Teologia, cultura, pastorale, sport: sono questi quattro contenuti che dovrebbero essere oggetto delle nostre considerazioni e che, a un primo colpo d'occhio, sembrano esprimere l'orizzonte culturale nel quale siamo ingabbiati: la frammentarietà. Da questa prospettiva, il nostro contemporaneo vive una situazione paradossale e, per molti versi, contraddittoria. Da una parte, infatti, si verifica che il sapere è diventato così specialistico da non riuscire più a presentare l'unità costitutiva che deve stare a fondamento di ogni specializzazione.

Ne deriva, che mentre da una parte si allarga la conoscenza e diventa sempre più profondo e tecnico lo studio; dall'altra, si cade nella settorialità impedendo di accedere al sapere globale, con la conseguenza che la parte ha il sopravvento sul tutto. Con l'avvento della specializzazione, che è necessaria, si è frammentata l'unità originaria del sapere, conducendo l'uomo a una conoscenza parziale senza legame delle conoscenze tra loro e nell'incapacità stessa di poter comunicare. Ecco, quindi, la contraddittorietà: il sapere scientifico, nato per esprimere contenuti universali, di fatto non è più in grado di accedere al sapere nella sua forma essenziale. Ne deriva per ognuno l'incapacità ad esprimere se stesso, impedendo di farsi comprendere in quelle forme della comunicazione che costituiscono la dimensione fondamentale del vivere personale e sociale.

Abbiamo bisogno, dunque, di ritrovare almeno in questo frangente un elemento che permetta di vedere il tema che ci è stato affidato nella sua globalità. Mi sembra che un ottimo punto di partenza sia un ulteriore termine che è presente nel titolo: "progetto". Un progetto è ciò che si pone dinanzi a noi non in maniera passiva, ma come azione che coinvolge; è ciò che una persona getta dinanzi a sé per sapere dove sta andando e quale percorso deve fare. Il progetto diventa momento di discernimento e di giudizio sulla propria esistenza, perché esprime la tappa che muove ognuno verso il fine che si è proposto. Un progetto, insomma, è costituito da un nucleo essenziale che rimane fermo, ma intorno al quale si concretizzano differenti modi che cercano di adeguare il cammino con le persone, il tempo, i fatti e le modalità che il vivere in questo mondo impone.

Ciò che verremo a dire, quindi, è realmente un "pro-getto"; cioè, una proposta che vi è messa dinanzi con il tentativo di tenere unite le diverse componenti presenti nel titolo. D'altronde, la teologia, la pastorale, la cultura e lo sport non sono altro che un progetto il quale ha bisogno ogni giorno che passa di arricchirsi di espressioni e tecniche nuove; queste realtà sono un unico cantiere sempre aperto che rende evidente la natura della verità cristiana e della fede: un cammino costante, mai appiattito su se stesso, teso verso l'incontro definitivo con il Signore che viene. Ho scelto, quindi, di non trattare gli argomenti in maniera separata, ma per quanto vi sono riuscito, ho cercato di mantenere l'unità del tema nella complementarità delle sue componenti.

 

Lo sport alla luce della bellezza

Partiamo dalla prima questione che sintetizza in sé le altre: perché la teologia dovrebbe occuparsi dello sport? È questa la domanda che mi ha provocato unendo i due estremi del titolo. Per sua natura, la teologia deve in primo luogo guardare alla rivelazione di Dio che trova il suo compimento in Gesù di Nazareth. A partire da qui, nella fede della Chiesa, essa pone domande continue, mediante le quali cerca di riproporre il contenuto di sempre dinanzi alla modificata comprensione della vita e dell'uomo che le diverse epoche e culture possiedono. Quale relazione, dunque, si dovrebbe porre tra la teologia e lo sport? La prima risposta che potrebbe sorgere è che, interessandosi all'uomo, la teologia dovrebbe interessarsi anche a ciò che l'uomo compie e, come ben sappiamo, tra le sue attività c'è anche lo sport. Questa risposta, corretta e legittima, mi sembra tuttavia talmente ovvia da non implicare una relazione a un Congresso e un dibattito con il teologo. È necessario, pertanto, indagare al di là dell'ovvietà. Viviamo un periodo in cui è difficile proporre qualcosa di nuovo. La cultura a cui assistiamo sembra ribadire le stesse identiche scene dei nostri telegiornali che per settimane intere, commentando una notizia, mandando in onda sempre le stesse immagini e gli stessi filmati. senza neppure avere ormai l'avvertenza di indicare che si tratta di immagini da repertorio! Ma noi, sempre più passivi, subiamo il tutto nella più profonda indifferenza.

