Se ti taglia la strada, sei fritto, qualcosa di brutto ti accadrà, specialmente se vai in auto.

La gente, nei tempi andati non faceva differenza se incocciava nel prete, chiuso dentro il sacco nero. Pensava al felino malefico e all'istante faceva gesti scaramantici. Al contrario il saio del frate portava bene.

La mia fanciullezza ha assorbito educazione e istruzione in un piccolo seminario. Benedico quegli anni e prego per i compagni arrivati o non arrivati all'altare. Fuori di quell'aiuola, l'ambiente era ben diverso. Anarchia, anticlericalismo, socialismo tutore dei diritti della povera gente, qualche "spretato", molti mazziniani, tutti feroci contro il governo del Papa e contro i preti. Da seminaristi, uscivamo ogni pomeriggio a passeggio, in fila per due. Il chiacchiericcio del nostro gruppo richiamava l'attenzione della gente dei vicoli; dalle finestre e dai negozietti il primo saluto: "Tirate la rete, passano i corvi".

Un ciabattino dal suo chioschetto, guardandoci... "di questi me ne mangerei sette al boccone"! A Fabriano, nei giorni caldi della settimana rossa (1911) se si presentava alla stazione un prete, il treno non partiva. Tanto per finire. Celebrandosi il Corpus Domini di quell'anno, uscí la processione dalla cattedrale sotto una fragile scorta di bersaglieri, carabinieri e guardie regie. Assalirono la processione. Confusione, panico, violenza. Il Vescovo con il Ss.mo trovò riparo dentro un portone, i canonici e i seminaristi si difesero a colpi di falcolotti. Il disegnatore Beltrame dedicò al fattaccio una copertina della Domenica del Corriere (n. 26 del 25 giugno 1911). Oggi tutto o quasi è cambiato, anche perché di sacchi di carbone se ne vedono pochi in giro.

Quando fui arruolato cappellano militare (1942) prima dell'ambizione, che era grande, c'era la necessità di indossare la divisa, croce vermiglia sul petto, si raggiungevano i reparti operativi, fuori di casa nostra.

Ed eravamo ben accolti come in famiglia, come ci fossimo da tanto tempo. Ci chiamavano per nome, confidenzialmente, pochissimi conoscevano il cognome, e ti affidavano subito compiti che poco avevano a che fare con la Messa. Oltre all'azione pastorale c'era da provvedere all'istruzione primaria, al conforto e al benessere, ai malati, alle famiglie dei militari. Assistenza nel senso piú ampio del termine. Poteva anche accadere di dividere tenda e paglia con un subalterno, magari con il medico del reparto.

Però la prima disposizione di legge che riguardava il cappellano militare, in origine poneva rigidi paletti. Il cappellano doveva occuparsi e assistere i militari ristretti nel carcere e quelli ricoverati nell'ospedale. Se poi il comandante del presidio lo riteneva utile e opportuno, poteva chiedere al cappellano qualche prestazione religioso-liturgica, una tantum. Ora all'apparire di un prete che, diciamo per istituzione o mestiere si occupa di carcerati e di malati, se non di moribondi, come potevano i militari liberi e in buona salute, non pensare al beccamorto o alle pompe funebri?

Siamo negli anni venti di questo secolo, ignoranza e superstizione stimolano la difesa per neutralizzare la iettatura. "Se vedete nero, sparate! Potrebbe essere un prete"! Si racconta che la raccomandazione fosse di Garibaldi; non si sa in quale dei due mondi fu consacrato eroe. Dopo il Concilio Vaticano II i preti possono gabbare anarchici e anticlericali e sono, per la verità, pochi a dichiararsi tali.

 S. Messa al campo

 

 

I cosiddetti "avversari" raramente si attardano in rozze volgarità. I reverendi hanno appeso all'armadio la talare e ora sfoggiano look eleganti, attillati, badando bene all'accostamento delle tinte. Ma talvolta sembrano arlecchini, uno straziante insieme di colori, unico quotidiano pantalone jeans implorante la lavatrice. Ritornano alla talare i monsignori di prima nomina. La fila di bottoncini e la fascia zonale violacea attraggono, seducono. E c'è chi ci scopre preti anche se siamo in borghese: i capelli scompigliati e lunghi, tasche rigonfie della giacca e dei pantaloni, macchie e patacche, modesta presenza di infagottato e sciatto.

In molte sacrestie c'è uno specchio, il prete si controlla prima di andare all'altare. C'è da augurarsi che faccia altrettanto ogni volta che esce da casa. I cappellani militari, assieme ai cappellani del lavoro, a quelli degli esploratori e degli emigrati all'estero, hanno il merito, non piccolo, di avere reso familiare, gradita, simpatica una presenza non facilmente sostituibile. In caserma, ormai, sono caduti i pregiudizi e le ansie per certe presenze. Guerre, prigionia, internamento, il calvario indescrivibile dei ripiegamenti e delle ritirate attraverso deserti infuocati o campi di neve sterminati, senza altro orizzonte che la fame, le violenze, le umiliazioni.

Tutto fece crescere l'anima, la fraternità, l'amore. Chi lo sa se i cappellani di oggi ricordano e riconoscono che avanti sono andati altri a scavare e a seminare? Certo è che sto uscendo inquadrato e "affardellato" dalla porta carraia della mia caserma e mi salutano dalla finestra dell'ufficio: "Dio ve la mandi buona! So' fatti vostri!" Allora ribatto "Perché non vieni con noi in esercitazione?"

Per fortuna il gatto nero dagli occhi con vibrazioni metalliche non scarica addosso sortilegi. Ha fatto il suo tempo. Gioisco quando un anziano ufficiale mi dice: "il mio prete si chiamava... quando un altro lo rievoca affermando:

"Era veramente prete".

 

 

 

 

 

Cfr. SANTINI P., Il gatto nero, in Il Cursore, 6 (1998), 5.