Il coraggio di guardare in faccia la vita e la morte...

Di dare un senso alla propria vita e alla propria morte...

Una scommessa per la vita.

 

 

 

 

Pagine diecimila, righe tre

Il decreto sulla pornografia della morte accomuna [...] Occidente ed Oriente, "capitalismo" e "socialismo". I due regimi che si spartiscono il mondo e che non trovano altro equilibrio che nella reciproca minaccia di morte, non sanno fare i conti con la morte.

Non sanno; o, meglio, non possono: come si vedrà con abbondanza, fare quei conti significherebbe sgretolare sistemi che tirano avanti proprio ostinandosi a negare il più profondamente umano tra i problemi dell'uomo. Sia l'Est che l'Ovest hanno davvero, ciascuno, il proverbiale "scheletro nell'armadio" suggerito dal titolo di questo capitolo e di quello che lo segue. Vogliamo cominciare con qualche assaggio - a base di fatti e di quelli soltanto - nel vasto, variegato ma, almeno in questo unitario, mondo del marxismo?

Non sono molti ad avere letto le oltre diecimila pagine a stampa che compongono l'opera omnia di Karl Marx. Chi le ha lette può testimoniare che, in quei milioni di righe, tre - tre soltanto - sono dedicate al morire. È un inciso nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, dove si accenna distrattamente al fatto che «la morte appare come una dura vittoria della specie sull'individuo». Ma è un'ombra troppo ingombrante, che Marx tenta subito di cacciare, negandone la stessa esistenza. Scrive infatti: «L'individuo determinato, tuttavia, non è che un essere genericamente determinato, e come tale è immortale». Non si capisce bene che cosa voglia dire; in parole meno fumosamente imbarazzate, pare significhi che l'uomo muore ma la specie, l'umanità, è immortale. È l'ingenua fede di un uomo dell'Ottocento che si esaltava per gli sbuffi di fumo delle prime vaporiere, e non sospettava certo il fungo di ben altro fumo che si sarebbe alzato alle 8,15 del mattino di un 6 agosto su una remota città chiamata Hiroshima. Ma è anche la sconcertante superficialità (o l'ipocrisia?) di uno dei più venerati "sapienti" e "maestri" della storia che ignora - o finge di ignorare - che cosa significhi davvero la morte per l'uomo concreto, non per un astratto «essere genericamente determinato».

Comunque, Marx non toccherà più quel tasto per lui spinoso se non oltre trent'anni dopo, nel 1878, nella lettera a un amico cui era morto un familiare. Non ha, neanche qui, altra parola da dire se non "dimenticare", "nascondere", "far finta di niente": «È la vita che ci aiuta, con tutte le sue piccole gioie e noie e con tutte le sue preoccupazioni». È strano: il grande "maestro della ragione" non sa far altro che adeguarsi all'amara morale del Candide di quell'altro infaticabile "ragionatore" che fu Voltaire: «Travaillons, sans raisonner», lavoriamo, senza ragionare... Il silenzio del Fondatore non è casuale e farà scuola: «Presso tutti i classici del marxismo si trova la stessa trascuratezza e il medesimo imbarazzo davanti al problema della morte, tanto da far pensare che non si tratti affatto di una dimenticanza, ma di una necessità imposta dalla logica di un sistema che non sopporta di essere confrontato con una questione che è per lui insolubile». Così Joseph Gevaert, un filosofo fiammingo d'oggi. Confida un marxista stesso, un iscritto al partito comunista italiano, lo slavista Vittorio Strada: «Bisogna pur riconoscere che, davanti al problema della morte, il marxismo è disarmato, non offre alcuna risposta autentica».

Il silenzio, l'imbarazzo, la fuga sono così evidenti e plateali che c'è quasi disagio nell'additarli. Ci si sente come dei maramaldi nel denunciare una tale falla - e non tamponabile se non mandando in pezzi l'intero edificio - nel catechismo marxista che vorrebbe spiegare tutto: e che, con una simile "dimenticanza", finisce col non poter spiegare niente di ciò che conta davvero non per le anonime "masse lavoratrici" ma per il "lavoratore" concreto. A questo sistema che si fa vanto di essere il vero, unico "umanesimo totale" sfugge così tanta parte dell'uomo. Tanto da giustificare l'ironia di Edgard Morin, un sociologo comunista, il cui libro sulla morte non è estraneo alla sua uscita dal partito: «Il marxismo, caro mio, ha studiato l'economia, il mercato, le leggi sociali. È meraviglioso, il marxismo. Peccato solo che abbia dimenticato di studiare l'uomo...» (cfr. MESSORI V., Scommessa sulla morte. La proposta cristiana: illusione o speranza?, Torino 19823, 25-27).

 

 

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«Osa sapere!»

[...] Malgrado le diverse apparenze, sia la società occidentale che quella del "socialismo reale" hanno una radice comune: è l'Illuminismo del Settecento europeo, che si prolunga nei secoli seguenti, sino a noi, sotto forma di positivismi, scientismi, razionalismi di varie risme. È da lì, è dall'Illuminismo, che vengono sia lo spietato liberalismo borghese sia il sanguinoso messianismo marxista. Anzi - se volessimo cercare ancora più a fondo le radici dell'oggi - dal Settecento francese, tedesco, inglese dovremmo spingerci sino al Quattrocento e al Cinquecento italiani.

