L’argomento che m’è stato chiesto di trattare è d’estremo interesse e d’estrema complessità. Con poche parole - guerra e pace - s’indica in realtà un grosso problema che c’interpella tutti indistintamente, e che tante lacerazioni ha prodotto nella coscienza dell’umanità e dei cristiani. Infatti, il Vangelo s’è dovuto confrontare da sempre con il problema della guerra, e questo fatto ha costituito una sfida costante al suo messaggio e alla sua credibilità. Quello evangelico non è forse essenzialmente un messaggio di pace, radicalmente avverso a ogni forma di violenza, perché gli uomini sono tutti fratelli, figli dello stesso Padre? Come potrebbero gli uomini, uguali nella loro dignità morale e nei loro diritti fondamentali, fatti per amarsi e per costruire insieme il mondo come una casa comune, continuare invece a odiarsi, a distruggere, a uccidersi?

Nessuno, quindi, si può sottrarre alla sfida che proviene dallo scandalo di quella che appare una dura legge della storia - la guerra -, tanto precari e brevi sono i periodi di pace che la contraddicono. C’è stato chi s’è preso cura di contare i conflitti armati degli ultimi tre millenni di storia. Ebbene, in 3357 anni ci son stati 3130 anni di guerra e solo 227 anni di pace: 13 anni di guerra per ogni anno di pace! Per restare in Europa, negli ultimi tre secoli soltanto, si sono avute ben 286 guerre. Perfino i nostri decantati 40 anni di pace (dalla seconda guerra mondiale a oggi), che spesso siamo soliti portare a esempio, in che misura - mi chiedo - si possono veramente definire anni di pace? Come dimenticare la sequela terribile di guerre «parziali», da quella cinese, scoppiata nell’immediato dopoguerra, a quella di Corea, dell’Algeria, del Vietnam, della Nigeria - Biafra, del Congo, del Laos, della Cambogia, del canale di Suez, alla guerra tra israeliani e arabi, a quella delle Falkland-Malvinas, per non parlare di quanto sta avvenendo - mentre noi parliamo - in Libano, tra Iran e Irak, nell’Afganistan invaso? Con che coraggio continuiamo a parlare di 40 anni di pace?

Ma veniamo al nostro tema. Qual è e qual è stato l’atteggiamento della Chiesa di fronte alla guerra? Qual è il suo insegnamento di ieri e di oggi? È cambiato? Come e perché? Sono questi gl’interrogativi, ai quali ci proponiamo di rispondere, per dare un contributo allo studio importante che voi state compiendo sui problemi della pace.

Perciò, in primo luogo, faremo un breve excursus storico, per vedere come la Chiesa è venuta maturando il suo atteggiamento e il suo insegnamento sui temi della guerra e della pace, a mano a mano che i problemi son divenuti diversi a tal punto da cambiare la natura stessa della guerra. Ci chiederemo, quindi: oggi può esser “giusta”, la guerra? Si può ancora giustificare moralmente? In secondo luogo, dopo aver chiarito la risposta della Chiesa a queste domande di fondo, potremo dare risposta anche a due questioni, particolarmente scottanti, che polarizzano il dibattito dei nostri giorni: mi riferisco a quella della moralità della guerra atomica e all’altra della liceità della forza nucleare di dissuasione.

In questo nostro incontro, mi sento un po’ come il “rappresentante”, della Chiesa, nel senso che mi propongo di esporne il pensiero e l’insegnamento. Il mio discorso, quindi, si ferma al piano delle considerazioni etiche; non ho competenza - neppure dal punto di vista personale! - degli aspetti tecnici. Non ho, pertanto, una risposta da dare a interrogativi specifici che mi potrete porre sul piano delle scelte strategiche e militari; la responsabilità morale di queste, rimane agli esperti e a quanti hanno il compito di farle.