Se qualche cosa di nuovo deve dirsi, allora è indispensabile rivolgersi a quella perenne novità che è data dal rivelarsi di Dio all'umanità. La sua rivelazione, infatti, costituisce quel "radicalmente nuovo" che l'uomo non avrebbe mai potuto far derivare da se stesso, ma solo accogliere come "rivelazione", cioè manifestazione e apertura a uno scenario e un orizzonte che mai egli avrebbe potuto immaginare. Prendo le mosse, allora, da una scena che tutti conosciamo. È descritta dal libro della Genesi e rappresentata in maniera del tutto originale da Michelangelo nella Cappella Sistina: Dio e Adamo sono l'uno accanto all'altro. Le rispettive braccia sono rivolte l'una verso l'altra. La mano di Dio è forte e tesa in maniera solenne; quella di Adamo e debole e accasciata. Il dito indice della mano di Dio sfiora quello di Adamo: è l'atto della creazione. La Bibbia dirà con il suo linguaggio: "Dio soffiò nelle narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente" (Gn 2,7). Da quell'istante il sangue iniziò a pulsare nelle vene dell'uomo; in quel momento la vita si concretizzò in lui con tutto il suo realismo e Adamo divenne "uomo". C'è un particolare, comunque, che non deve essere dimenticato. Quel dito della mano di Dio, disegnato da Michelangelo, è il segno dello Spirito Santo.

Digitus paternae dexterae, ricorda il Veni creator; egli è colui che tutto crea e a tutto dà vita. Per dirla con le parole del libro di Giobbe, quasi fosse un commentario a questa scena biblica, "se Dio richiamasse a sé il suo spirito e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all'istante e l'uomo ritornerebbe polvere" (Gb 34,14). In una parola, lo Spirito è la potenza e la forza di Dio; per suo mezzo tutto viene alla luce e tutto viene portato a compimento. È qui che bisogna vedere in primo luogo il nostro riferimento allo sport. Esso è un autentico prodotto dell'azione dello Spirito nell'uomo, il quale lo conduce a compiere atti che alimentano la vita e creano spazi vitali. Il primo punto di contatto per il nostro tema, quindi, deve porsi nell'orizzonte della creazione. Qui, infatti, allo sport viene presentata una sintesi di cui esso dovrebbe fare tesoro: il corpo e lo spirito vivono di una un'unità indissolubile nella complementarità delle funzioni. Non esiste alcuna parte del corpo che non sia intrisa di spirito, così come non c'è nulla nel corpo dell'uomo che non abbia a coinvolgere anche lo spirito che lo sostiene e lo alimenta. In questo contesto, mi preme soffermarmi su un aspetto che non sempre viene preso in considerazione.

Il libro della Genesi viene di nuovo in aiuto. Si legge a conclusione di ogni atto creativo che "Dio vide che era cosa buona". L'aggettivo ebraico tôb, tuttavia può essere tradotto anche "bello". Si potrà dire, quindi: "E Dio vide che era cosa bella". La creazione rivela la bellezza di Dio; l'uomo posto al culmine della creazione manifesta nel suo corpo la bellezza dell'azione creatrice di Dio. Lo sport deve poter manifestare la bellezza della corporeità. In una cultura che fa della bellezza lo strumento della seduzione, noi dobbiamo essere capaci, mediante l'attività sportiva, di esprimere la bellezza del corpo come fascino. Tra questi due termini si nota la sfida che di deve accettare. La "seduzione" esprime lusinga e inganno, al fine di circuire; il "fascino", invece, rimanda alla capacità di attrarre per condurre alla contemplazione. Scriveva Dostoevskij ne L'Idiota: "La bellezza salverà il mondo". E aveva profondamente ragione. Questa cultura sarà salvata se saprà ancora rivolgere il proprio sguardo a ciò che esprime bellezza genuina e da qui poter rinviare alla contemplazione del mistero che custodisce. Si deve recuperare, in una parola, la profonda verità che sta alla base del concetto di bellezza: ciò la cui percezione piace (id cuius ipsa apprehensio placet). La bellezza è ciò che fa sorgere serenità, pace, contemplazione, forza per riconoscere e accedere all'amore. La bellezza, infatti, genera amore e conclude il suo cammino nell'amore.

