Ormai non sono piú io che vivo,
è Cristo che vive in me (Gal. 2,20)

 

 

 

Stanotte piove fitto e uguale. Noiosamente. L’accampamento dorme con pesantezza di piombo nella oscurità; poiché ieri si è combattuto ostinatamente e all’alba gli alpini dovranno ritornare all’attacco delle posizioni nemiche.

Sono le prime ore pigre e fredde del giorno e già una tenda, nel folto delle altre, si è svegliata: palpita, apre piamente nella notte gli occhi arrossati di due candele. È il Cappellano che dice Messa. Curvo, quasi piegato sul suo altarino da campo (a star dritti si tocca nei teli e poi piove dentro) mormora sommesse preghiere. Riaffiorano alla memoria motivi di tempi lontani, di catacombe, di vigilie eroiche e di prime Messe in aurora.

E quando il Cappellano si rivolge per la benedizione finale, pare che, da quel largo segno di croce, si effonda su quegli uomini distesi nel sonno opaco e in armi, un’onda lenta di pace e di benedizione. Anche l’attendente, che serve ginocchioni la Messa, la sente passare nell’aria e china riverente il capo fin quasi sul petto.

È l’ora. L’accampamento è tutto un brusio sordo e contenuto. Parole tronche, richiami di amici, ormai si intrecciano sussurrati nella notte che trasalisce già al primo contatto dell’alba imminente e si vena di lontane e fredde chiarità. Tutti ormai sono a posto. La lunga fila degli alpini, curvi e silenziosi, si snoda lungo il sentiero fangoso. Ritto sul margine piú alto il Cappellano, ombra nell’ombra fredda, ferma ad uno ad uno i plotoni, e dà l’assoluzione. Qualche alpino cade pesantemente in ginocchio, si rialza barcollando sotto il peso della mitragliatrice e scompare cancellato dall’oscurità.

Passa ultimo e frettoloso un giovane ufficiale, riconosce il Cappellano.

- Ciao, gli dice sottovoce, hai il Signore?

- Sí,

- Dammelo da baciare.

Un balenio metallico della piccola teca tratta di sotto la divisa; un bacio intenso e poi via animosamente. Verso la battaglia.

Ricomincia il colloquio e il cammino «a due». Il Cappellano parla al suo grande Compagno. Parole sommesse salgono disancorate dal fondo indistinto del cuore e qualche volta sfuggono inavvertite alle labbra. (L’alpino che si é attardato per riagganciare il sacco, ascolta sorpreso e non capisce).

Sono le preghiere e i voti di tutte le mamme per i figli in armi, sono benedizioni e domande per ciascuno di quei generosi e umili combattenti incolonnati verso la linea del fuoco. E quando la domanda si fa piú pressante la gioia piú intensa, il dolore piú fondo, la mano corre istintivamente alla piccola teca che racchiude il Cristo. Come per un gesto di possesso e una riaffermazione di diritto, come per un bisogno di conferma e una rinnovazione di una ricchezza cosí augusta e troppo felice.

Cosí vai e non sai bene se Egli sia che ti porta o tu che porti Lui. Vai ignaro che la pioggia gelata ti punga nel viso a raffiche rabbiose, che l’acqua ti imbeva e scorra lungo il corpo vivido e sano, che la reazione nemica abbia già attaccato il suo «pezzo» a grande orchestra, e gli schianti sinistri del mortaio, il gemito quasi umano dei proiettili per l’aria il battito secco e maligno della mitragliatrice riempiano già le valli vicine e lontane di echi, di scrosci e di laceramenti.

Vai sollecito e ansioso di dare allo strazio dei feriti il conforto e il sigillo del piú grande e divino di tutti i Feriti, per dare a quelli che cadono il solo e valido Compagno che sappia tutte le vie oscure della morte e della vita, per esserne, il solo, vittoriosamente tornato.

E quando sei fra i combattenti si effonde da te, inavvertita ma reale, un’irradiazione arcana di calma, di forza e di coraggio.

