Quando vi siete presentato alla Chiesa, - disse, con accento ancor più grave, [il Cardinal] Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v'ha essa fatto sicurtà della vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario? Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? [...] E se non sapete questo, che cosa predicate? Di che siete maestro? Qual è la buona nuova che annunziate a' poveri? (MANZONI A., I promessi sposi, cap. XXV).

 

 

 

 

 

Ancora lui...

Ebbene sí, ancora lui, ancora don Abbondio! Di questi tempi si è tentati di citarlo con ironia, ma anche con disappunto, stante il fatto che il personaggio manzoniano - si fa per dire - puntualmente fa capolino nella cronaca e nei mass media e non certo per ragioni virtuose. Povero don Abbondio, quello manzoniano in fondo - a parte qualche eccezione - il suo dovere lo faceva, non altrettanto invece si può dire dei don Abbondio dei giorni nostri.

Fra preti e vescovi che con grande pompa mediatica convolano ad ambigue nozze e disobbediscono alla disciplina ecclesiastica è sempre piú faticoso per chi è chiamato alla cura animarum tenere unito e sereno il grex fidelium. Non è semplice, né agevole trattare simili argomenti che, per il bene dei piú incerti nella fede, si preferirebbe affidare all’oblio. Tuttavia poiché si tratta di fatti ai quali il prurito mondano è solito dare la massima pubblicità è opportuno e doveroso parlarne con chiarezza: «Sia... il vostro parlare sí, sí; no, no; il di piú viene dal maligno» (Mt 5,37). Sí, occorre parlarne, perché in questi casi ormai anche il tacere potrebbe favorire il maligno.

A pubblico tradimento si deve pubblica replica. Perché a questo punto di tradimento occorre parlare: tradimento di Cristo e della sua Chiesa. È inutile cercare di giustificare disordine e anarchia adducendo a pretesto libertà o inediti e discutibili diritti individuali. Che fine hanno fatto semmai i pubblici attestati di fedeltà a Cristo e alla Chiesa fatti coram populo con grande solennità?

Coloro che vengono meno ai propri impegni non possono poi proclamarsi “parroci morali” di comunità che - a loro dire - non dovrebbero accettare imposizioni. Di quale comunità possono mai essere guide credibili coloro che non sono fedeli neppure alle proprie scelte fondamentali? Delle due l’una: o essi dichiarano sinceramente di aver fatto una scelta vocazionale errata, chiedendo semmai aiuto per chiarirla, oppure devono rendere conto delle proprie azioni. A quali imposizioni dovrebbe poi opporsi una comunità ecclesiale? Se ciò che si comanda rientra nell'ambito del diritto canonico si tratta di obbedienza e non certo di arbitraria imposizione. C'è un giogo infatti a cui la Chiesa, fino alla più piccola comunità locale, deve assoggettarsi ed è quello di Cristo: il giogo della carità, fino alla dimenticanza di sé per amore di Dio e del prossimo (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De civitate Dei, 14, 28; 19, 17).

 

 

Cercare il gradimento di Cristo

Ecco, dimenticarsi vuol dire anche non pretendere neppure di essere amati, esigendo invece da sé stesso l’onere di servire e amare gli altri: a ciò, infatti, è chiamato il sacerdote e ancor piú il vescovo, ambedue tenuti a cercare non il gradimento altrui ma solo quello di Cristo. Sí, testimoniare il Vangelo può essere scomodo: occorre dire cose ardue e spesso impopolari, difficili da chiedere, come il perdono, la purezza, la restituzione della buona fama, quella del maltolto e tante altre ancora... È facile invece - e crea consensi - accontentare tutti. Cosí il pastore, per esser benvoluto e non dover portare il peso che la diligenza pastorale comporta, è spesso tentato di far generosi abbuoni, tanto piú che così facendo egli non regala certo del suo. No, cosí egli mente sapendo di mentire, e oltre a tradire Cristo - quod absit! - inganna i suoi fratelli nella fede (cfr. Ef 5,6; Col 2,8; 1Ts 4,6).