 ...La bellezza dell'azione creatrice...

L'uomo posto al culmine della creazione manifesta nel suo corpo

la bellezza dell'azione creatrice di Dio

 

 

 

Lo Sport alla luce della gloria

L'orizzonte della creazione non è sufficiente. Ricorda l'apostolo che tutto ciò che è stato creato fu fatto in vista di lui (cf. Ef 1,314), Cristo, che con la sua risurrezione immette nella creazione il seme della nuova vita (cf. Rm 8,28-30). È a partire da qui, allora, che è necessario compiere un passo ulteriore. Da duemila anni, noi non facciamo altro che attraversare le strade di questo mondo portando un semplice annuncio: la morte è vinta perché Cristo è risorto, noi ne siamo testimoni. La fede cristiana trova qui il suo punto di partenza e la sua sintesi migliore. È intorno a questo tema che si sviluppa tutta la fede e la vita dei cristiani. Questa situazione è talmente vera che l'apostolo non ha timore di affermare: "Se Cristo non fosse risorto allora vana sarebbe la nostra fede e vana la nostra predicazione" (1Cor 15,14). In altre parole, Paolo afferma che senza la risurrezione egli non comprende più la sua identità. Non avrebbe senso per lui né l'aver cambiato vita, né l'aver lasciato tutto per seguire Cristo né il sopportare per lui "angosce e tribolazioni".

Tutta la vita del credente si realizza alla luce di questa realtà. Qui si scontra il pensare filosofico che ha bisogno di riconoscere il proprio limite e di accogliere in sé la sapienza; qui le culture vedono l'ultima possibilità per superare l'immanentismo che le contraddistingue aprendosi al nuovo della trascendenza. Una breve riflessione che riprende quanto abbiamo accennato sul principio della risurrezione aiuterà a comprendere ulteriormente questa prospettiva. Leggiamo in Paolo: "Il corpo è per il Signore e il Signore per il corpo. Dio poi che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono di Cristo?. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate, dunque, Dio nel vostro corpo" (1Cor 6,13- 20).

Mai si sarebbero potute trovare parole simili nella filosofia dell'epoca e mai il pensiero greco avrebbe potuto esprimersi in questo modo parlando del corpo. Il corpo era una "prigione", incapace di innalzare lo spirito e per questo non poteva essere preso in seria considerazione. La morte avrebbe distrutto tutto per liberare finalmente dal corpo il "nous" e restituirlo alla sua dignità. Il cristianesimo, al contrario, si è fortemente battuto per imprimere nel pensiero la dignità del corpo. Questo deve essere considerato nella sua bellezza e dignità non solo perché è stato assunto dal Verbo: "Il Verbo si è fatto sarx" (Gv 1,14), cioè carne; ma, ancora di più, perché per questo corpo Gesù ha donato la sua vita.