Non hai notato che, quando il Cappellano appare in linea, i volti dei soldati, contratti e fissamente intenti, si distendono a un sorriso di fiducia e di serenità? (Ricordi quell’alpino, appostato dietro la sua bella e formidabile arma, la mattina della tua prima visita alle linee avanzate? «Ora sí, Cappellano, che andiamo bene. Adesso siamo a posto anche di anima!». E si ridistese contento e deciso al suo posto di combattimento).

Quando, nelle notti passate all’addiaccio, immense e rotte dagli incubi, hai la fortuna di portare Cristo, Egli ti si addormenta leggermente sul cuore e - senza irriverenza - ti vien fatto di pensare al privilegio incomparabile della Vergine Madre. Ed è Lui non, come credi, il colpo di fucile solitario e quasi sacrilego che ti sveglia per primo all’aurora chiara e assurda passata in agguato sotto le postazioni nemiche.

E nelle ardue marce sui sentieri assetati e deserti delle montagne non ti è mai capitato di pensare alla poetica e cantare la storia di Cristoforo, il portatore di Cristo e di sorprenderti a sorridere beato, pur nella stanchezza estenuante delle membra?

E non hai spesso arditamente «sentito» che, al cader dell’interminabile giorno, anche il tuo invisibile e presente compagno accusava la tua stessa fatica e quella dei tuoi soldati e, come te, affrettava impaziente la sosta ristoratrice? Di piú. Non ti è forse avvenuto, nell’allucinazione della stanchezza e nella luce spettrale del tramonto, la felice e breve illusione di sorprendere, con un tuffo dolce e acuto del sangue, la figura di lui, piegata sotto lo zaino affardellato e ugualmente incolonnata nella lenta teoria degli alpini? Ed era invece il corto balenio di un viso che s’era voltato a guardarti attraverso le righe lucide del sudore e i solchi oscuri della fatica; come attraverso una grata aperta sul mondo ultraterreno.

 

Coralità della vita (L’uomo della carità pastorale)

Da due anni sono cappellano militare; ma d’onde viene alla mia vita spirituale questo senso tutto nuovo e originale di pienezza, di dilatazione e di gioia, ordinata e virile che erompe dalle mie profondità, anche nelle inevitabili angustie dell’ora e tra gli spettacoli piú angosciosi della guerra? Perché altri Cappellani hanno confessato, come me, che la vita militare ha segnato una generosa rinnovazione del loro sacerdozio?

Sta bene: le Messe al Campo nude e solenni, le Comunioni folte e devote dei soldati, sotto la volta chiara dei cieli mattutini, la predicazione alla truppa - e i soldati ti succhian le parole dalle labbra, come i bimbi al seno della mamma - l’accostamento vasto e avventuroso dei lontani; ma siamo sempre nella zona esterna e sentimentale del fenomeno, perché queste forme, se togli la cornice drammatica, della guerra e delle armi, sono piú o meno comuni anche al ministero sacerdotale del tempo di pace. E infine riguardano sempre l’apostolato, cioè gli altri.

Qui invece si tratta di un fatto strettamente personale di una realtà interiore mai prima dora sperimentata, di una nuova e felice dimensione dello spirito che riguarda la mia personalità e quella soltanto.

Qualche cosa che nasce dalla immissione profonda dell’individuo nella massa, dalla consustanzialità dell’uomo con la tragedia del suo tempo e della stretta consanguineità con quelli che ne sono i protagonisti piú diretti: i combattenti.

È il sentirsi efficacemente e sperimentalmente irradiati nella storia, fatti carne e sangue con la propria gente, attori di primo piano in questa pienezza vitale, questa socialità gioiosa e questa coralità immensa.