 

La questione della «guerra giusta»

Guerra sí o guerra no? Quest’interrogativo ha interpellato la Chiesa fin dagl’inizi della sua storia. Fare ricorso alle armi non è forse in contraddizione intrinseca col messaggio di Cristo, principe della pace? La risposta che storicamente la Chiesa è venuta dando riproduce la difficoltà che essa sempre sperimenta di comporre insieme profezia e realtà, carica ideale e debolezza umana, radicalità evangelica e gradualità nella comprensione e nell’attuazione dei valori cristiani. Perciò, anche su questo tema, due risposte s’incrociano, spesso si confrontano, mentre si cerca di armonizzarle coerentemente tra loro. La prima è la risposta radicale della «profezia»; essa riafferma, senza mezzi termini e senza distinzioni, il dovere cristiano e umano della pace a ogni costo, il rifiuto d’ogni guerra, sempre moralmente inaccettabile. La seconda risposta, invece, parte dalla storia; essa coglie la triste realtà della guerra come l’esistenza d’un male che appare inestirpabile dalla vicenda umana, come l’appannaggio umiliante del male che è nel mondo e nell’uomo; s’impegna quindi a eliminarla, a sradicarla dal cuore umano e dai rapporti tra i popoli, scorgendovi un «male necessario, da combattere con realismo e con tenacia.

Di fatto, durante i secoli, nella Chiesa ha prevalso questa seconda risposta, anche se è vero che la radicalità della risposta profetica non ha mai mancato di emergere e di riemergere relativizzando il dibattito e le conclusioni dei teologi e dei moralisti. Se è vero che la Chiesa cammina col mondo e ne sperimenta la stessa sorte terrena, è pur vero che essa è portatrice d’un messaggio che mette continuamente in questione sia il mondo, sia la Chiesa stessa.

Vediamo, dunque, le fasi principali di questo «contrasto» tra profezia e storia, attraverso cui sono maturati l’insegnamento della Chiesa e la sua comprensione del problema della guerra e della pace. Per maggior chiarezza, possiamo distinguere quattro tappe successive.

La prima tappa si può far coincidere - piú o meno - con i primi quattro secoli dell’era cristiana. In questo periodo, i primi cristiani rifuggono dall’impegno temporale. Il mondo è pagano, il mondo è perverso. Non è possibile servirlo, non è lecito contaminarsi. Per essere vero seguace di Cristo, la soluzione migliore è la fuga mundi, ritirarsi magari nel deserto. Il rifiuto del cingolo militare - la prima obiezione di coscienza! - non è che una conseguenza logica di questa coscienza primitiva dell’esser cristiano, quando la luce abbagliante del messaggio evangelico di pace, di fraternità e di giustizia non permette ancora di vedere come sia possibile «mediare» tra fede e storia, tra fedeltà a Dio e fedeltà a Cesare. «Noi non brandiamo la spada contro nessun popolo - scrive Origene -, né impariamo a fare la guerra, perché siamo divenuti figli della pace per mezzo di Gesú, che seguiamo come nostro condottiero». Il soldato di Cristo non può essere soldato di Cesare! Come potrebbe un battezzato spargere il sangue del fratello quando Dio comanda di non uccidere? È importante rilevare quanto sia stato duro, fin dall’inizio, l’impatto della coscienza cristiana con la guerra. Il confronto tra “profezia” e dura legge della storia d’un mondo malato, che occorre sanare e cambiare. Ma la prima reazione di fronte a questo conflitto è la lacerazione, la rottura, il dualismo tra il piano della fede e quello della vita civile.

La seconda tappa - quella medievale, dal V al XIV secolo - porta con sé, una reazione contraddittoria all’esperienza del primo periodo: si passa dalla separazione all’identificazione dei piani diversi, tra esser cristiano ed esser cittadino, tra Chiesa e società. Chi non è cristiano non può esser neppure cittadino, ma è nemico dello Stato. A ciò s’arriva con la cristianizzazione dell’impero romano, dopo l’editto di Costantino. Di conseguenza, muta radicalmente l’atteggiamento della coscienza cristiana nei confronti dell’esercito e del servizio militare. Si arriva fino al punto che la Chiesa, con il Concilio di Arles, minaccia la scomunica per quei cristiani che si rifiutano di servire in armi, e vieta ai pagani, ai giudei e agli eretici di far parte dell’esercito. Non era, forse, l’impero cristiano già una realizzazione del regno stesso di Cristo? Come avrebbero potuto i non cristiani e gli infedeli esserne i costruttori e i difensori? Di qui il connubio tra altare e trono, tra spada e croce; di qui le «guerre sante» contro i barbari e i non cristiani, nemici di Cristo e dell’impero.