La morte di croce redime il peccato e la corporeità è riportata al suo senso originario come era nel disegno del Padre. Si comprende, quindi, il valore del testo paolino; la morte e risurrezione del Signore hanno reso partecipe di questo destino anche il corpo dell'umanità e la redenzione da lui compiuta include tutta la persona: anima e corpo. Il corpo appartiene all'eternità ed è destinato alla gloria della risurrezione in forza della presenza dello Spirito Santo di cui è tempio. Ecco perché "il corpo è per Signore e il Signore per il corpo"; perché il corpo ha dinanzi a sé la partecipazione alla gloria della risurrezione. A differenza del mondo pagano, nel cristianesimo il corpo non viene distrutto, ma trasformato. La presenza in noi, durante l'esistenza storica, della vita di Dio non può andare perduta per la morte fisica. Significherebbe distruggere anche l'esistenza di Dio in noi e la comunione con lui sarebbe ridotta a mera simbologia. Cristo glorioso nella risurrezione porta con sé all'interno della Trinità il suo corpo glorioso. Questa è la verità della fede cristiana e questa è la speranza che ci accompagna. Ciò permette di capire perché il corpo deve essere mantenuto nella sua dignità e nella sua bellezza. Ma risurrezione indica un percorso e un contenuto ben preciso. Esso può sintetizzarsi intorno a tre termini: gratuità, obbedienza e partecipazione. Queste tre espressioni meritano di essere approfondite perché costituiscono esse stesse un contenuto teologico e sono alla base di un'antropologia cristiana che getta luce sulla pastorale che vede coinvolti gli sportivi.

 

Nella vita della risurrezione

Gratuità. È una parola decisiva per il cristianesimo e un termine di cui la cultura contemporanea ha perso il senso profondo. Senza la gratuità non c'è alcuna possibilità per comprendere la propria esistenza. Veniamo al mondo per una decisione altrui, lo lasciamo non per nostra volontà. La vita personale è dipendenza dall'altro. Solo nella misura in cui entro in questo circuito, mi è permessa l'autocomprensione dell'esistenza. È alla luce della gratuità che si può rispondere alla domanda cruciale: chi sono io? Ognuno conosce la contingenza della propria vita e la fragilità che l'accompagna. Ciò che emerge da ogni analisi su questo tema si condensa nell'espressione: sono il frutto di un dono. La vita è dono; tutto ciò che in me si realizza e che costituisce la forma dell'esistenza è dono; perfino il mio linguaggio che segna l'espressione più immediata e intima della vita personale, manifesta di quanto ognuno sia debitore a un altro. Dentro di me, pertanto, porto evidenti i segni della gratuità.

Grazia è la parola che traduce questa dimensione. Tutto è grazia! L'agire in noi dello Spirito è la forma più consona per trasmettere questa visione della vita. E come non capire questa realtà nello sport, dove ognuno sperimenta che le proprie qualità fisiche e agonistiche sono primariamente il frutto di un dono a cui si può solo apporre la disponibilità per lo sviluppo e l'umiltà per la loro trasformazione. Lo sportivo, particolarmente da questa prospettiva, può molto nel cambiamento di un modello culturale oggi particolarmente emergente. Si vive, infatti, con l'illusione che tutto mi appartenga e tutto, alla fine, sia solamente possesso. Possesso di sé e supremazia della propria volontà che sfociano nel possesso di ciò che desidero per cui o lo possiedo io oppure nessun altro.

Là dove ormai gioca un ruolo sempre di più irritante la supremazia della conquista e dell'acquisto solo in forza della prepotenza del denaro, là si può imprimere una svolta nel momento in cui quanti si dedicano allo sport fanno emergere il valore della gratuità. È in questo contesto che si può scoprire la piena dedizione per raggiungere la vittoria, sperimentando che insieme al momento personale del sacrificio e dell'impegno vi si accompagna sempre la scoperta del dono. In un simile contesto, mai il credente dovrebbe ricorrere al concetti di "fortuna" o di "destino"; questi non appartengono alla nostra cultura. È necessario, piuttosto, fare riferimento al dono e alla grazia che immettono nella sfera del piano di Dio su di noi. In questo spazio di dono, ognuno compie l'esperienza diretta che non può mantenere per sé ciò che ha ricevuto e, a sua volta, diventa fonte di dono e condivisione con gli altri: "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" (Mt 10,8).

