La Tregua e la Pace di Dio
La Tregua di Dio fu istituita dal Concilio di Clermont voluto da Urbano II - il Papa della prima crociata - nel 1095. Con la tregua di Dio la Chiesa vietava temporaneamente ogni atto di guerra o di ostilità e le stesse contese giudiziarie, sotto pena di scomunica. La Tregua si estendeva:
1) dalla 1a domenica di Avvento fino alla VIII dell'Epifania;
2) dal 1º giorno della Quaresima fino all'VIII dell'Ascensione;
3) dal mercoledí sera al lunedí mattina per tutto il resto dell'anno.
Se non si poteva per legge eliminare del tutto la violenza la si poteva almeno regolamentare, riducendone il piú possibile gli spazi e i tempi. In base a tali dettami restavano veramente pochi giorni dell'anno per poter combattere.
La tregua di Dio era distinta dalla Pace di Dio la quale invece era perpetua. La pace di Dio riguardava le persone consacrate, ossia i chierici, i monaci, le vergini e le vedove recluse; inoltre si applicava ai luoghi consacrati, cioè alle chiese, ai monasteri, ai cimiteri e alle loro dipendenze. Oltre a ciò la pace di Dio era in vigore nei tempi sacri, cioè le domeniche ed i giorni feriali posti sotto la speciale protezione della Chiesa. Anche in questo caso la pena prevista era quella della scomunica. Presto i concili estesero la pace di Dio alle altre persone protette dalla Chiesa, ossia ai poveri, ai pellegrini, ai crociati, e ai mercanti in viaggio. La pace istituita cosí nei luoghi sacri portò poi all'istituto giuridico del "diritto di asilo" che aveva tra le sue fonti anche il testo biblico (per es. Nm 35,6.11-13; Nm 35,25-28; Dt 4,42). Nell'antica società ebraica, in cui la giustizia di Stato non aveva ancora sostituito la vendetta privata, l'omicida involontario doveva essere protetto contro possibili vendette (cfr. Nm 35,19 ss. per la figura del "vendicatore del sangue"). Il luogo di asilo per eccellenza era originariamente il santuario (1Re 1,50; 1Re 2,28-34), tuttavia il diritto di asilo non veniva accordato in caso di omicidio premeditato (cfr. Gs 20,1 ss. per l'origine dell'istituzione delle città rifugio).
Fu l'esigenza di santificare la domenica che portò inizialmente all'istituzione della tregua di Dio (vedasi SEMICHON E., La paix et la trêve de Dieu: Histoire des premiers développements du tiers-états par l'Eglise et les associations, 2.me ed., Paris, 1869; HUBERTI L., Gottes und Landfrieden, Ansbach, 1892). Essa si affermò anche per porre rimedio all'anarchia, diffusa all'epoca del feudalesimo, originatasi anche in seguito al vuoto di potere dell'autorità pubblica. Particolarmente grave, infatti, era la diffusione delle cosiddette "guerre private" che fecero dell'intera Europa un campo di battaglia disseminato di castelli e fortificazioni. In questi conflitti del tutto arbitrari e violenti niente e nessuno veniva risparmiato, né santuari, né clero, né giorni sacri.
Furono i concili di Charroux (989) e di Le Puy (990) a dare inizio al movimento della tregua di Dio. Il Concilio di Elne nel 1027, in uno dei suoi canoni inerenti la salvaguardia della domenica giunse a proibire le ostilità dal sabato sera fino al lunedí mattina. In questo divieto si potrebbe vedere la nascita vera e propria di tale istituto giuridico (cfr. LIBERTINI D., Nobiltà e Cavalleria nella tradizione e nel diritto, Tivoli 1999, 113). Questa proibizione fu estesa di conseguenza anche ai giorni della settimana consacrati dai grandi misteri della fede cristiana, quali il giovedí di Ascensione, il venerdí della Passione del Signore e il sabato santo, vigilia della Risurrezione. Tali estensioni furono dovute probabilmente al concilio di Nizza del 1041. In seguito vennero aggiunti anche i tempi liturgici dell'Avvento e della Quaresima. In ogni caso la sanzione comminata era quella gravissima della scomunica.
