Come può la Chiesa accettare che esistano dei cappellani "militari"? Come si concilia questo con la pace insegnata dal Vangelo?

 

 

 

 

È una domanda che ricorre frequentemente e che merita una risposta puntuale. Al riguardo può essere utile la lettera di un cappellano militare apparsa di recente anche sul periodico Famiglia Cristiana in data 01-04-2001:  

 

«Carissimo Andrea, alla fine mi sono deciso: due parole in riferimento alla tua lettera su Famiglia Cristiana. Vorrei dirti un sacco di cose. Io non amo molto scrivere, e stare qui con te mi costa un po'. Non ti vedo e non ti conosco, eppure la stessa pagina di Famiglia Cristiana ci ha avvicinati: tu con la lettera e io con la foto ed i marmocchi che ci fanno da cornice. Quel giorno è vivo nel mio cuore, volti e voci e situazioni che quando le vivi diventano tue. Ti scrivo solo per questo, perché io sono quell'uomo che accanto alle tue parole avverte un po' di disagio e non posso rimanere in silenzio. Mancherei di onestà verso me stesso e verso tanti altri.

Non amo le polemiche, e quello che ti scrivo è una pura considerazione da fratello a fratello. Credimi, oggi parlare delle Forze Armate non fa proprio "tendenza", si guarda una divisa e si tirano conclusioni. Mi pare che si proceda per luoghi comuni. Io da tre anni presto questo servizio ed ho partecipato a diverse operazioni nei Balcani. Momenti delicati e dolorosi della storia di tante persone. Vere tragedie dell'umanità e non si poteva stare a guardare. Per nostra gioia non abbiamo sparato a nessuno, ma la guerra c'è stata, ha seminato morte e distruzioni.

Non esiste una guerra buona, lo sanno tutti. Io vado oltre le parole degli esperti: non esiste la guerra giusta. Ma dimmi come fare di fronte alla violenza che non conosce limiti? Vorrei vedere i cannoni fusi per farci telai, campane e trattori, certo che lo vorrei! Ma di fronte all'efferatezza dell'odio: che fare? Rimaniamo fermi? Ho camminato tra case bruciate, ho accarezzato la madre dello sgozzato, ho sentito il tremore della donna stuprata. Dimmi tu come fermare questo male! Ci sono soluzioni che di per sé sono tragiche, ma sembrano le uniche.

È giusto percorrere tutte le vie per evitare il peggio e costruire una civiltà dell'amore, ma nel frattempo cosa siamo chiamati a fare, là dove scoppia un conflitto e si uccide? Non voglio sminuire il Vangelo e non uso la Parola per cercare conferme a tesi, ma non mi sento di dire a chi difende la pace, che sta commettendo un errore. Le operazioni di pace, cosí chiamate, non sono passeggiate. Lo sappiamo tutti. Ma non sono neppure lo scatenarsi della follia militarista. Nei Balcani, e non solo lí, abbiamo accolto migliaia di miserabili. Nell'ora della prova eravamo soli, non c'era nessun altro. E quando il mortaio sparava, eravamo soli, non c'era nessun altro. Nelle ore di guardia, si difendeva il sonno dei deboli, senza preferenze di razza e religione. Abbiamo lavorato come asini. In quei momenti la "forza" non ha badato all'immagine: si lavorava senza sosta e ti assicuro per amore perché nessuno è tanto fesso da rischiare la pelle per 100 dollari.

Veniamo al Giubileo dei militari. Andrea, come fai ad affermare che il nostro Giubileo è uno dei tanti segnali che indicano la crescita di una cultura della forza e della violenza? Eravamo con le famiglie, i vecchi e gli handicappati: le nostre croci! Tutti a Roma per sentirci dire dal Papa, da Pietro, che non c'è amore piú grande del dare la vita per i fratelli. Ci ha detto d'essere santi, lo dice a tutti senza distinzioni. Non era un Giubileo speciale. Una celebrazione giubilare ha valore universale e comprende tutti, senza barriere. Nessuno si deve sentire escluso. Non è una torta: un pezzo a me, uno a te e per gli altri niente. Troppo limitativo e banale; anche chi non c'era, era presente. Al Giubileo è assente chi non vuole giubilare. Quel giorno a Roma l'unica arma erano gli ombrelli che, se non fosse stato per la nostra pazienza, sarebbero serviti a poco. Non scendere nello spirito polemico, del perché il Giubileo dei militari e non degli obiettori. Gli organismi preposti hanno valutato, fatto delle scelte. Cosí ritenersi esclusi, non sarebbe corretto.

Riguardo poi ai cappellani militari, ecco cosa ti dico. È vero, sono integrato nell'istituzione che mi permette, nel rispetto della mia identità di sacerdote cattolico, di svolgere un servizio utile alla comunità militare. Proprio come, da cappellano dell'ospedale civile, ero inserito nell'organico dell'azienda ospedaliera, quale dipendente di settimo livello, o ancora quando prestavo servizio per la scuola: tutte strutture nelle quali noi sacerdoti lavoriamo, inseriti a pieno titolo in realtà che non sempre sono come le vorremmo. Sarebbe meschino pensare che uno rimanga legato alla struttura per avere qualche privilegio. Il debito che ho verso tutti è quello di annunciare il Vangelo di Cristo. Il resto non conta.

L'ultima cosa riguarda il tema della nostra giornata giubilare, che è "Con Cristo per la giustizia e la pace". Non posso dilungarmi, ma s'intende a "difesa" della giustizia e della pace, la dove è custodito l'essere cristiano del militare. E il proprium di chi ha scelto di porre la sua vita a rischio per la salvezza di molti. Difendere l'oppresso cercando di rispettare al massimo la dignità dell'oppressore non è letteratura: è azione in situazioni delicate dove il cristiano si misura con la Sapienza del Vangelo e opera delle scelte. Dove ci sono gli uomini, troverai sempre i frutti dell'umanità, spesso imperfetti: è inevitabile. Ti dicevo, rispettare "al massimo". Forse ti chiederai fin dove e cosa significhi. Non è facile dare una risposta. C'è un qualcosa di doloroso in ogni storia di salvezza. Quando Dio liberò Israele dalla schiavitú, dopo che il popolo ebbe attraversato il Mar Rosso e questo si richiuse, l'Egitto venne travolto:

Israele cantava, l'Egitto affogava,... e certo Dio era nel canto di Israele... e certo Dio era nel pianto dell'Egitto...

Con affetto e stima padre Ivan Lai».

 

 

 

 

Cfr. LAI I., Noi cappellani militari a difesa della pace, in Il Cursore, 4 (2001), 8.