Con lo sguardo fisso al centurione di Gerusalemme, scorriamo il racconto della passione di Cristo come descritta dall'evangelista Marco, per comprenderne il significato nascosto.

Il cristiano quando guarda alla morte di Gesú, sa di trovarsi di fronte all'evento piú grande della storia, rischiando però di credere che tutti i protagonisti del racconto evangelico, fossero consci di questo, ...ma non può essere cosí. Solo tenendo fermo questo presupposto si può percepire la grandezza della fede del centurione romano sotto la croce, una grandezza tale da divenire un modello per tutti noi.

Il Vangelo di Marco è stato composto a Roma e destinato ai cristiani della città eletta che in quegli anni stavano fronteggiando la prima grande persecuzione. L'esempio di un valoroso soldato, romano come loro, che si era guadagnato la salvezza non con la spada, ma con la fede, non era forse il piú bello da presentare loro?

Il centurione, quando quel mattino era entrato nel Pretorio di Pilato per svolgere il suo servizio, non poteva immaginare che di li a poche ore avrebbe incontrato il Figlio di Dio e che la sua vita sarebbe definitivamente cambiata. "E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesú, lo consegnò perché fosse crocifisso" (Mc. 15, 15). Tutto è chiaro: il processo si conclude con la sentenza e Pilato consegna Gesú al centurione e ai suoi soldati per l'esecuzione della condanna.

Non è un incarico gradito: i veri soldati non amano questo compito da giustizieri che non ha nulla di glorioso, né di eroico. I soldati venivano incoraggiati a svolgere questo "lavoro sporco", permettendo loro di dividersi i pochi effetti personali dei condannati: poca roba, perché spesso si trattava di delinquenti incalliti, schiavi o ribelli, gente che non poteva possedere abiti di valore. Nel caso di Gesú la veste, forse, era uscita dalle mani di Maria: bella, tutta d'un pezzo, tanto che i soldati dissero: "Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca" (Gv. 19, 23).

Il centurione esegue il suo incarico. Gesú viene portato nel Pretorio, in quel cortile dove i soldati si riuniscono, vengono inquadrati prima di uscire in missione. Lì bisogna aspettare l'arrivo di tutti e tre i condannati perché il loro supplizio possa cominciare con la flagellazione: una tortura supplementare che aveva lo scopo di accorciare notevolmente la vita dei condannati. Durante l'attesa la soldataglia comincia a divertirsi alle spalle di Gesú: "Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciano poi a salutarlo: "Salve, re dei Giudei"! E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui".

II centurione era presente e lasciava fare. Deve però aver iniziato a guardare quell'uomo in modo speciale, con uno sguardo che non avrebbe distolto fino alla morte in croce. Se qualcuno avesse intervistato il centurione in quel momento, non avrebbe potuto registrare in lui che una vaga inquietudine: quell'uomo era ancora un uomo, un essere degno di attenzione, di uno sguardo particolare. I condannati però debbono iniziare il cammino della croce.

"Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, ... a portare la croce": bloccare un passante per un lavoro coatto non poteva essere cosa decisa da un soldato semplice. Il condannato sembrava incapace di arrivare al patibolo; poteva morire lungo la strada: l'ordine però, era che morisse in croce. Forse, in quel momento, nel cuore del centurione ci fu posto per un po' di compassione: una piccola luce cominciava a farsi strada nel cuore di quest'uomo rude e forte, un senso di rispetto e forse la consapevolezza che quest'uomo, come lui, avesse una missione da portare a termine sul Calvario.

"Condussero dunque Gesú al luogo del Golgota, ... e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese". Pur nella durezza del suo compito, il centurione non perde il senso di rispetto per chi soffre e muore. Un rispetto nato sui campi di battaglia, quando la sofferenza e la morte diventano pane quotidiano: per questo offre a Gesú del vino drogato che lo possa stordire e lo aiuti a sopportare la morte. Ma Gesú vuol affrontare la morte "senza bende sugli occhi". Egli non è un timoroso che piange davanti alla condanna, ma un eroe che compie il proprio dovere fino in fondo: gli occhi del centurione si spalancano ancora di piú su di Lui.

Ma chi è quest'uomo? Un pazzo? Un incosciente? Un fallito che vuol morire? Il dubbio si insinua. Tutti sul Calvario guardano verso quel condannato che sta per morire e lo schermiscono, gli danno del pazzo: "Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce! ... Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo".

Mentre le grida e le offese si susseguono, il centurione sente il condannato che prega, prega Dio con un salmo: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" Da quella invocazione il centurione capisce il legame tra quel crocifisso e Dio: è il grido di un morente che invoca il padre. Quante volte sui campi di battaglia aveva sentito le grida dei morenti, che invocano chi si ama davvero, chi è al centro dei nostri pensieri e occupa un posto importante nel nostro cuore. Questo presunto delinquente, questo presunto rivoluzionario, questo presunto pazzo o illuso, ora invoca Dio, in piena verità come un figlio morente può invocare il proprio padre.

La fede del centurione inizia qui, sotto la croce, e comincia proprio da quel grido: "Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: "Veramente quest'uomo era il figlio di Dio!" (Mc. 15, 39). Il collega di Gerusalemme è il modello della nostra fede: come lui, anche noi siamo condotti sulle strade della vita, dove incontriamo l'uomo, lo riconosciamo figlio di Dio. Essere soldati significa allora per noi, mettersi a servizio di quest'uomo per difenderne la vita, i valori..., disposti a rischiare la nostra stessa vita: Chi ama la propria vita la perde, chi dona la propria vita la trova". "Chi ama la propria vita piú di me, non è degno di me". "Vi do un comandamento nuovo: Amatevi, come io vi ho amati".

Per poter donare la vita, bisogna prima riconoscere che ogni uomo è un figlio di Dio: è figlio di Dio l'immigrato, il clandestino; è figlio di Dio il profugo, il deportato; è figlio di Dio il bisognoso, il debole, il povero. È figlio di Dio anche il "nemico", reso tale dal peccato e irriconoscibile dall'egoismo, il nemico da immobilizzare e da rendere incapace di un male maggiore. E poiché figlio di Dio è ogni uomo, il nostro servizio sia, in ogni momento, espressione di autentico amore.

Roma, 4 maggio 1999

+ Giuseppe Mani