Obbedienza. Una parola strana, soprattutto oggi, ma lo sportivo ne conosce molto bene il significato perché lo vive in prima persona. Obbedienza è parola altamente cristiana perché in essa è possibile leggere tutta la vita di Gesù Cristo. Paolo nel famoso testo della lettera ai Filippesi scrive che: "Gesù Cristo pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,6-8). Lo stesso concetto è espresso dal suo discepolo nella Lettera agli Ebrei: "Pur essendo Figlio imparò tuttavia l'obbedienza" (Eb 5,8). Ogni pagina dei vangeli, comunque, esprime l'obbedienza di Gesù al disegno del Padre; lo sintetizza in maniera chiara la Lettera agli Ebrei: "ho detto: Ecco, io vengo poiché di me sta scritto nel rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà" (Eb 10,7). Gesù in nulla si discosta dalla sua volontà e tutto opera seguendo quel piano che il Padre gli ha fissato. Questa obbedienza, lontano dall'essere mera passività costituisce per Gesù la realizzazione della sua esistenza.

 

 Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8)

Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8)

 

 

La riuscita nello sport richiede la consapevolezza piena del valore dell'obbedienza. Senza questa non potrebbe esserci passione, nonostante la fatica che viene richiesta; la voce di chi allena avrebbe sempre il tono dell'arroganza, la vittoria diventerebbe esclusiva prepotenza e la perdita sarebbe vista solo come sconfitta. È l'obbedienza che dà senso al sudore dell'allenamento e che trasforma in gioia la fatica della preparazione. Anche da questa prospettiva si comprende bene come si possa porre una premessa fondamentale per contribuire alla trasformazione della nostra cultura. Questa, infatti, si presenta sempre più come richiamo all'autonomia che tutto determina nel stabilire gli spazi di libertà.  

 La libertà stessa, anzi, è compresa come un poter disporre e scegliere con il solo richiamo al proprio diritto che prende sopravvento sui valori. Non più i valori vengono scelti in modo da stabilire la vera libertà dei miei atti; ciò che si verifica, piuttosto, è l'adeguamento dei valori alla mia scelta per cui diventa valore ciò che io stabilisco a partire da me e dalla mia realizzazione. In questa prospettiva, si falsa ogni concetto di libertà e la si rinchiude nel limite della propria immanenza. La libertà, però, si può realizzare solo come forma di decisione che va oltre il proprio limite e come capacità di affidarsi ad esso. E questo può essere solo Dio. La realizzazione della libertà genuina, pertanto, ha il suo fondamento nella scelta di un'obbedienza mediante la quale ognuno pone la sua vita nelle mani di colui che la può portare a pieno compimento. Obbedienza, dunque, come forma di libertà.

Partecipazione. Non si viene nel mondo soli e non lo lasceremo soli. Nel primo istante della venuta in questo mondo si è accolti dal sorriso di una madre, segno dell'amore; nell'ingresso del Regno dei cieli saremo accompagnati dal volto misericordioso di Cristo. È all'interno di questi due momenti che si sviluppa la nostra condizione umana. Essa si esprime nella sua essenza attraverso una dimensione relazionale. E non poteva essere altrimenti. All'interno della cultura di questo mondo, la fede cristiana nella Trinità ha saputo immettere e imprimere in modo indelebile il concetto di "persona". Persona dice relazione; capacità di saper uscire da se stessi per incontrare l'altro e instaurare un rapporto di amore. L'"io" incontra il "tu" non per un suo possesso, che rinchiuderebbe in un più deleterio individualismo, ma per sfociare nel "noi" dell'amicizia e dell'amore. È questo il segno della capacità di donazione che ognuno comprende e che realizza come un superamento di se stesso in vista dell'incontro che sfocia nella vita di comunione. La nostra fede, infatti, ha come suo contenuto centrale la vita di comunione di Dio nella donazione totale che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo fanno uno nell'altro.

È a questo punto che diventa importante comprendere il valore della fede, la quale garantisce la mia partecipazione alla vita di Dio. Giovanni in poche battute riesce a esprimere con chiarezza questa realtà: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente" (1Gv 3,1). Gli fa da eco Paolo il quale ribadisce: "Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo; poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,26). La partecipazione alla vita di Dio non è per i cristiani un fatto estemporaneo, come se si trattasse di una simbologia che rimanda a un contenuto ipotetico e astratto; al contrario, è la realtà dell'esistenza vissuta nello Spirito.

