• DICHIARAZIONE DI FEDELTÀ •

all’insegnamento immutabile della Chiesa sul matrimonio e alla sua ininterrotta disciplina

 

Viviamo un’epoca in cui numerose forze cercano di distruggere o deformare il matrimonio e la famiglia. Infatti ideologie secolariste se ne avvantaggiano aggravando cosí la crisi della famiglia, risultante di un processo di decadenza culturale e morale. Questo processo conduce i cattolici ad adattarsi alla nostra società neopagana. Il loro “conformarsi alla mentalità di questo mondo” (Rm 12, 2) è spesso favorito da una mancanza di fede - e, di conseguenza, di spirito soprannaturale per accettare il mistero della Croce di Cristo - e da un’assenza di preghiera e penitenza.

La diagnosi fatta dal Concilio Vaticano II sui mali che colpiscono l’istituzione del matrimonio e della famiglia è piú valida che mai: «La dignità di questa istituzione non brilla dappertutto con identica chiarezza poiché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di piú l’amore coniugale è molto spesso profanato dall’egoismo, dall’edonismo e da pratiche illecite contro la fecondità» (CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, n. 47).

Fino a poco tempo fa, la Chiesa Cattolica era considerata come la roccaforte del vero matrimonio e della famiglia, ma adesso si vanno diffondendo errori contro queste due divine istituzioni negli ambienti cattolici, specialmente dopo il Sinodo straordinario e quello ordinario sulla famiglia, tenutisi rispettivamente nel 2014 e nel 2015, e dopo la pubblicazione della Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia.

Davanti a questa offensiva i sottoscritti si sentono moralmente obbligati a dichiarare la loro risoluzione di rimanere fedeli agli immutabili insegnamenti sulla morale e sui sacramenti del Matrimonio, della Riconciliazione e della Eucaristia, e alla sua perenne e duratura disciplina riguardante questi sacramenti.

 

 

I. Sulla castità, il matrimonio e i diritti dei genitori

Noi ribadiamo fermamente la verità che ogni forma di convivenza more uxorio (come marito e moglie) al di fuori di un matrimonio valido contraddice gravemente la volontà di Dio espressa nei suoi comandamenti e, dunque, non può contribuire al progresso spirituale di coloro che la praticano né a quello della società.

Per sua stessa natura l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento. E cosí l’uomo e la donna... per l’alleanza coniugale «non sono piú due, ma una sola carne» (Mt 19, 6)… Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l’indissolubile unità... Per questo motivo i coniugi cristiani sono fortificati e quasi consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato (CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, n. 48).

Noi ribadiamo fermamente la verità che il matrimonio e l’atto coniugale hanno finalità sia procreativa che unitiva e che tutti e ognuno degli atti coniugali devono essere aperti al dono della vita. Inoltre noi affermiamo che questo insegnamento è definitivo e irriformabile.

È esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione. Né, a giustificazione degli atti coniugali resi intenzionalmente infecondi, si possono invocare, come valide ragioni: che bisogna scegliere quel male che sembri meno grave o il fatto che tali atti costituirebbero un tutto con gli atti fecondi che furono posti o poi seguiranno, e quindi ne condividerebbero l’unica e identica bontà morale. In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un bene piú grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali. È quindi errore pensare che un atto coniugale, reso volutamente infecondo, e perciò intrinsecamente non onesto, possa essere coonestato dall’insieme di una vita coniugale feconda (PAOLO VI, Enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, n. 14).

Noi ribadiamo fermamente la verità che la cosiddetta educazione sessuale è un diritto primario e basilare dei genitori la quale deve essere sempre effettuata sotto la loro attenta guida, a casa o in centri educativi da loro scelti e controllati.

