Non si dovrebbe cambiare il linguaggio ecclesiale dando piú spazio al femminile, parlando di Dio come madre, cosí come auspicano alcune correnti teologiche odierne?

 

 

 

 

Ci sono dei movimenti femministi che chiedono di modificare il Credo abolendo la parola "uomo" (man) e sostituendola con "essere umano" (human being) (...si è fatto uomo diventerebbe dunque si è fatto essere umano...). Alcuni si accontentano di parlare di Dio che è "Madre" o piú precisamente, che è "anche come una madre". Il fatto è che non si può mutare la realtà storica su cui il Credo si basa, inoltre bisogna stare molto attenti quando si usa il linguaggio analogico: Dio non è padre o madre nel senso terreno che noi attribuiamo a questi termini. La paternità di Dio è un concetto teologico (che non esclude certo alcune connotazioni materne; cfr. Is 66,13) e non è riducibile a quella umana: è la paternità di Dio poi il termine di paragone della paternità e della maternità umane e non viceversa. Chi cerca di svuotare il Credo di un suo elemento essenziale appartiene alla schiera di coloro che accolgono il senso di "scandalo" e di disagio che prova oggi la nostra cultura di fronte alla figura paterna.

Purtroppo la nostra civiltà ha perso con il tempo - se mai l'ha acquisito - il concetto biblico di paternità, ricco di elementi positivi, per volgersi sempre piú alla figura del pater familias romano e pagano, che aveva il diritto di vita e di morte sui propri figli ed era l'arbitro pressoché assoluto e incontestabile della vita familiare. La modernità poi ha strappato definitivamente il padre alla famiglia portando il luogo di lavoro e di produzione del reddito al di fuori di essa. Con il tempo - e ancor piú dopo il '68 - si è passati da una visione patriarcale, divenuta moralmente sempre piú lontana, ad una visione matriarcale, apparentemente piú solidale con il destino dei figli ma allo stesso tempo interessata. Questo ha condotto ad una visione sempre piú accomodante della vita familiare, sempre piú caratterizzata dall'autonomia e dall'individualismo, fino alla sua dissoluzione, con l'affermazione del divorzio facile. Ormai «presso alcuni nostri contemporanei la stessa parola "Padre" provoca tanto orrore che, trasponendo quanto Aldous Huxley diceva della madre ne Il mondo nuovo, si può perfino sospettare che la considerino indecente [...]. Movimenti rivoluzionari agitano la bandiera di un progresso che elimini la coppia e la famiglia e, in questa linea, vogliono distruggere nel padre il simbolo stesso della conservazione» (MILANO A., voce Padre, in Aa. Vv., Nuovo Dizionario di teologia, Cinisello Balsamo 19985, 1069).

Anche la psicanalisi ha dato il suo contributo alla crisi della stessa immagine paterna di Dio. Bisogna dire che «alla luce dell'esperienza psicologica le miserie della religione, che Freud ha denunciato, sono certamente pericoli molto diffusi. Sembra acquisito che queste miserie si spiegano per il fatto che la religione si radica nel complesso edipico. Bisogna riconoscere l'anima di verità dell'analisi freudiana, che ci svela gli inconsci condizionamenti della religione, proprio mentre dichiariamo le ambiguità che la contagiano e il suo malefico vizio di riduzionismo. Ma l'esperienza religiosa non è tutta risolvibile con le sole leggi dell'inconscio. Limitandosi all'inconscio, Freud ha smarrito la dimensione essenziale e positiva della paternità: il riconoscimento e la riconciliazione della paternità e della filiazione» (MILANO A., voce Padre, in Aa. Vv., Nuovo Dizionario di teologia, Cinisello Balsamo 19985, 1086).