Come fu possibile, nel Medioevo, far accettare la guerra addirittura come un dovere, nonostante l’esplicita condanna del Vangelo contro ogni forma di violenza? Con quali giustificazioni? Con quali distinzioni? Meglio di tutti ce lo spiega sant’Agostino. Nel suo De Civitate Dei, egli dimostra che la guerra, la quale per i malvagi costituisce un bene, si pone per i buoni - purtroppo - come un male inevitabile, una necessità. Perciò, posti dinanzi a un male che, da un lato, é necessario e, dall’altro, è inaccettabile e antievangelico, il cristiano non può far altro che impegnarsi con ogni sforzo a limitare la guerra, a renderla il piú possibile umana e «giusta». Ciò significa che la guerra resta moralmente perversa, ma - qualora si rendesse necessaria, come nel caso di legittima difesa, o per ristabilire l’ordine ingiustamente violato, o per ricuperare il mal tolto - essa allora può anche divenire giusta. Tuttavia - si premura di aggiungere il santo Dottore della Chiesa - il cristiano non può non dolersi di questa triste necessità, anche quando la guerra fosse “giusta”. La guerra è sempre una disgrazia, un male che bisogna cercare in ogni modo di evitare; il cristiano non può accettare la logica della violenza e delle armi per risolvere i conflitti che inevitabilmente nascono tra gli uomini e tra i popoli.

Durante tutto il Medioevo, questa dottrina della «guerra giusta» diviene comune e si arricchisce di nuove determinazioni, che qui non è il caso d’approfondire. È interessante, tuttavia, notare come si passi dal concetto di «guerra giusta» a quello addirittura di «guerra meritoria», quando si tratta di combattere per la fede: è il caso delle crociate per liberare la Terra Santa dalle mani degli infedeli. Ma, anche in questi casi estremi, il cristiano dovrà sempre proporsi la pace come fine. Sarà san Tommaso d’Aquino a riprendere e a perfezionare la dottrina agostiniana dalla «guerra giusta». Egli ammonisce che, nonostante la “giusta” causa che l’ha scatenata, una guerra può diventare illecita, se l’intenzione dei belligeranti è perversa; solo l’intenzione di giungere alla pace giustifica la stessa guerra difensiva. Non si può fare a meno di sottolineare questa preoccupazione costante nella riflessione dei teologi e dei moralisti cattolici: se la guerra talvolta può essere, purtroppo, una necessità, quindi moralmente incolpevole, tuttavia essa non si giustifica mai in se stessa, ma deve tendere sempre a ristabilire la pace. Ciò esigono la coscienza cristiana e la fedeltà al Vangelo e alla sua piena attuazione.

La terza tappa quella dell’epoca moderna (pressappoco dal secolo XV al secolo XIX). In questo periodo la teoria della «guerra giusta» raggiunge la sua formulazione classica: dalla considerazione della necessità e della moralità della guerra in alcuni casi, si passa all’affermazione d’un “diritto” alla guerra in determinate circostanze e con precise garanzie.

A modo di parentesi, è interessante notare quanto sia vera l’affermazione fatta dal Concilio, secondo cui la Chiesa cammina con il mondo e ne sperimenta la stessa sorte terrena (Gaudium et spes, n. 40). La Chiesa cresce con l’umanità e, mentre evangelizza, a sua volta è stimolata dagli eventi a comprendere sempre meglio lo stesso messaggio che annunzia. Cosí, se il primo impatto dei cristiani col mondo fu d’incomunicabilità, se in un secondo momento si passò alla sovrapposizione e all’identificazione tra la Chiesa e lo Stato, ora - con l’avvento dell’epoca moderna - in reazione all’integrismo medievale, il mondo cristiano e il mondo moderno si trovano contrapposti di nuovo, non solo fisicamente ma anche culturalmente. Se la separazione dei primi secoli fu sentita piú “fisicamente”, secondo la contrapposizione che la filosofia ellenistica introduceva tra l’anima (la Chiesa) e il corpo (il mondo), ora - nell’epoca moderna - la rottura è anche «spirituale» (culturale), tra due «mondi» estranei uno all’altro, tra due diverse anime incarnate in due corpi diversi: la Chiesa, appunto, e il mondo moderno. Questa frattura è acuita dal nascere degli Stati nazionali, fondati sul principio della sovranità assoluta, che li induce a ritenersi indipendenti da ogni norma e da ogni volontà superiore alla propria. Se, per tutelare i propri interessi, serve la guerra, ebbene allora lo Stato ha il «diritto» di dichiarare la guerra, che trova perciò la sua giustificazione nella volontà stessa dello Stato.