Se tali istituti canonici non poterono sopprimere completamente il triste e doloroso flagello delle guerre private riuscirono almeno a limitarlo. La tregua di Dio si diffuse rapidamente dalla Francia all'Italia e poi alla Germania. Il concilio ecumenico del 1179 estese poi tale istituto alla Chiesa intera con il canone XXI, De treugis servandis che venne inserito nelle Decretali di Gregorio IX (X. I, tit., De treuga et pace). Il problema dei conflitti privati, che costituí una delle grandi piaghe del Medioevo, non venne risolto radicalmente, tuttavia vennero poste le basi per il suo superamento. Gradualmente, infatti, le autorità civili, le case regnanti ed i comuni si ispirarono a tale istituto restringendo sempre piú l'uso della forza ai soli conflitti internazionali.
Interessante, circa la tregua di Dio il testo del Vauchez:
«Il successo incontrato dal movimento di pace tra il 990 e il 1020 nella parte occidentale della Cristianità incoraggiò il clero a spingersi piú avanti. In un primo tempo, i suoi sforzi avevano mirato a "limitare la violenza a un solo settore del popolo cristiano: quello degli uomini che portavano il gladio e lo scudo e che andavano a cavallo" (G. Duby). La stabilizzazione della nuova classe dirigente, però, e soprattutto il clima di tensione escatologica [vertente cioè sul destino dell'uomo e del mondo] che si determina in prossimità del millenario della Passione di Cristo, consentiranno alla Chiesa di aumentare le proprie esigenze, proponendo ai fedeli, ossessionati dalla prospettiva del Giudizio [finale], un ideale di purificazione e di ascesi: una rinuncia comune intesa ad allontanare la collera divina, i cui segni premonitori, se dobbiamo credere ai cronisti del tempo, andavano moltiplicandosi. Ai laici, e soprattutto ai cavalieri, la Chiesa chiede di astenersi da quello che è il loro maggior piacere: la guerra. Da quel momento l'obiettivo del movimento di pace si sposta. Non si tratta piú di un patto sociale, ma di un patto con Dio, destinato a far diminuire il peccato nel mondo grazie al rafforzamento delle pratiche penitenziali.
Tale è il senso della "tregua di Dio", che trova la propria codificazione definitiva nei concili di Arles (1037-'41). Da quel momento è fatto divieto ai signori di combattere dal mercoledí sera al lunedí mattina, cosí com'era rigorosamente proibito ai religiosi di acquistare per denaro cariche ecclesiastiche e di avere relazioni sessuali. Né gli uni né gli altri rispettarono del tutto i nuovi interdetti. Essi però non erano destinati a rimanere completamente lettera morta, ed è opportuno interrogarsi sulle cause del successo - almeno relativo - di quei raduni di folla organizzati per iniziativa dei monaci e dei vescovi. Uno degli elementi di risposta risiede certamente nelle strette relazioni che si erano stabilite tra il monachesimo riformato e l'aristocrazia cavalleresca. La maggior parte dei monaci, in effetti, proveniva da quell'ambiente, e gli abati di Cluny in particolare si erano ben presto dati pena di proporre ai religiosi un ideale religioso adatto al loro genere di vita e alle loro capacità. Sin dal secolo X Oddone di Cluny non aveva forse esaltato la figura di san Geraldo di Aurillac (morto nel 909), un signore laico che era rimasto nel mondo e vi aveva raggiunto un alto grado di perfezione attraverso la pratica di quelle virtú - pietà, rispetto dei religiosi, senso di equità, generosità verso i poveri - che sino ad allora erano state considerate proprie del re giusto?