Massimamente pericoloso è poi quel naturalismo, che ai nostri tempi invade il campo dell’educazione in argomento delicatissimo come è quello dell’onestà dei costumi. Assai diffuso è l’errore di coloro che, con pericolosa pretensione e con brutta parola, promuovono una cosí detta educazione sessuale, falsamente stimando di poter premunire i giovani contro i pericoli del senso con mezzi puramente naturali, quale una temeraria iniziazione ed istruzione preventiva per tutti indistintamente, e anche pubblicamente, e peggio ancora, con l’esporli per tempo alle occasioni, per assuefarli, come essi dicono, e quasi indurirne l’animo contro quei pericoli (PIO XI, Enciclica Divini illius Magistri, 31 dicembre 1929: Enchiridion delle Encicliche, EDB 1995, vol. 5, paragrafo 374).

Allora vi apparterrà, a voi per le vostre figlie, al papà per i vostri maschi, di sollevare con delicatezza il velo della verità, di dare una risposta prudente, giusta e cristiana alle loro domande e inquietudini (PIO XII, Allocuzione alle madri di famiglia dell’Azione cattolica italiana, 26 ottobre 1941).

Essa [l’opinione pubblica] si è trovata, su questo terreno, pervertita da una propaganda che non esitiamo a chiamare funesta, anche quando talvolta emana da sorgenti cattoliche e mira ad agire sui cattolici, e persino quando coloro che la esercitano non sembrano mettere in dubbio che, a loro volta, sono illusi dallo spirito del male... Vogliamo parlare qui di scritti, libri e articoli riguardanti l’iniziazione sessuale... I principi stessi che nella sua Enciclica Divini illius Magistri il nostro predecessore Pio XI ha cosí saggiamente illustrato riguardo l’educazione sessuale e questioni connesse, sono - triste segno dei tempi! - messi da parte con un gesto dispregiativo e un sorriso: «Pio XI, si dice, l’ha scritta venti anni fa, per il suo tempo. Poi di strada ne abbiamo fatta!»… Unitevi… senza timidezza o rispetto umano, per interrompere e fermare queste campagne (PIO XII, Allocuzione a un gruppo di padri di famiglia francesi, 18 settembre 1951).

L’educazione sessuale, diritto e dovere fondamentale dei genitori, deve attuarsi sempre sotto la loro guida sollecita, sia in casa sia nei centri educativi da essi scelti e controllati. In questo senso la Chiesa ribadisce la legge della sussidiarietà, che la scuola è tenuta ad osservare quando coopera all’educazione sessuale, collocandosi nello spirito stesso che anima i genitori. In questo contesto è del tutto irrinunciabile l’educazione alla castità, come virtú che sviluppa l’autentica maturità della persona e la rende capace di rispettare e promuovere il «significato sponsale» del corpo. Anzi, i genitori cristiani riserveranno una particolare attenzione e cura, discernendo i segni della chiamata di Dio, per l’educazione alla verginità, come forma suprema di quel dono di sé che costituisce il senso stesso della sessualità umana. Per gli stretti legami che intercorrono tra la dimensione sessuale della persona e i suoi valori etici, il compito educativo deve condurre i figli a conoscere e a stimare le norme morali come necessaria e preziosa garanzia per una responsabile crescita personale nella sessualità umana (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, n. 37).

Si raccomanda di rispettare il diritto del bambino o del giovane di ritirarsi da ogni forma di istruzione sessuale impartita fuori casa. Per tale decisione né essi né altri membri della famiglia vanno mai penalizzati o discriminati (PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia, 8 dicembre 1995, n. 120).

Nell’insegnamento della dottrina e della morale cattolica circa la sessualità, si devono tenere in conto gli effetti durevoli del peccato originale, cioè la debolezza umana e il bisogno della grazia di Dio per superare le tentazioni ed evitare il peccato (PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia, 8 dicembre 1995, n. 123).