Quanto importante per lo sportivo diventa assumere in sé anche questa ulteriore prospettiva. Egli più di altri sa cosa significa "partecipare". Il suo senso di squadra è la mediazione prima per far comprendere il senso di appartenenza che dobbiamo necessariamente recuperare nel futuro. È l'appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa; a un popolo che ha duemila anni di storia e che percorre le strade di questo mondo portando per tutti un messaggio di salvezza. Partecipare nel comunicare questo messaggio è quanto di più prezioso un credente possa desiderare. Si condivide, infatti, la missione di Cristo e si diventa pienamente suoi discepoli. È in questo frangente che si comprende la chiamata alla fedeltà perché nessuno possa essere condotto nella confusione o nel fraintendimento dei contenuti della fede. È sempre l'apostolo che ci obbliga a pensare a questo quando scrive: "Ciò che si richiede agli amministratori è che risultino fedeli" (1Cor 4,2). Noi non portiamo qualcosa di nostro; siamo, invece, annunciatori di un messaggio a cui partecipiamo e di cui solo insieme siamo responsabili. In questo contesto, si deve porre con forza il richiamo alla formazione. Anche per lo sportivo è giunto il tempo di recuperare il momento della sua formazione cristiana senza della quale non c'è crescita nella fede. Se non si cresce nella fede, si rimanda il raggiungimento dell'età adulta e a poco serve il passare degli anni o l'acquisizione di nuove tecniche o responsabilità se poi il senso della vita rimane privo di una risposta adeguata, coerente e significativa. Lo sport, proprio perché appartiene a pieno titolo alla vita dei credenti impone a ognuno lo studio della sua fede perché questa vada di pari passo con l'acquisizione delle tecniche che abilitano a maturare e progredire nell'esercizio dei diversi sport.

 

Noi siamo testimoni

Le considerazioni che sono state fatte aprono la strada alla verifica del nostro impegno pastorale. Che cosa si nasconde, alla fine, dietro la parola "pastorale" se non il riferimento a ciò che costituisce la natura stessa della Chiesa: l'essere in missione. Lo sguardo, fino a nostri giorni è stato fissato troppo spesso sulla componente ad intra del nostro impegno. Sicuri delle nostre strutture e dell'ormai forte incidenza anche operativa, abbiamo dimenticato che la natura del nostro agire è la missione, cioè apertura ad extra. Certo che si opera cristianamente anche attraverso lo sport, ma il problema non è questo. A noi è chiesto di prendere in considerazione che primariamente esiste la missione a cui siamo chiamati e questa si avvale di mediazioni che sono varie e impongono una reale forma di "inculturazione" del vangelo. Mi piace citare in questo contesto l'espressione quanto mai significativa di Paolo: "Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro" (1Cor 9,19-23).

Paolo non perde la sua identità; lui rimane sempre lo stesso, ma si inserisce in quella dinamica propria del linguaggio e più ampiamente della cultura, che gli permette di farsi comprendere da quanti si pongono dinanzi a lui. Giudeo con i giudei, pagano con i pagani, debole con i deboli. potremmo aggiungere volentieri sportivo con gli sportivi. Qui, infatti, è necessario apprendere lo stesso linguaggio per essere capaci di comunicare il Vangelo. Nel documento della CEI si legge: "Non esiste lo sport, esistono gli sport" (n. 4). Non per i gusto della sottigliezza, ma per far emergere meglio quanto mi sta a cuore, vorrei aggiungere che, al limite non esistono gli sport, ma esistono gli sportivi. È questo il vero problema che si deve prendere in considerazione se si vuole entrare in una dinamica culturale e pastorale che sappia realizzare un duplice essenziale livello: da una parte, comprendere la cultura in quei linguaggi e in quelle modalità nelle quali si manifesta e viene recepita per cercare di provocarla soprattutto in quelle forme che limitano la sua apertura dinamica. Dall'altra parte, è necessario che il vangelo venga espresso attraverso quel linguaggio che viene utilizzato dal destinatario pena la sua incomprensibilità; questo è il momento in cui si devono inserire nella cultura le forme che permettono una vera realizzazione della persona.