La stretta simbiosi esistente tra il mondo dei monasteri e quello dei castelli, però, non basta a spiegare tutto. Per imporre la propria legge i religiosi si appoggiarono sulla fede dei fedeli nel potere dei santi. Fu sulle loro reliquie che vennero prestati i giuramenti di pace, e fu della loro vendetta che gli spergiuri vennero minacciati nel modo piú esplicito. Contro i violenti irriducibili, infatti, i monaci non esitarono a proferire maledizioni, tanto temute quanto erano ricercate le loro preghiere. A forza di minacce, di processioni di corpi santi e di sanzioni canoniche - la privazione di una sepoltura cristiana era la porta dell'inferno - riuscirono bene o male a vincere le resistenze e a far regnare intorno a sé quel minimo di tranquillità e di sicurezza di cui la società aveva bisogno per vivere. Non era però sufficiente proibire o brandire la folgore dei castighi celesti.
La violenza feudale momentaneamente contenuta rischiava di esplodere nuovamente se non avesse trovato un altro modo per sfogarsi. Cluny e il Papato lo compresero tanto bene che sin dalla metà del secolo XI invitarono i cavalieri cristiani ad andare a rafforzare gli eserciti dei piccoli regni del Nord della Spagna minacciati dalla pressione dell'Islam. Negli anni 1060-'70 Alessandro II assunse nuove iniziative: non contento di estendere a tutta la Cristianità le misure prese localmente in favore della "tregua di Dio", richiamò i cavalieri a non versare piú, d'ora in poi, sangue cristiano, ma a combattere i nemici della fede su quel fronte avanzato della Cristianità. Il suo messaggio fu ripreso e amplificato da Urbano II al Concilio di Clermont (1095). Con la predicazione della Crociata si precisano le prospettive offerte ai laici, e in particolare alla cavalleria: nel partire come penitenti e pellegrini per liberare il sepolcro di Cristo, i guerrieri avrebbero trovato un campo di azione fatto su misura per la loro fede e il loro dinamismo, e al tempo stesso la società occidentale si sarebbe sbarazzata dei suoi elementi piú turbolenti. La Chiesa, nella logica della sua opera di pace, si pose a capo del movimento: al richiamo dei predicatori e degli eremiti la folla dei crociati si mise in moto, e per la prima volta prese la via di Gerusalemme» (VAUCHEZ A., in R. FOSSIER, Il risveglio dell'Europa (950-1250), Einaudi, Torino, 1985).
Sempre sulla tregua di Dio si riporta un testo redatto dal sinodo tenutosi a Colonia nel 1083. È un brano dal quale traspare con vivida concretezza e realismo la gravità del problema e la preoccupazione pastorale da esso suscitato. Nel testo venivano stabilite anche le pene nelle quali sarebbe incorso chi si sarebbe reso reo di azioni violente; pene commisurate anche allo stato sociale del reo. I nobili, per esempio, venivano puniti con la confisca del feudo; gli schiavi con la pena capitale. In ogni caso la scomunica veniva sempre considerata una pena di particolare gravità:
«Ai giorni nostri la Chiesa è tormentata da tribolazioni e difficoltà, e disperiamo di avere pace e tranquillità; ci siamo cosí sforzati, con l'aiuto di Dio, di andare in suo aiuto per affrontare le sofferenze e i pericoli. E grazie ai consigli dei nostri fedeli abbiamo alla fine indicato un rimedio grazie a cui si possa ristabilire, almeno in taluni giorni, la pace che, a causa dei nostri peccati, non siamo stati in grado di mantenere. D'intesa abbiamo decretato quanto segue:
Avendo riunito tutti i nostri sudditi in un consiglio legalmente convocato e tenutosi a Colonia, capoluogo della nostra provincia, nella chiesa di San Pietro, nel milleottantatreesimo anno dell'Incarnazione di nostro Signore, nella sesta indizione, nel dodicesimo giorno precedente alle calende di maggio e dopo aver discusso altre questioni, abbiamo rese pubbliche le nostre proposte riguardo questa materia. L'argomento è stato affrontato insieme dai clericali e dalla popolazione che, con l'aiuto di Dio, hanno raggiunto un accordo e stabilito in quali modi e durante quali periodi dell'anno la pace debba essere osservata, e cioè:
Dal primo giorno dell'Avvento di nostro Signore fino all'Epifania, dall'inizio di Settuagesima fino all'ottavo giorno dopo la Pentecoste (e per tutta quella giornata), ogni domenica, venerdí e sabato per tutto l'anno, nei giorni di astinenza delle quattro stagioni, alla vigilia e nell'anniversario di tutti gli apostoli e in ogni giorno consacrato - o che verrà consacrato in futuro - a digiuni o festività; in tal modo coloro che viaggiano e coloro che resteranno a casa potranno vivere sicuri e in pace; e che nessuno commetta assassini, appicchi incendi, faccia rapine o assalti, venga ferito con una spada, un bastone o qualsiasi altra arma. Che nessuno, anche se intenzionato a contrastare il male, si arroghi il diritto di portare armi, scudi, spade o lance o qualsiasi genere di armatura dal giorno dell'Avvento di nostro Signore fino all'ottavo giorno dopo l'Epifania e dalla Settuagesima fino all'ottavo giorno dopo la Pentecoste. Negli altri giorni, cioè domeniche, venerdí, anniversari e vigilia degli apostoli, in ogni giorno consacrato - o che verrà consacrato - a digiuni o festività è consentito portare armi a condizione che nessuno e per nessuna ragione venga ferito.
Se per alcuno fosse necessario, durante un periodo di pace - per esempio dall'Avvento di nostro Signore all'ottavo giorno dopo l'Epifania e dalla Settuagesima all'ottavo giorno dopo la Pentecoste -, recarsi da una diocesi a un'altra in cui la pace non viene osservata, può portare armi ma a condizione che non ferisca alcuno se non per autodifesa; e al suo ritorno nella nostra diocesi dovrà immediatamente posare le armi. Nel caso un castello fosse in stato di assedio durante i giorni di pace gli assedianti devono cessare gli attacchi a meno che non siano a loro volta assaliti dagli assediati e forzati a respingere gli attacchi.
Per far sí che questo statuto di pace non venga violato da alcuno, per errore o impunemente, sono state stabilite delle pene con il consenso di tutti, e cioè: se un uomo libero, o un nobile compie delle violazioni, per esempio commette un omicidio o ferisce qualcuno o è in alcun modo in difetto, verrà espulso dalla sua terra senza possibilità di indulgenza quale il pagamento in denaro o l'intercessione di amici, e le sue proprietà passeranno agli eredi. Se ha un feudo, questo tornerà al signore a cui appartiene. Inoltre se si scoprisse che i suoi eredi, dopo la sua espulsione, gli hanno dato aiuto o supporto, e fossero per questo giudicati colpevoli, le proprietà saranno loro confiscate e consegnate al re. Qualora essi intendano discolparsi dall'accusa nei loro confronti devono prestare giuramento davanti a dodici persone che siano, come loro, nobili o libere.
Se uno schiavo uccide un uomo verrà decapitato; se lo ferisce perderà una mano; se gli procura una ferita in qualunque altro modo, con il pugno o con un bastone o scagliando una pietra, verrà rasato e frustato. Nel caso fosse accusato e volesse provare la sua innocenza può discolparsi se affronta l'ordalia dell'acqua fredda, ma dovrà essere lui a essere messo nell'acqua e nessun altro al suo posto. Se, comunque, temendo la sentenza contro di lui, scappasse verrà scomunicato a vita; dovunque venisse visto, la gente di quel luogo dovrà essere messa a conoscenza che quella persona è scomunicata e che è contro la legge associarsi con lui. Non si potrà punire con il taglio della mano coloro che non abbiano ancora compiuto dodici anni. Però, se dei ragazzi litigano verranno frustati e verrà loro impedito di lottare.
Non è violazione della pace se qualcuno ordina che un suo schiavo colpevole, o alunno o chiunque altro sotto la sua potestà, venga castigato con verghe o bastoni. Fa eccezione a questa costituzione di pace anche il caso in cui il re ordini pubblicamente una spedizione per contrastare dei nemici del regno o voglia tenere un consiglio per giudicare dei nemici della giustizia. La pace non sarà violata se, durante i periodi specificati, un duca o dei conti, dei magistrati o i loro sostituti celebreranno processi e commineranno legalmente pene a ladri, rapinatori e altri criminali.