Nessun materiale di natura erotica deve essere presentato a bambini o a giovani di qualsiasi età, individualmente o in gruppo. Questo principio della decenza deve salvaguardare la virtú della castità cristiana. Perciò, nel comunicare l’informazione sessuale nel contesto dell’educazione all’amore, l’istruzione deve essere sempre «positiva e prudente» e «chiara e delicata». Queste quattro parole, usate dalla Chiesa Cattolica, escludono ogni forma di contenuto inaccettabile dell’educazione sessuale (PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia, 8 dicembre 1995, n. 126).

Oggi i genitori devono fare attenzione ai modi in cui una educazione immorale può essere trasmessa ai loro figli attraverso diversi metodi promossi dai gruppi con posizioni e interessi contrari alla morale cristiana. Non sarebbe possibile indicare tutti i metodi inaccettabili; qui si presentano soltanto diversi modi piú diffusi che minacciano i diritti dei genitori e la vita morale dei loro figli. In primo luogo i genitori devono rifiutare l’educazione sessuale secolarizzata ed antinatalista, che mette Dio ai margini della vita e considera la nascita di un figlio come una minaccia, diffusa dai grandi organismi e dalle associazioni internazionali che promuovono l’aborto, la sterilizzazione e la contraccezione. Questi organismi vogliono imporre un falso stile di vita contro la verità della sessualità umana» (PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia, 8 dicembre 1995, nn. 135-6).

Noi ribadiamo fermamente la verità che la consacrazione definitiva di una persona a Dio attraverso una vita di perfetta castità è oggettivamente piú eccellente del matrimonio giacché costituisce una specie di matrimonio spirituale in cui l’anima sposa Cristo. La sacra virginità fu raccomandata dal nostro divino Redentore e da san Paolo come uno stato di vita complementare ma oggettivamente piú perfetto del matrimonio.

La dottrina che stabilisce l’eccellenza e la superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, come già dicemmo, annunciata dal divin Redentore e dall’Apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel concilio di Trento e sempre concordemente insegnata dai santi padri e dai dottori della chiesa. I Nostri predecessori, e Noi stessi, ogni qualvolta se ne presentava l’occasione, l’abbiamo piú e piú volte spiegata e vivamente inculcata. Tuttavia, poiché di recente vi sono stati alcuni che hanno impugnato con serio pericolo e danno dei fedeli questa dottrina tramandataci dalla chiesa, Noi, spinti dall’obbligo del Nostro ufficio, abbiamo creduto opportuno nuovamente esporla in questa enciclica, indicando gli errori, proposti spesso sotto apparenza di verità (PIO XII, Enciclica Sacra virginitas, 25 marzo 1954, n. 32).

 

 

II. Sulle convivenze, sulle unioni di persone dello stesso sesso e sul matrimonio civile dopo il divorzio

Noi ribadiamo fermamente la verità che l’unione irregolare di un uomo e di una donna conviventi, o quella di due individui dello stesso sesso, non può mai essere paragonata al matrimonio; che tali unioni non possono essere ritenute moralmente lecite e riconosciute dalla legge, e ribadiamo che è falso affermare che si tratta di forme di famiglia che possono offrire una certa stabilità.

Tale natura, affatto propria e speciale di questo contratto, lo rende totalmente diverso, non solo dagli accoppiamenti fatti per cieco istinto naturale fra gli animali, in cui non può esservi ragione o volontà deliberata, ma altresí da quegli instabili connubii umani, che sono disgiunti da qualsivoglia vero ed onesto vincolo di volontà e destituiti di qualsiasi diritto di domestica convivenza. Da qui già appare manifesto che la legittima autorità ha diritto e dovere di frenare, impedire e punire questi turpi connubii, contrari a ragione e a natura (PIO XI, Enciclica Casti connubii, 31 dicembre 1930).

La famiglia non può essere messa allo stesso livello di mere associazioni o unioni e queste non possono godere dei diritti particolari esclusivamente connessi con la protezione dell’impegno coniugale basato sul matrimonio, una stabile comunità di vita e di amore, il risultato del dono totale e fedele degli sposi, aperto alla vita (GIOVANNI PAOLO II, Discorso a un gruppo di parlamentari e politici europei, 23 ottobre 1998).