Sino, cioè, al Rinascimento: in questo modo, da circa un secolo e mezzo, è chiamato il movimento che si svincolò dal Medio Evo formalmente "cristiano" e non per andare avanti ma per tornare indietro di quattordici o quindici secoli, alla riscoperta di quel paganesimo greco-romano che pur non aveva fatto una brillante riuscita; era in effetti sfociato nella crisi irreversibile che lasciò spazio al cristianesimo. Questo non uccise il mondo classico, ma subentrò semmai a un mondo ormai incancrenito: gli orrori della decadenza imperiale, ai quali il Vangelo oppose novità e freschezza, erano gli sbocchi naturali di una cultura che gli storici moderni - ad onta dei bolsi, sprovveduti cantori della "classicità" - definiscono un cerchio infernale. Punto di partenza la schiavitù, pilastro insostituibile di ogni società precristiana: la schiavitù produceva la ricchezza, la ricchezza lusso e immoralità, questi prostituzione, la prostituzione ancora schiavitù. Eppure il termine "Rinascimento", al pari di "Illuminismo", ha un evidente suono polemico: là la rinascita dopo la morte imposta dalla Chiesa, qui i lumi accesi nella notte della superstizione cristiana, la fiaccola della ragione impugnata per rischiarare la vita e renderla davvero libera e degna" (Idem, 86-87).

 

 

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La guerra al cimitero

Quell'illuminismo del quale, dunque, siamo tutti figli - in America, come in Europa, come in Unione Sovietica - arriva al potere politico alla fine del Settecento: con la rivoluzione americana prima, e, soprattutto, con la rivoluzione francese poi. Appena raggiunta la facoltà di imporre leggi, quei nostri trisavoli si affrettano a decretare un provvedimento significativo: ordinano cioè l'espulsione, urgente e forzosa, di ogni tomba dai luoghi abitati. Quasi che, non potendo abolire per legge la causa, la morte cioè, della legge si servano per rendere almeno invisibile l'effetto, il cimitero. Si intende: conosciamo bene le "gravi ragioni igieniche" accampate per giustificare il loro provvedimento, presentato ovviamente come "segno di progresso". Ma c'è sempre un petulante, un indiscreto. In questo caso il guastafeste è ancora Louis V. Thomas, l'antropologo, che ha studiato a fondo le leggi sui cimiteri della nuova Europa dopo la rivoluzione: "Dietro quei provvedimenti in apparenza molto razionali, c'è in realtà l'alibi nevrotico inventato da una società che tenta di sottrarsi alla sua angoscia". Questa la conclusione dello studioso d'oggi, dopo l'analisi delle laiche disposizioni funerarie. Le quali altro non erano che la traduzione in decreto-legge dell'appello lanciato da uno dei padri più prestigiosi della nuova cultura, Wolfgang Goethe. "Via le tombe! Via dalle tombe", esortava dunque quel grande, un altro nostalgico del paganesimo e delle sue superstizioni. Invece che avanti si andava anche qui indietro, si ritornava ai terrori degli antichi per i quali la sola vista di un sepolcro bastava per essere colpiti dal fascinum, il maleficio, il malocchio, la jettatura. Le culture della ragione esordiscono dunque con atteggiamenti irragionevoli? Le culture nuove riscoprono in realtà ciò che è vecchio? A conferma del sospetto, i provvedimenti cimiteriali del mondo finalmente illuminato hanno tutti un punto in comune: evitare in ogni modo che le case dei morti siano visibili dalle case dei vivi. Per ottenere quel risultato le precauzioni sembrano non bastare mai: i giacobini della Rivoluzione, e, dopo di loro, il Bonaparte avevano fissato prima in duecento, poi in cinquecento metri la distanza dei cimiteri dalle prime case abitate. [...] In qualche caso le autorità, ansiose di impiegare in quelle necropoli inaccessibili le magre risorse nazionali, furono dissuase solo da rivolte popolari: meno nevrotizzata dei suoi padroni, la gente "comune" (o "normale" come si dice con un termine indicativo) non intendeva farsi rubare anche i suoi morti.

 

Vita mutatur non tollitur

«Vita mutatur non tollitur»

 

 

Ma non per questo i potenti accantonarono un'esigenza tanto vitale ormai per tutti ma soprattutto per loro: ripiegarono così sul rafforzamento delle già rigide leggi esistenti. Avvenne in Francia, ad esempio, quando nel 1936 andò al governo il Fronte Popolare, la celebre coalizione di comunisti e socialisti che ebbe vita tormentata e breve. Non abbastanza breve però, per non inserire tra i punti più urgenti del suo programma la questione dei cimiteri, giudicati ancora troppo visibili. A tambur battente, il "Fronte" approvò così un decreto, non sai se più ridicolo o penoso. Già un alto muro doveva obbligatoriamente nascondere alla vista il cimitero. Ma non conveniva nascondere anche il muro? Si ordinò così che la recinzione in muratura fosse raddoppiata con una cortina di alberi. E di alberi sempreverdi, si prescrisse in modo tassativo, così che neppure la caduta delle foglie, il cambio delle stagioni, aprissero squarci su una vista intollerabile al regime. I giacobini avevano nascosto le tombe con un muro; i socialcomunisti nascondevano il muro con gli alberi; il radicalismo borghese non poteva non spingersi fino al passo estremo: far sparire e tombe e muro e alberi. Infatti l'architettura d'avanguardia propone ora (e, quando può, realizza) lo scavo di una grande fenditura nel suolo; all'interno, invisibili anche da chi passi accanto, si cacciano quelle maledette tombe che si ostinano a perseguitarci. Qui - dice il nostro Thomas commentando i decreti del Fronts Populaires e i progetti dei nuovi architetti - il problema non è proteggere l'igiene fisica dei cittadini, ma piuttosto l'igiene mentale dei governanti. Siamo davanti a reazioni isteriche dettate da un male oscuro che tormenta proprio chi grida più forte di essere libero da ogni paura oscurantista (Idem, 97-99).

 

 

N.B. Si raccomanda la consultazione del testo integrale (con le note critiche).

Le immagini presenti in questa pagina non fanno parte del testo originale.

 

 

 

 

 

 

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