La cultura odierna contesta il volto da sempre maschile e paterno del sacerdozio cattolico e in molti ambienti, tutto ciò che è riconducibile al maschile e alla paternità da fastidio, oppure non è politicamente corretto, quindi meritevole di ogni delegittimazione. Ci sono istituzioni come la scuola che non di rado, con l'impostazione educativa adottata e con la prassi della promiscuità assurta a postulato pedagogico, creano difficoltà alla maturazione culturale dei giovani (cfr. SAX LEONARD, Why Gender Matters, Random House, New York 2005). Sono molte le persone che presumono di poter "aggiornare e migliorare" la Chiesa e le sue istituzioni, cosí da renderle "gradite a tutti", ma quello di piacere a tutti non è affatto un criterio evangelico, tutt'altro: «Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6,26). Non mancano opinionisti e teologi "marketing oriented" che vorrebbero anche aprire le porte al "sacerdozio femminile" in nome di un egualitarismo unisex, ma le loro dottrine appaiono orientate da un soffio che non è certo quello dello Spirito.

Dimenticano, infatti, che la Chiesa è stata fondata da Cristo. La sua condizione sponsale è essenziale, come ci rivela l'Apocalisse: "come una sposa adorna per il suo sposo" (Ap 21,2). E lo ripete anche la tradizione paolina. Cristo è lo sposo della Chiesa, perché la feconda con il suo sangue. Di conseguenza, chi partecipa sacramentalmente, in modo privilegiato, al sacerdozio di Cristo, sono gli uomini. Sono loro la continuità sacramentale di quel sacerdozio e sono pertanto anche sposi della Chiesa. Le teologie femministe paradossalmente trascurano spesso il ruolo autentico della Vergine Maria nel mistero della Chiesa, oppure talvolta tentano di esaltarlo in una visione autonomistica dal mistero di Cristo, alla ricerca sic et simpliciter di una sorta di "Dea Madre" (come auspica il gruppo Mary Daly). Inutile dire che una simile impostazione porrebbe dei problemi anche circa la relazione con il Figlio.

Cristo afferma chiaramente di essere Figlio del Padre (cfr. per es. Mt 11,27; Mt 16,17; Lc 10,22; Gv 5,43); di essere una cosa sola con il Padre (Gv 10,30; Gv 17,11; Gv 17,21-22); afferma che il Padre è in lui e lui nel Padre (Gv 10,38; Gv 14,10; Gv 14,20), afferma di essere venuto in nome del Padre (Gv 5,36); parla della Trinità come intimità con il Padre e con lo Spirito Santo (Gv 14,26; Gv 15,26). Di fronte alla testimonianza di Cristo non possono esservi dubbi: il Padre è il primo principio, fonte originale e originante di ogni bene, sorgente dell'essere e della vita: egli nella dinamica trinitaria origina e feconda ogni cosa e non è originato da nessuno, ecco perché non è possibile attribuire a Dio l'essere "madre" se non in un senso per cosí dire "affettivo", tendente a sottolineare la sua cura premurosa per "tutte le cose esistenti" (Sap 11,24). Paternità e maternità non sono interscambiabili come una certa teologia femminista pretenderebbe, né si può accettare la tesi che qualificherebbe quelle del Vangelo come espressioni puramente verbali, o per meglio dire, parole usate sí nella Sacra Scrittura ma storicamente determinate, quasi fossero dei "modi di dire".

Ebbene Cristo anche oggi direbbe "Padre nostro" e non "Madre nostra". In caso contrario, cioè se la sostanza della relazione trinitaria descritta da Cristo fosse solo un "accidente linguistico", la Rivelazione che la descrive assume il carattere della relatività e della contingenza. Ma in tal modo oltre che il Padre si finisce con il negare e con il perdere anche il Figlio e lo Spirito giacché vi è fra loro un'inequivocabile dinamica interpersonale. No, al riguardo non può esserci alcun dubbio, l'insegnamento di Cristo circa il mistero trinitario è chiaro e la fede ci richiama alla verità, esige quella fedeltà al depositum fidei che è perenne e non relativo.

