; Testimoni, 19 (1992), 7-8.