La vita ordinaria del sacerdote può nascondere l’ambigua e difficile tentazione di segregarsi dalla massa, nell’intento di elevarsi, può creare lentamente diaframmi opachi tra lui e il popolo, e stabilire alla fine, negli spiriti meno vigili e meno vasti, uno stato di «splendido isolamento». Ma questo vivere sotto una stessa divisa che tutti accomuna nella stessa dura sorte, questo mangiare lo stesso pane (come è bello, in linea, quando arriva la spesa, mettersi in fila con gli altri per ricevere la razione!) questo dormire uno accanto agli altri, distesi per terra, nell’uguaglianza macerante della stanchezza e del sonno, questo marciare incorporati nel Battaglione, polverosi come gli altri, col sacco in spalla come tutti, cantando a piena voce le canzoni alpine, dà il senso vivo di una comunione cosí intima e cosí eroica, che ogni cosa, anche la piú umile e ordinaria, si trasfigura nello spirito all’altezza e alla solennità di un rito e di un sacerdozio nuovo.

Due volte questa sensazione corale mi balenò con un’evidenza cosí luminosa e cosí prepotente da sobbalzarne come per un’improvvisa folgorazione interiore. La notte che mi svegliai di soprassalto ai bordi della strada sassosa (erano i giorni dell’avanzata in Grecia e all’alt eravamo piombati a terra come sacchi vuoti) e vidi dilungarsi nella luce fredda e lattiginosa dell’alba la fila dei corpi abbattuti pesantemente nel sonno, come una lunga catena di cui mi sentivo vivo e piccolo anello, e provai accanto a me il tepore umano e il respiro grave dei compagni che mi pressavano da ogni parte. E l’altra volta quando mi trovai copiosamente invaso da quei parassiti che i combattenti di tutte le guerre conoscono e che gli alpini chiamano «carri armati». Ne rimasi dapprima sorpreso e quasi avvilito; ma poi sentii scaturire dal profondo un impetuoso sentimento di allegrezza, di vitalità e di fierezza. Per la prima volta, mi parve comprendere - se è permesso - la sublime ed oscura follia di S. Benedetto Labre che andava levando ai suoi poveri questi ospiti indesiderati, per potersene riempire.

Se non temessi di forzare il significato delle cose, direi che, in questo sentimento, vi è un po’ di quella compiacenza e intenzione per la quale il Cristo amava insistentemente chiamarsi «Figliuol dell’Uomo» o almeno l’eco della fierezza paolina per la quale poteva dire ai suoi connazionali: se voi siete ebrei, anch’io lo sono.

E il soldato domanda, esige dal Cappellano questa compartecipazione di vita. Quando, una volta, cedendo alla stanchezza, salii per una tappa sull’auto-carretta - e nessuno dei competenti mi invidierà certamente questo mezzo di trasporto - i miei alpini non me lo perdonarono tanto presto. Ci volle un congruo periodo di «buona condotta» perché mi fosse dimenticato l’appellativo di... «Cappellano autocarrato».

Quando invece riesco a dividere pienamente la mia vita con gli alpini, allora, uscendo dai ranghi per la Messa al Campo, mi pare di gustare ed attuare come non mai la pienezza e la verità saporosa delle definizione paolina: «il Sacerdote è scelto di mezzo agli uomini e per gli uomini è posto a trattare le cose di Dio». E se non m’illudo, mi pare di cogliere sul volto maschio della mia gente un tenue sorriso di soddisfazione e di fierezza.

Come se uno di loro fosse scelto, per tutti, a salire l’altare ed offrire il sacrificio di tutti al Dio onnipotente.

 

 

 

 

 

Cfr. L’invisibile compagno. Dal libro «Cristo con gli Alpini» di don Carlo Gnocchi, in Bonus Miles Christi, 2 (1981), 60-63.

 

 

 

 

Il 25 ottobre 2009, in Piazza Duomo, a Milano, Don Carlo Gnocchi è stato solennemente beatificato da S. S. Benedetto XVI.

 

 

 

 

«Sogno dopo la guerra di potermi dedicare per sempre ad un’opera di Carità, quale che sia, o meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia ”carriera”. Purtroppo non so se di questa grande grazia sono degno, perché si tratta di un privilegio... don Carlo Gnocchi» (Lettera dal fronte russo, inverno 1942).

 

Fondazione Don Carlo Gnocchi ONLUS