Sí, è facile parlare di “chiese di peccatori” (e che tali purtroppo rischiano di restare) dimenticando che la Chiesa di Cristo è fatta sí di peccatori ma anzitutto di santi; ed è appunto alla santità che tutti noi peccatori siamo chiamati. In caso contrario non di Chiesa si potrebbe parlare semmai di «sinagoga di satana» (cfr. Ap 2,9), ben sapendo che chiunque «...trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Mt 5,19).

Valutando con tristezza la congerie di falsità sparse ora per ignoranza, ora ad arte per calcolata malizia, saltano all’occhio perfino aberrazioni secondo le quali la Chiesa, per esempio, vieterebbe ai sacerdoti di innamorarsi. E quando mai la Chiesa avrebbe concepito una simile insensatezza? Considerando il fatto che l’innamoramento è un sentimento del tutto spontaneo e che perciò non dipende dalla persona il porlo in essere, si tratterebbe di un divieto alquanto insolito e, si sa, ad impossibilia nemo tenetur. No, la Chiesa non ha mai imposto niente contro natura, né mai ha vietato ad alcuno di innamorarsi. Semmai esorta i suoi ministri a non assecondare quanto può distoglierli dalla santità del proprio stato, ma soprattutto li esorta ad amare Dio al di sopra di ogni cosa, sicché nessun legame puramente mondano ha piú senso alcuno. Ecco la vera discriminante che tocca le profondità del cuore di ogni sacerdote e di ogni vescovo:

«“Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu piú di costoro”? Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”.

Gli disse: “Pasci i miei agnelli”.

Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene”?. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”.

Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”.

Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene”?.

Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”.

Gli rispose Gesú: “Pasci le mie pecorelle”» (Gv 21, 15-17).

Senza questo amore originario, senza questa scelta previa, non c’è vocazione, né ministero autentico.

Troppo spesso leggiamo con superficialità questi passi del Vangelo e la risposta piú sincera, forse, dovrebbe essere un’altra:

«Signore, tu sai tutto, tu sai che non ti amo come dovrei, che non so amarti come vorrei, insegnami tu ad amare davvero»!

 

 

Soprattutto... non aveva l'amore...

Sí, aveva torto don Abbondio quando diceva: «Il coraggio, uno non se lo può dare»! Semmai è la grandezza di cuore che uno... “non se la può dare”. Il coraggio può sortire dalla temerarietà oppure dall'ignoranza del pericolo, non cosí invece quella grandezza di cuore che è un dono dall’alto, ragion per cui la carità viene detta virtú teologale. Sí, don Abbondio non aveva coraggio, ma soprattutto... non aveva amore.

Sì, don Abbondio non ha cognizione, né sentimento alcuno di essere amato in modo singolare da Cristo. È questa, infatti, la vera eredità di coloro che hanno scelto di servire il Signore, nuovi leviti, apostoli di Cristo, uomini senza possedimenti ma con Dio nel cuore.

In verità il vivere senza carità è già peccato (cfr. 1Cor 16,22; 1Gv 3,10; 1Gv 4,8) e... «se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,8-10).

«Figlioli miei, - prosegue con tono amorevole il bellissimo testo giovanneo - vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesú Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,1-2).

Ecco da dove attinge slancio il cuore di ogni servo di Dio, da questa inesauribile e inestinguibile fonte di amore e di misericordia. Non ci sono altre strade possibili, altre vie che egli possa percorrere. Senza questa divina grazia resta solo il proprio sterile egoismo, smarrito nei meandri di una passionalità estranea ad ogni virtú.

 

 

Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno...

Quanto è necessario considerare più che mai coloro che spesso non compaiono nella scena di certi drammi ma che non di rado ne sono gravemente corresponsabili. Se chiara e ferma deve essere la risposta data a chi tradisce, quanto piú ferma e chiara, e severa, e forte, ed esigente, deve essere quella rivolta a chi ha mancato ai propri doveri nel formare, nel discernere, nel consigliare e nell’ammettere agli ordini sacri?

«Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno - scrive l’apostolo Paolo a Timoteo -, per non farti complice dei peccati altrui. Conservati puro!» (1Tm 5,22).