«Nel NT constatiamo che non meno di 170 volte i vangeli pongono la parola "Padre" sulla bocca di Gesú in riferimento a Dio (Mr 4 volte, Lc 15, Mt 42, Gv 109). Dalla progressiva crescita della tendenza degli evangelisti ad introdurre nei detti di Gesú tale appellativo rivolto a Dio, sino ad arrivare a Gv che considera il termine come sinonimo di Dio, possiamo ricavare l'uso catechetico crescente dello stesso appellativo nella comunità primitiva e, quindi, l'orientamento a fare del messaggio di Gesú un'acquisizione personale del credente soprattutto attraverso la preghiera (il "Padre nostro"). [...] Il movimento che va dalla designazione all'invocazione di Dio come padre si consuma nel grido «Abbà, Padre!», che Mr ricorda (14,36) e che riecheggia nella preghiera dei primi cristiani (Gal 4,6; Rm 8,15). Tanto per la sua presenza quanto per la sua forma, questa preghiera è assolutamente eccezionale, anzi unica.

Appartenendo ad una delle fonti piú antiche della tradizione, il termine Abbà si presenta come una parola che risale allo stesso Gesú (ipsissima vox Jesu) e, come si è accennato, è stata consacrata nell'uso catechetico e liturgico della comunità primitiva. L'originalità dell'invocazione è duplice: è la prima volta che s'incontra un'invocazione a Dio Padre a titolo individuale nell'ambiente palestinese ed è la prima volta che un giudeo si indirizza a Dio invocandolo sotto il nome di Abbà, improntato al linguaggio familiare. Gesú si indirizza a Dio come un bambino a suo padre: «Questo fatto, senza precedenti in tutta la pietà veterotestamentaria e giudaica, costituisce un tratto caratteristico della preghiera di Gesú. I giudei non avrebbero mai impiegato il termine Abbà nelle loro forme di preghiere. Dare questo titolo alla divina maestà sarebbe stato per essi una vera profanazione». Gesú inaugura cosí un nuovo vocabolario che adegua perfettamente e qualifica la relazione unica che unisce lui al Padre: questo titolo ci permette di intravedere qualcosa del mistero del Dio cristiano, che è Dio Padre di Gesú e, per Gesú, anche Padre nostro. Gesú infatti manifesta in esso la coscienza che possiede del suo rapporto unico col Padre, dal quale egli riceve ogni autorità e tutti i segreti (Mt 11,27) insieme col potere di rivelare il Padre.

L'invocazione Abbà costituisce una delle affermazioni teologiche piú profonde e piú gravide di conseguenze di tutto il NT. Nello stesso tempo appare come l'adempimento delle promesse antiche, inizio dell'era nuova e preghiera per eccellenza del regno di Dio ormai sopraggiunto. [...] Gesú, che proclama Dio suo Padre, «vive per il Padre»: questa maniera di comportamento filiale è l'opposto dell'infantilismo. Il Figlio non pretende di captare a suo profitto la potenza del Padre, non cerca nel Padre un alibi consolante e alienante, un'immagine magnificata di ciò che egli sogna d'essere: entra invece nella logica concreta e drammatica della storia umana, ne accetta il rischio e paga con la propria vita la dedizione di amore totale per il Padre e per gli uomini. Non c'è nulla, proprio nulla nel legame tra Gesú e il Padre che denunci quel momento di gelosia e di rivalità che la psicanalisi scopre nel divenire filiale umano, nulla dell'ideologia che riflette situazioni socio-economiche, nulla di una mitologia che fondi e consolidi la precarietà del tempo umano» (MILANO A., voce Padre, in Aa. Vv., Nuovo Dizionario di teologia, Cinisello Balsamo 19985, 1086-1087).

Crediamo perciò in Cristo, Figlio di Dio e fratello nostro, Figlio del Padre; crediamo nello Spirito Santo, Spirito di verità che procede dal Padre e dal Figlio. Appassioniamoci a Lui, desideriamolo, cerchiamolo, incontriamolo: «In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12). Grazie a Lui, nello Spirito Santo, entriamo in una relazione di totale e confidente abbandono con il Padre chiamandolo teneramente «Abbà, Papà» (cfr. Mc 14,36). Questa è la vita eterna, questa è la felicità: «che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo» (Gv 17,3) è questa è anche la condizione essenziale per essere davvero se stessi: «là giunto - scriveva Ignazio di Antiochia - sarò uomo» (-, Ad Romanos, 4-8). Cristo, vero Dio e vero uomo, e soltanto Lui è la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6). Nessun altro... o nessun'altra!