Lo statuto di questa nobile pace è posto in essere soprattutto per la salvaguardia di coloro che lavorano nei feudi; ma alla fine della pace non sarà concesso loro di rubare e saccheggiare nei villaggi e nelle case dal momento che la legge e le pene esistenti prima dell'istituzione della pace sono tuttora in vigore per impedire di commettere crimini; inoltre ladri e rapinatori sono esclusi da questa pace divina e da ogni pace.
Se qualcuno cercherà di opporsi a questa pia istituzione e non è intenzionato a promettere insieme agli altri la pace a Dio, o osservarla, nessun sacerdote della diocesi potrà celebrare messa per lui o occuparsi della sua salvezza; se è malato nessun cristiano dovrà osare fargli visita; non potrà ricevere l'eucaristia nel suo letto di morte se non dopo essersi pentito. La suprema autorità della pace si è impegnata con Dio e per volere di tutti a far rispettare questo statuto non solo oggi ma per sempre; chiunque oserà infrangerlo o violarlo, ora o nei secoli futuri e fino alla fine del mondo, verrà da noi irrevocabilmente scomunicato.
La responsabilità di eseguire le sopra menzionate pene contro i trasgressori della pace non sarà solo dei conti, dei giudici locali o degli ufficiali ma della popolazione in generale. Dovranno fare attenzione a non mostrare simpatia o astio e non fare nulla contrario alla giustizia della pena e nemmeno nascondere crimini, ma farli venire alla luce. Nessuno potrà ricevere denaro per il perdono di coloro che hanno sbagliato, o cercare di aiutare i colpevoli con alcun favore perché chiunque lo faccia incorre nella dannazione della sua anima; e tutti i fedeli devono ricordare che questa pace non è stata promessa agli uomini ma a Dio e dunque deve essere osservata con ancora maggior rigore. Quindi esortiamo tutti in Cristo a custodire inviolabilmente questo indispensabile contratto di pace e se qualcuno, d'ora innanzi, oserà violarlo, fate sí che venga colpito da scomunica irrevocabile e dall'anatema dell'eterna perdizione» (Readings in European History, Robinson J. (cur.), I, Ginn & Co., Boston e New York 1904).
Il duello
Il duello è un forma di combattimento in cui due contendenti si affrontano ad armi pari per dirimere una questione di giustizia o di onore. Usanza di origine medioevale, il duello era molto diffuso fino alla prima metà dell'Ottocento e si differenziava da altre forme lotta, in quanto prevedeva un rituale (o etichetta) altamente formalizzato, imponeva la presenza padrini e testimoni e richiedeva l'applicazione di regole precise. Tali rituali stabilivano fra l'altro il grado di violenza permesso, conformemente alla gravità della controversia. La persona sfidata aveva quasi sempre diritto a scegliere luogo, il momento e l'arma del duello: le armi tradizionalmente usate erano la sciabola, la spada o la pistola, solitamente il duello aveva luogo all'alba e in luoghi appartati. Nell'epoca moderna, si combatté prevalentemente per questioni d'onore: in termini sociologici, esso divenne occasione privilegiata per l'affermazione e la difesa della propria identità di uomo rispettabile.
Cenni storici
L'infelice pratica del duello nacque nell'antichità e acquistò una particolare rilevanza tra i popoli germanici nel Medioevo, poiché divenne un mezzo giuridico - sebbene alquanto rozzo - di prova nelle controversie. La pratica del duello si diffuse ampiamente in Francia, dove venne usato come mezzo per risolvere le dispute relative ai beni e alla proprietà. Negli altri paesi europei, invece, il duello divenne una pratica di una certa diffusione a partire dal 1528, quando Francesco I fu sfidato a duello da Carlo V d'Asburgo, che aveva ritenuto offensiva la dichiarazione di guerra ricevuta. Se il combattimento non ebbe luogo per le difficoltà della sua organizzazione, la sfida ebbe comunque una vasta risonanza, e i nobili europei iniziarono a sfidarsi per dirimere questioni d'onore con tale frequenza che, nel 1602, il re di Francia Enrico IV, in considerazione dell'altissimo numero di decessi verificatosi, emanò un editto in cui si condannava alla pena capitale chiunque partecipasse ai duelli, la cui pratica tuttavia continuò illegalmente, tanto era ormai radicata nella mentalità e nei costumi.