Singolare l’esortazione concisa e risoluta dell’Apostolo a Timoteo: Conservati puro! Sii innocente! Abbi nel tuo cuore la purezza e l’innocenza di Cristo, la prudenza del serpente e la semplicità della colomba (cfr. Mt 10,16).

 

 

La sventura degli uomini costituiti in certe dignità...

Torna alla memoria il magnifico ritratto che il Manzoni fa del Cardinal Federigo nel cap. XXIV de I promessi sposi:

«La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’abnegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel piú elementare insegnamento della religione. [...]

La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto piú, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti.

Uno di costoro, una volta che, nella visita d’un paese alpestre e selvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l’interrogare e l’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l’avvertí che usasse piú riguardo nel far tante carezze a que’ ragazzi, perché eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego cosí fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in certe dignità: che mentre cosí di rado si trova chi gli avvisi de’ loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: - sono mie anime, e forse non vedranno mai piú la mia faccia; e non volete che gli abbracci?

Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de’ suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co’ pastori suoi subordinati che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d’ardore, né d’agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell’animo suo, piú mirabile se vi si destavano».

È questo il profilo di un autentico pastore, di un uomo vissuto nell’amore di Dio e del prossimo fino alla dimenticanza di sé (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De civitate Dei, 14, 28; 19, 17). È un ritratto nitido di quell’officium amoris (cfr. S. AUGUSTINUS, In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5: PL 35, 1967) che è la piú bella sintesi, forse, del sacerdozio cattolico. A ragione fu scritto... eorum actiones cunctis afferant venerationem (cfr. Acta Sacrosancti Concili Tridentini, Sessio XXII, Decretum de reformatione, c. I.).

Sí, costui è come una sorgente d’acqua pura, l’acqua della vita, di cui nel Vangelo è detto: «...chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,38). È con questa acqua viva che egli irriga la Chiesa affidatagli; è quest’Acqua che a sua volta genera non certo cattivi pastori e mercenari (cfr. Gv 10,12-13) ma «amici di Dio e profeti» (Sap 7,27).

 

 Collage of magazines

Periodici, siti Web e altri mass-media, alcuni schierati e altri ambigui,
specializzati o generalisti. Nel variegato panorama offerto dalle molte
agenzie culturali e informative non mancano iniziative anche insolite.
Le maggiori insidie però provengono dal fronte del dissenso cattolico.

 

 

 

 

Nell'amore non c'è timore, non c'é ambiguità, non c'è confusione...

È scritto che... «nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18).

Sí, l’amore perfetto scaccia il timore, ma l’amore perfetto dissipa anche il dubbio. Chi ama non presume di sé ma neppure vacilla nella fede, non vive nel turbamento, non coltiva incertezze e tanto meno le infonde nei cuori altrui, e se esita dinanzi alla croce - com’è umano che sia - sa dire a sua volta: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42).

Ecco, è di vescovi cosí che il mondo ha sete; è di sacerdoti cosí che il mondo ha nostalgia e desiderio e se il nome di Dio è bestemmiato non di rado lo è anche perché i suoi ministri non sono come dovrebbero (cfr. Rm 2,24):

uomini che nella loro carne hanno impresso il sigillo di Cristo, bruciati non dallo stress mondano ma dalla carità divina;

uomini che non scandalizzano i piú piccoli, i deboli di coscienza, i piú lontani e i piú fragili, già crocifissi dalla propria debolezza, da un’affettività smarrita, da una sensualità che finisce con il distruggerli, devastando le loro vite e le loro famiglie;

uomini che insegnano ad amare e che non scavano ai poveri di spirito nuove e piú profonde fosse morali;

uomini che non cavalcano le emozioni della gente e non sfruttano il prurito morboso del mondo per imporre la loro credibilità;

veri vignaioli del Signore che non sciupano il lavoro di tanti fratelli che portano il proprio e l’altrui peso tutti i giorni senza recriminare, senza condannare, senza chiedere comprensione a nessuno, pur offrendola a tutti.

Cosí, e solo cosí, ci sia concesso di servire il Signore “senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni” (Lc 1,74-75).

 

 

 

**