Di fronte a queste «acquisizioni» del mondo moderno, la Chiesa si trova - ancora una volta - impegnata a ridurre i guasti e i mali che ne possono provenire, in contrasto col messaggio cristiano di pace. Teologi e giuristi cattolici aggiornano la dottrina agostiniana e tomista della «guerra giusta» alle nuove sfide della concezione moderna della guerra. Cosí, partendo dalla dottrina tradizionale della «guerra giusta», l’arricchiscono d’importanti determinazioni, che dovranno verificarsi simultaneamente affinché essa sia moralmente lecita: accanto alla «giusta causa», occorre altresí che esista una certa «probabilità» di successo nel ristabilire l’ordine ingiustamente violato e, soprattutto, che i danni provocati dall’azione bellica siano «proporzionati» all’ingiustizia subita o incombente.

Questa concezione «classica» della «guerra giusta» ha resistito fino ai nostri giorni, e sottostà a quanto afferma lo stesso Concilio Vaticano II circa la liceità della guerra difensiva.

“La guerra - afferma la Gaudium et spes - non è purtroppo estirpata dall’umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di mutuo accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa” (n. 79).

Ma quest’affermazione del Concilio cade oggi in un contesto totalmente diverso da quello dei tre periodi precedenti. Infatti, nei nostri giorni - siamo cosí alla quarta tappa, che quella del nostro secolo - il radicale cambiamento del concetto stesso di guerra e l’ulteriore maturazione della coscienza cristiana rendono ormai definitivamente superata la dottrina della «guerra giusta».

La prima ragione di questo superamento va ricercata nel cambiamento qualitativo che ha mutato la natura stessa della guerra. Infatti, in seguito all’avvento della bomba e delle armi atomiche, vengono meno tutte le condizioni di liceità che la dottrina «classica» poneva come necessarie affinché un’azione bellica fosse «giusta». Infatti, quale «proporzione» si può piú dare tra l’ingiustizia subita o minacciata e le conseguenze d’una guerra atomica, quando l’uso bellico dell’energia termonucleare sfugge a ogni controllo dell’uomo e ha come effetto incontrollabile la distruzione totale e l’annientamento della stessa vita umana? Quale probabilità di successo rimane in piedi, quando l’unico esito d’una guerra atomica sarebbe soltanto la cosiddetta Mutual assured destruction (MAD), senza vincitori né vinti? Quale «giusta causa” si potrebbe mai invocare, quando - di fronte a un conflitto nucleare - viene meno il concetto stesso di «difesa»; quando il second strike («difensivo)) sarebbe una rappresaglia non meno letale del first strike «offensivo»)? Se poi si considera l’ineluttabilità che la guerra oggi si trasformi in «guerra totale» - come ormai tutti realisticamente ammettono -, si comprende allora come, dinanzi al mutamento sostanziale del concetto e della realtà della guerra, il Concilio stesso abbia potuto concludere che ormai le azioni militari, condotte con mezzi che producono distruzioni immani e indiscriminate, «superano di gran lunga i limiti d’una legittima difesa», e perciò siamo obbligati a considerare il problema della guerra «con mentalità completamente nuova» (Gaudium et spes, n. 80).