Secondo gli storici, in Inghilterra il duello fu importato dai normanni nell'XI secolo, e si diffuse ai tempi della Restaurazione degli Stuart, probabilmente come reazione alla morale puritana dominante all'epoca di Oliver Cromwell. Declinò in seguito durante il regno della regina Vittoria, che nel 1844 lo vietò ufficialmente. In Germania invece, durante l'epoca imperiale, il duello fu una pratica diffusa nell'esercito e nella marina. Nelle università tedesche veniva considerato alla stregua di uno sport e per gli studenti era un onore poter diventare membri di un "verbindung", ossia di un club di duello. Alla fine del XIX secolo, la pratica venne severamente regolamentata fino ad essere del tutto proibita nel 1928, durante la Repubblica di Weimar. In Italia l'illegalità del duello venne sancita dal codice penale Rocco (1930).
Il declino del duello
La pratica del duello venne sempre condannata dalla Chiesa, tuttavia solo dal 1508, con papa Giulio II, si giunse a comminare la scomunica a coloro che vi avessero preso parte. Purtroppo ogni tentativo di estirparlo si dimostrò vano, tanto esso era radicato nella mentalità e nei costumi. Se infatti il duello era diffuso fra i ceti sociali piú elevati, il ricorso all'omicidio, e in genere alla violenza fisica, per motivi di giustizia, di onore o di banale interesse era molto diffuso in passato, anche nel popolo. L'eccessivo peso attribuito al senso dell'onore inoltre faceva apparire cosa lecita, quando non addirittura doverosa, il duello, ancorché comportasse l'omicidio. Per queste ragioni umane e morali la Chiesa non lasciò nulla di intentato per scoraggiarlo e bandirlo dalla cultura, dai costumi e dalla legislazione. All'inizio del Novecento il duello era ormai vietato in quasi in tutti i paesi, in quanto forma di giustizia privata contrastante con il monopolio statale della giustizia penale, oltre che a causa di valutazioni di natura morale e religiosa. Questa forma di combattimento tipica - come già detto - delle classi elevate declinò insieme all'aristocrazia, la classe sociale che piú di tutte l'aveva sostenuta e praticata.
La condanna del duello nel Concilio di Trento
In questo testo conciliare si può notare l'estrema severità della condanna a cui la Chiesa assoggettava coloro che in qualsiasi modo ricorrevano o anche solo assistevano al duello. Tale durezza manifesta al contempo la sollecitudine pastorale e la severità di una giustizia costretta spesso dalla brutalità dei costumi a ricorrere in larga misura alle pene canoniche e al considerevole timore che esse incutevano. Da sottolineare il fatto che tali pene implicavano gravissime conseguenze sia sul piano civile, sia su quello giuridico ed economico. Occorre considerare anche che il livello culturale di gran parte della popolazione non lasciava altre alternative se non il ricorso ad una giustizia tanto severa quanto certa. Questa è la ragione per cui oltre alla scomunica veniva comminata anche la temutissima privazione delle esequie e della sepoltura in terra consacrata, insieme alla minaccia della "maledizione perpetua". L'intento pedagogico era di incutere un tale orrore del duello e delle sue conseguenze morali e materiali da spingere chiunque a rinunciarvi. Misure draconiane ma efficaci che purtroppo, più avanti, saranno vanificate dallo spirito ateo e anticlericale montante dalla rivoluzione francese in poi.
Testo originale latino della condanna del duello, formulata al Concilio di Trento
«Detestabilis duellorum usus, fabricante diabolo introductus, ut cruenta corporum morte animarum etiam perniciem lucretur; ex christiano orbe penitus exterminetur.