La vera pastorale, alla fine, consiste nella capacità di sapere rispondere a questa esigenza di fondo: come annunciare il vangelo incarnandolo nella situazione peculiare che l'uomo di oggi vive? Uno sguardo agli Atti degli Apostoli, mostra con incredibile sorpresa le differenti maniere con cui Paolo in modo particolare riesce ad essere evangelizzatore: in casa, nel tempio, nella bottega, in prigione, nell'areopago, nel tribunale, sulla piazza. in ogni parte egli si trova, non fa altro che essere testimone del Risorto. Di volta in volta, assume il linguaggio tipico degli ambienti in cui si trova, si adatta a tutto pur di comunicare Cristo. Ciò che si dovrebbe riprendere con forza è il discorso di una "pastorale d'ambiente" che non è, ne potrebbe essere mai alternativa alla parrocchia; essa si inserisce, piuttosto, all'interno di quel progetto pastorale globale che la parrocchia deve costruire, sapendo che i credenti del suo territorio frequentano luoghi e ambienti tra i più disparati e che anche all'interno delle sue mura esistono "ambienti" che sono qualificati dalle attività che vengono compiute. Lo sport è certamente una di queste e più che mai una delle sfere più privilegiate dal contesto culturale contemporaneo. Qui è necessario raccogliere la sfida sapendo che è necessario portare la pastorale nello sport, ma ciò significa: da una parte, agire da cristiano nello sport (stato in luogo); dall'altra tendere a creare nello sport un ambito di autentica evangelizzazione (moto a luogo).

Ritengo che una categoria necessaria per corrispondere a questa esigenza sia la testimonianza. Noi tutti ricordiamo l'espressione di Paolo VI, secondo cui l'uomo di oggi non ascolta più i maestri, ma vuole i testimoni e se ascolta i maestri è perché sono testimoni (EV 41)! Ebbene proprio all'interno delle relazioni tra gli sportivi è bene sottolineare questa dimensione. Testimonianza, a differenza dell'esperienza, è una forma di conoscenza tra le più profonde perché crea relazione interpersonale tra due soggetti in forza del contenuto che viene testimoniato. Mentre l'esperienza sottolinea maggiormente la componente soggettiva e il rischio sarebbe quello di far emergere troppo le capacità e le qualità dello sportivo; con la testimonianza, invece, questi si nasconde per fare posto al messaggio che porta. Non si cada, comunque, nella trappola che speso è posta dinanzi alla testimonianza come se dare testimonianza equivalesse a passare sotto silenzio l'annuncio della nostra fede. È solo per un gioco all'equivoco che si identifica la testimonianza come il vivere della fede, senza esprimere direttamente i suoi contenuti. La testimonianza, infatti, è prima di ogni altra cosa un annuncio che si carica di maggior significato e credibilità proprio perché è vissuto coerentemente. Una testimonianza silenziosa non sarebbe testimonianza e la sua efficacia sarebbe ridotta al minimo.

 

Per concludere

La conclusione più immediata per questa nostra riflessione può essere colta nell'espressione di un "teologo" che come nessuno nel nostro secolo ha avuto il compito di risvegliare la sensibilità e l'attenzione per il mondo materiale, Teilhard de Chardin il quale così scrive nel suo Le milieu divin: "La virtù di Cristo è passata in te. Attirami con la tua forza, nutrimi con la tua linfa. Fortificami con la tua resistenza. Liberami con il tuo trasporto. E lascia infine che per te mi divinizzi" (pp. 121.129). Lo sportivo può realmente essere capace di vero sport e genuina cultura se rimane fortemente ancorato alla sua fede. Qui scopriamo che essa ha ancora oggi qualcosa di nuovo da comunicare e fino a oggi permette di condurre un'esistenza alla luce della bellezza, della bontà e della verità che trovano la loro sintesi suprema nell'amore.

15 luglio 1999

+ Mons. Rino Fisichella