E qui viene, appunto, la seconda ragione per cui non è possibile oggi parlare di «guerra giusta»: la maturazione della coscienza cristiana e umana ci ha reso convinti - alla luce anche dell’esperienza storica piú recente - che la pace vera non si può fondare sulla paura e sulla logica violenta delle armi. Il mondo è maturo per impostare il discorso sulla pace in modo positivo e costruttivo, su una nuova cultura di pace che trovi in organismi soprannazionali, al di sopra delle parti, il momento della sintesi e dell’equità in caso di conflitto d’interessi tra i popoli. Cosí, di fronte al mutamento qualitativo della guerra, s’è verificato anche un salto qualitativo nella coscienza dei cristiani e nell’insegnamento del Magistero della Chiesa. Si è passati dalla preoccupazione di ridurre la guerra entro confini ben determinati di moralità, per limitarne il ricorso e i mali, alla preoccupazione di costruire la pace. La guerra non è piú considerata una fatalità. La pace è veramente possibile. Certo, occorre non essere ingenui, né superficiali ottimisti. L’uomo porta con sé, col peccato, il germe della violenza, dell’egoismo, della prepotenza. Eppure c’è una capacità, una tensione nella coscienza di tutti, anzi nella storia stessa, che bisogna saper scoprire e far emergere. Si tratta, in altre parole, di creare una mentalità nuova, una cultura di giustizia e di pace, che porti gli uomini e i popoli a fare unità, al di là dei blocchi ideologici, politici e militari.

In quest’azione oggi la Chiesa è piú impegnata che mai. Portatrice d’un messaggio religioso ed etico trascendente, essa si trova nella situazione ideale per cogliere quanto di buono e di vero c’è in ogni elaborazione umana, per criticare e relativizzare ogni indebita assolutizzazione di verità che sono parziali, per orientare gli sforzi degli uomini di buona volontà (rispettandone il pluralismo e la diversità) verso un umanesimo integrale.

La Chiesa non si sostituisce ai responsabili e ai tecnici dell’arte militare, ai quali resta il grave compito di prendere, nella loro autonomia e responsabilità, le decisioni operative. Ma essa è certamente un punto di riferimento. Ed è questa - ritengo - anche la ragione principale per la quale voi, esperti di cose militari, avete desiderato l’incontro di oggi, e il confronto col magistero della Chiesa sulla guerra e sulla pace.

Abbiamo, ora, tutte le premesse necessarie per comprendere il giudizio severo che la coscienza cristiana oggi dà sulla guerra termonucleare e sulla deterrenza atomica. Sono i due aspetti del problema della guerra, dei quali ci rimane da dire una parola.

 

Guerra termonucleare e deterrenza atomica

Abbiamo visto come il concetto e la natura stessa della guerra siano qualitativamente diversi, a tal punto che in un noto documento, preparato da scienziati di tutto il mondo e reso pubblico nell’ottobre 1982, si riconosce che «la scienza non può offrire al mondo nessuna reale difesa contro le conseguenze di una guerra nucleare (...). Non si vede come la massa delle popolazioni potrebbe essere protetta contro un grande attacco nucleare, né come la distruzione dei fondamenti culturali, economici e industriali potrebbe essere evitata» (L’Oss. Rom., 3 ottobre 1982). Giudizio allarmato, che riflette quanto già si poteva leggere nel recente Libro Bianco dell’ONU sulle armi nucleari, dove si afferma che gli stessi «valori culturali, sociali, e politici che sono oggi ampiamente alla base dell’evoluzione, si troverebbero repentinamente svuotati del loro significato».

Non deve stupire, perciò, il duro giudizio del Concilio sull’intrinseca immoralità della guerra atomica:

«Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione d’intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione dev’essere condannato» (Gaudium et spes, n. 80).