Imperatores, reges, duces, principes, marchiones, comites et quocumque alio nomine domini temporales, qui locum ad monomachiam in terris suis inter christianos concesserint: eo ipso sint excommunicati, ac iurisdictione et dominio civitatis, castri aut loci, in quo vel apud quem duellum fieri permiserint, quod ab ecclesia obtinent, privati intelligantur, et, si feudalia sint, directis dominis statim acquirantur.
Qui vero pugnam commiserint, et qui eorum patrini vocantur: excommunicationis ac omnium bonorum suorum proscriptionis ac perpetuae infamiae poenam incurrant, et ut homicidae iuxta sacros canones puniri debeant, et, si in ipso conflictu decesserint, perpetuo careant ecclesiastica sepultura.
Illi etiam, qui consilium in causa duelli, tam in iure quam facto, dederint aut alia quacumque ratione ad id quemquam suaserint, necnon spectatores excommunicationis ac perpetuae maledictionis vinculo teneantur.
Non obstante quocumque privilegio seu prava consuetudine, etiam immemorabili» (cfr. Conciliorum Oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo et al., ed. bilingue, Bologna 19912, 795).
Traduzione italiana in lingua corrente
«Il detestabile uso dei duelli, introdotto per opera del diavolo, al fine di ottenere con la morte cruenta dei corpi anche quella dell'anima, sia del tutto estirpato dal mondo cristiano.
Gli imperatori, i re, i duchi, i principi, i marchesi, i conti e le autorità secolari di qualsiasi genere che daranno luogo a un duello fra cristiani nei propri territori, per ciò stesso siano scomunicati e si intendano privati della giurisdizione e del dominio della città, del castello o del luogo, che hanno ottenuto dalla Chiesa, nel quale, o presso il quale, permisero che si facesse il duello.
Qualora si tratti di domini feudali si intendano acquisiti all'istante dai loro signori.
Coloro invece che parteciparono al combattimento e coloro che ne sono definiti padrini incorrano nella pena della scomunica, nella privazione di tutti i loro beni e nella perpetua infamia e, in quanto omicidi, siano puniti secondo i sacri canoni.
Se poi morirono nello scontro stesso siano privati in perpetuo della sepoltura ecclesiastica.
Anche quelli che diedero il loro consiglio, tanto in diritto quanto in fatto, in una causa definita da un duello o con qualunque altra ragione convinsero chiunque a ricorrervi, inclusi gli spettatori, restino vincolati alla scomunica e alla maledizione perpetua.
Nonostante qualunque privilegio o malvagia consuetudine, anche immemorabile».
Nella società odierna il duello praticamente non esiste piú, nemmeno nei manuali di morale che, fino agli anni '60 del Novecento, lo includevano nelle loro trattazioni. Purtroppo non si può dire altrettanto della triste piaga dell'omicidio. Il duello spesso si concludeva con la morte di uno o di entrambi i contendenti anche per futili offese, ciò che del resto accade spesso anche per gli omicidi per cosí dire "non rituali".
In ogni caso dietro l'omicidio, il piú grave delitto di cui un essere umano possa macchiarsi, c'è sempre alla base il diniego dell'umana dignità e l'affermazione assolutistica e irrazionale del proprio egoismo. Uccidere una persona significa in realtà interrompere il processo vitale che, senza soluzione di continuità, attinge alle origini stesse della vita, un patrimonio biologico e culturale potenzialmente illimitato; significa porre fine ad ogni suo possibile sviluppo, perciò chi uccide un uomo è come se avesse distrutto un mondo intero.
Nel Vangelo di Giovanni il diavolo è definito da Cristo con tali parole: «Egli è stato omicida fin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). Perciò l'Autore del libro della Sapienza (Sap 1,12-15) avverte:
«Non provocate la morte con gli errori della vostra vita,
non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani,
perché Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza;
le creature del mondo sono sane,
in esse non c'è veleno di morte,
né gli inferi regnano sulla terra,
perché la giustizia è immortale».
**