Quando mi dissero, che bisognava scrivere un pezzo su Garibaldi, subito me lo vidi davanti sul Gianicolo, eroe dell’unità nazionale, a cavallo, oggetto dei miei sogni di fanciullo, colato solennemente nel bronzo, torvo, accigliato.
L’Italia un po’ liberale, un po’ massonica e molto anticlericale, gli aveva eretto quel monumento nel 1895.
I sentimenti visceralmente acidi, corrosivi, contro Cristo, la Chiesa, il Papa e i preti sono noti a tutti, perché Garibaldi non li ha mai nascosti a nessuno. E dopo la prima visita a Caprera una penosa impressione ti si mette come macigno sullo stomaco e non riesci a rimuoverlo. Tra gli autografi del Generale lessi: «Se vedete nero - ordina ai suoi - sparate; potrebbe essere un prete!» E fra le tante, l’affermazione meno rozza, meno greve e blasfema uscite dalle labbra di quell’uomo, per altri versi pur Grande d’Italia.
Non mi sentivo assolutamente disposto a scrivere un solo rigo. Poi aiutato dal redattore capo del Miles, l’amico don Luigi Pedrolli, trovai un ritaglio di un giornale «Vita» quotidiano indipendente di informazione del 9.11.1979. Non nascondo che leggendo i titoli di testa, della pagina di cultura, ebbi un piccolo sussulto di gioia, nel senso che una rivincita Cristo se la era presa, se non con lui, l’eroe, almeno con la di lui ultima figlia, la Clelia.
Riassumo in breve i fatti dalla intervista riportata dal giornale. Ecco: Mai un prete aveva avuto permesso di entrare in casa Garibaldi, nessun prete era stato ricevuto da Clelia. Sempre un netto e sdegnoso rifiuto ad ogni tentativo di avvicinamento. Forse c’era anche d’aver paura. Clelia, ultima figlia dell’avventuroso Generale, non era da meno del babbo. Ci riuscí un prete piccolo piccolo, insignificante se te lo vedessi passare di fianco (mi perdoni il monsignore!) ma di buona razza beneventana, certo uomo di candida, sicura fede. Don Nicola Bonomo, oramai sulla soglia, quasi, degli ottanta, fu cappellano della Marina Militare per piú della metà della sua vita... Esile e minuscolo tanto da essere vezzeggiativamente chiamato e noto in tutta la Marina e fuori come «don Nicolino», sollecitato dall’Ordinario militare mons. Angelo Bartolomasi entrò in servizio e indossò le stellette nel 1930, da tenente, e le lasciò, da maggiore, nel 1967.
Clelia Garibaldi
«Clelia ovvero il governo dei preti» é il titolo di un libro in parte autobiografico, fortemente polemico ed aspramente antireligioso scritto da Garibaldi e messo subito all’indice dei libri proibiti dalla Chiesa, ancora odorante di inchiostro. Se non avesse avuto altre notizie bastava quel volumetto a far scattare i congegni d’allarme a qualsiasi prete mettesse piede a Caprera. Nel 1937 vi arriva da Taranto don Nicolino, destinato cappellano dell’ammiragliato de La Maddalena. Tra le visite ai suoi ragazzi, don Nicolino dedica particolare attenzione a quelli piú isolati e comandati di guardia d’onore alla tomba di Garibaldi. E furono proprio questi ragazzi col solino a parlare a Clelia del proprio cappellano, che veniva in visita e mai a mani vuote. Donna Clelia, incuriosita dalla figura di questo omino vestito di bianco come i ragazzi marinai, volle vederlo e gli fece sapere che un te o una grappa avrebbero potuto berla assieme in casa Garibaldi.
E cosí avvenne il primo di una serie di incontri e di piacevoli conversazioni, spesso all’ombra di quel favoloso pino ad ombrello che babbo Garibaldi aveva piantato il giorno della nascita di Clelia (1867) Era figlia della terza moglie di Lui, Francesca Armosino, assistette il padre sino alla fine.
Eccoci al punto: e cedo la parola, o la prendo direttamente dall’intervista concessa a “Vita” da don Nicolino. Alla domanda: «Come mai riuscí a far pregare Clelia Garibaldi?» il cappellano risponde: «Tutto accadde naturalmente. Un giorno prima di andarmene dissi a Donna Clelia: «Permette che io le dia la mia benedizione?» Mi guardò sorpresa, ma subito osservò: Non sono atea, come non lo fu mai né mio padre né lo fu mia madre. Quanto ai preti... quello é un altro discorso. Lei però, con questa candida divisa, non rassomiglia a un corvo. Accetto dunque la sua benedizione... Mi feci coraggio e aggiunsi: «Vogliamo dire una Ave Maria per la mamma sua? - Certo, se lei mi aiuta a ricordare questa preghiera, soggiunse Clelia, forse l’ho dimenticata...».
Don Nicolino qui si ferma e non va oltre. Riservato. E soddisfatto e commosso.
Dice poi che donna Clelia mostrò da allora di essere sempre piú felice per le sue visite, interrotte quando don Nicolino nel 1938 ebbe l’ordine di lasciare Caprera ed imbarcarsi per i mari della Cina e del Giappone.
Nel 1948 un fugace ritorno a Caprera: un abbraccio, una colazione intima ed un omaggio da parte di Clelia, ormai ottantacinquenne, di un suo libro dal titolo «Mio Padre» (editore Vallecchi).
Il pino secolare di Garibaldi a Caprera
La scena dell’ultimo addio risentiamola direttamente da monsignor Bonomo: «L’ultima sera donna Clelia mi volle accompagnare, piano, camminando adagio, per un breve tratto. C’era una luna bellissima a Caprera. All’improvviso la signora mi disse: «È bella la luna questa sera. Mi ricorda alcuni versi che papà mi insegnò. Non so se fossero suoi (papà era un poeta istintivo, dalla vena facile e dal verseggiare sicuro) o di chissà mai quale artista. Li ascolti: Luna, romito, aereo, tranquillo astro d’argento, Come una vela candida navighi il firmamento e in tua carriera antica segui la terra in ciel...
A me quel «romito» non piaceva.
Infatti ogni volta osservavo «Papà, la luna é romita, non romito».
Mio padre rideva.
Mi dica don Nicolino, avevo ragione o torto?».
La figlia di Garibaldi che conversa, prega con un prete! Che chiede di farsi arbitro fra lei e suo padre, sia pure su una questione grammaticale, ad un prete, sia pure piccino e minuto, vestito da marinaio!?
Le ossa del Grande avranno avuto un fremito nella loro tomba di granito?!
O avrà sorriso il «papà» alla figlia ottantacinquenne, come rispondeva ridendo alla figlia bambina?
La risposta alla Fede.
Cfr. SANTINI P., Clelia Garibaldi... e un cappellano militare, in Bonus Miles Christi, 6 (1981), 262-264.