Del resto, già Pio XI, piú volte, avendo dinanzi agli occhi le distruzioni terribili di Hiroshima e Nagasaki, aveva affermato con coraggio evangelico che la guerra di legittima difesa diviene intrinsecamente immorale “quando i danni che questa comporta non sono paragonabili con quelli dell’ingiustizia tollerata”; in simili casi - aggiungeva - “si può aver l’obbligo di subire la ingiustizia” (PIO XII, Discorsi e radiomessaggi, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1954, XV, 422). Perciò, anche nell’ipotesi che una guerra difensiva esplodesse per una «giusta causa», non si potrebbe però mai far ricorso all’uso di armi atomiche. Questo va proscritto come immorale, in ogni caso:

«Quando la messa in opera di questo mezzo cagiona un’estensione tale del male che esso sfugge interamente al controllo dell’uomo, la sua utilizzazione dev’essere rigettata come immorale. Qui non si tratta piú di “difesa” contro l’ingiustizia e di “salvaguardia” necessaria di possessi legittimi, bensí dell’annichilimento puro e semplice di tutta la vita umana entro il raggio d’azione. Ciò non è permesso a nessun titolo» (ID., ivi, Roma 1955, XVI, 169).

A questo punto, si pone il problema piú delicato e complesso del giudizio sulla moralità o meno della deterrenza atomica: se è immorale usare le armi nucleari, sarà lecito fabbricarle e possederle? Se la guerra atomica non si può mai giustificare moralmente, sarà moralmente giustificato minacciarla e prepararla, accumulando armamenti sempre piú sofisticati e distruttivi, mantenendoli in efficienza sul proprio territorio, pronti all’uso?

Diciamo subito che a questi interrogativi i teologi moralisti cattolici non danno tutti la stessa risposta; è possibile cogliere nelle loro argomentazioni sfumature e accenti diversi, che si ritrovano - sebbene in misura minore - pure nei numerosi documenti degli episcopati nazionali che recentemente sono stati dedicati a questo grave problema. Ricordiamo, tra gli altri, quelli dei vescovi degli Stati Uniti, della Germania, dell’Olanda, del Belgio e della Francia, che ritengo i piú significativi. In sintesi si può dire che questi pronunciamenti della Chiesa propendono per un giudizio d’immoralità nei confronti della deterrenza atomica, qualora essa si consideri in se stessa e come fine a se stessa. E la ragione è abbastanza ovvia: se è immorale un’azione (l’uso in guerra delle armi atomiche), non si vede come potrebbe essere morale prepararsi a essa, con l’intenzione dichiarata di volerla compiere, sia pure - come si afferma - al fine di per sé buono d’impedire la guerra.

Ma le difficoltà vengono, quando il problema della dissuasione atomica si considera nella complessità di tutte le sue componenti, comprese anche quelle d’indole storica e contingente, culturale e ideologica. È impossibile, allora, enunciare un giudizio univoco, per tutti i casi. Per esempio, la maggior severità dei Vescovi statunitensi non si ritrova nei documento dei Vescovi tedeschi e in quello dei Vescovi francesi.

Non è questo il luogo per entrare nei dettagli, al fine di comprendere il perché di queste sensibilità e accentuazioni diversificate. Qui basterà sottolineare la concordanza di tutti sul giudizio di fondo, espresso da Giovanni Paolo II nel messaggio da lui inviato l’11 giugno 1982 alla II sessione speciale dell’ONU sul disarmo:

«Nelle condizioni attuali - dice il Papa -, una dissuasione fondata sull’equilibrio - non certo concepito come un fine in se stesso, ma come una tappa sulla via del disarmo progressivo - può ancora esser considerata come moralmente accettabile».

Non è difficile cogliere, in queste parole del Papa, come il giudizio etico sulla deterrenza in sé sia negativo, ma esso venga attenuato «nelle condizioni attuali» e a condizione che non sia inteso come fine a se stesso, ma solo come un passaggio obbligato per giungere al disarmo progressivo; solo a queste condizioni, la dissuasione nucleare appare «ancora». moralmente «accettabile». Se poi, a queste considerazioni intrinseche, s’aggiunge l’altra - sulla quale spesso insistono i pronunciamenti della Chiesa - dell’immoralità della distruzione d’immense quantità di beni e di denaro, sottratti alla sopravvivenza fisica di milioni di uomini, e impiegati invece a creare armi di distruzione e di morte, si avrà la misura della forza morale con cui la coscienza cristiana si ribella e condanna la corsa agli armamenti e il loro accumulo negli arsenali a scopo di dissuasione.

E anche in tema di deterrenza fa da sfondo il mutato atteggiamento di mentalità e di cultura, che non consente piú di garantire la pace sulla paura e sulla fiducia reciproca tra i popoli, sulla giustizia e l’equità, sulla creazione d’un nuovo ordine internazionale, veramente in grado di farle osservare.

 

Conclusione

Immagino che, a quest’ora, saranno già molte le vostre reazioni al mio discorso, e che molti di voi desidereranno pormi domande e richieste di chiarimento. Non voglio, quindi, abusare oltre della vostra attenzione. Consentitemi soltanto una riflessione conclusiva.

Noi - voglio dire la Chiesa - e voi militari siamo chiamati a recare ciascuno il proprio specifico contributo all’opera comune della pace, la quale del resto coinvolge tutti, senza distinzione.

Per quanto riguarda la Chiesa, sento di poter affermare con sicurezza che - come dimostra il Papa con il suo infaticabile ministero a livello mondiale - essa continuerà ad alzare con coraggio e con forza la sua voce per denunciare lo scandalo intollerabile della guerra e della corsa agli armamenti. S’illuderebbe chiunque pensasse di riuscire a chiudere la bocca ai vescovi, ai cristiani, ai movimenti per la pace. Griderebbero le pietre! Ma la Chiesa ormai, superato il concetto stesso di «guerra giusta», non si limita piú alla denuncia, non resta sulla difensiva. Essa continuerà sempre piú nell’impegno positivo e costruttivo di formare le coscienze e le menti a una nuova cultura di pace, fondata sul rispetto reciproco e dei diritti fondamentali dell’uomo e delle società, sul superamento dei blocchi ideologici, militari e d’ogni altra natura, affinché gli uomini finalmente siano - come sono chiamati a essere - fratelli veri e costruttori corresponsabili d’una sola famiglia e d’una convivenza umana piú autentica. In particolare la Chiesa, in tutte le sue istanze, si occupa e si occuperà a promuovere un nuovo ordine mondiale, che disponga della necessaria autorità morale e concreta per aiutare le nazioni a risolvere le loro eventuali tensioni.

E i militari? Quale potrà essere nel prossimo futuro il loro contributo alla pace, in un tempo in cui i nuovi strumenti di morte rendono la guerra intrinsecamente immorale? Penso che occorra avere il coraggio di ripensare il ruolo stesso delle Forze Armate, affinché esse pure passino progressivamente da una concezione meramente difensiva a una visione della pace positiva e costruttiva. In proposito, credo che l’esempio recente dato dai nostri soldati in Libano abbia un significato che trascende il singolo episodio. Senza mitizzare un’operazione particolare, che resta tale, tuttavia non si può negare che la missione libanese abbia dimostrato che è possibile portare - in divisa - un contributo positivo e determinante all’edificazione della pace, alla crescita d’una coscienza nuova di solidarietà e di giustizia.

In fondo, quest’ottica nuova della «coltivazione della pace» coinvolge non solo la Chiesa e i militari, sebbene l’una e gli altri lo siano maggiormente - diciamo cosí - per vocazione. Su questo problema si gioca la sfida di tutta la generazione storica presente. La nostra è una generazione scomoda, chiamata a scelte difficili, dalle quali dipenderà un lungo tratto del cammino futuro della umanità. Tutti, quindi, siamo coinvolti - sebbene a titolo diverso e con differenti responsabilità - nella paradossale «battaglia» per la pace e per la giustizia nel mondo. La luce che viene dal Vangelo, e che la Chiesa porta agli uomini, potrà contribuire non poco ad affrontare il problema piú urgente dei nostri tempi, cogliendolo nelle sue radici e nella sua complessità.

Spero, perciò, - al termine di questa mia chiacchierata -, che anche il nostro incontro di oggi sia un’occasione di riflessione e di crescita reciproca, per realizzare meglio ciascuno il proprio compito, diverso ma convergente, nella comune edificazione d’un mondo migliore, a misura d’uomo e piú rispondente al disegno di Dio.

 

 

 

 

 

Cfr. SORGE B., La Chiesa, la guerra, la pace, in Bonus Miles Christi, 6 (1984), 297-304.