Occorre comprendere le differenze sostanziali tra matrimonio e unioni di fatto. È qui che si radica la differenza tra la famiglia d’origine matrimoniale e la comunità originata da un’unione di fatto. La comunità familiare nasce dal patto d’alleanza dei coniugi. Il matrimonio che sorge da questo patto d’amore coniugale non è una creazione del potere pubblico, bensí un’istituzione naturale e originaria che lo precede. Nelle unioni di fatto, al contrario, si mette in comune l’affetto reciproco, ma allo stesso tempo manca quel vincolo coniugale di natura pubblica e originaria che fonda la famiglia (PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA, Dichiarazione su famiglia, matrimonio e unioni di fatto, 26 luglio 2000, n. 9).

Noi ribadiamo fermamente la verità che le unioni irregolari di conviventi cattolici non sposati in chiesa, o che sono divorziati “risposati” civilmente (non sono sposati agli occhi di Dio), contraddicono radicalmente il matrimonio cristiano e non ne possono esprimere il suo bene, né parzialmente né in modo analogo, dovendo essere ritenute forme di vita peccaminose oppure occasioni permanenti di peccato grave. Per di piú, è falso affermare che possono costituire una occasione positiva giacché contengono elementi costruttivi che conducono al matrimonio poiché, anche presentando similitudini materiali, un matrimonio valido e una unione irregolare sono due realtà completamente diverse e opposte: una è secondo la volontà di Dio e l’altra contro, e quindi peccaminosa.

Molti oggi rivendicano il diritto all’unione sessuale prima del matrimonio, almeno quando una ferma volontà di sposarsi e un affetto, in qualche modo già coniugale nella psicologia dei soggetti, richiedono questo completamento, che essi stimano connaturale; ciò soprattutto quando la celebrazione del matrimonio è impedita dalle circostanze esterne, o se questa intima relazione sembra necessaria perché sia conservato l’amore. Questa opinione è in contrasto con la dottrina cristiana, secondo la quale ogni atto genitale umano deve svolgersi nel quadro del matrimonio... Col matrimonio, infatti, l’amore dei coniugi è assunto nell’amore irrevocabile che Cristo ha per la chiesa (cf. Ef 5, 25-32), mentre l’unione dei corpi nell’impudicizia contamina il tempio dello Spirito Santo, quale è divenuto il cristiano (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale Persona humana, 29 dicembre 1975, n. 7).

Può essere stabilita e compresa l’essenziale differenza esistente fra una mera unione di fatto - che pur si pretenda originata da amore - e il matrimonio, in cui l’amore si traduce in impegno non soltanto morale, ma rigorosamente giuridico. Il vincolo, che reciprocamente s’assume, sviluppa di rimando un’efficacia corroborante nei confronti dell’amore da cui nasce, favorendone il perdurare a vantaggio della comparte, della prole e della stessa società (GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Tribunale della Rota Romana, 21 gennaio 1999, n. 5).

Noi ribadiamo fermamente la verità che le unioni irregolari non possono adempiere alle richieste oggettive della Legge di Dio. Non possono essere ritenute moralmente buone né raccomandate come adempimento prudente e graduale della Legge divina, anche per coloro che sembrano non essere in condizione di comprendere, apprezzare o pienamente compiere le richieste di questa Legge. La pastorale “legge della gradualità” esige una rottura decisa con il peccato, insieme a una progressiva accettazione completa della volontà e delle esigenze di Dio.

Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti «irrimediabilmente» cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: «Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) - scrive sant’Agostino -, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero piú peccati o, conclusione ancora piú assurda, che sarebbero peccati giustificati?» [Contra Mendacium, VII, 18]. Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto «soggettivamente» onesto o difendibile come scelta (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 81).

A volte sembra proprio che si cerchi in ogni modo di presentare come «regolari» ed attraenti, conferendo loro esterne apparenze di fascino, situazioni che di fatto sono «irregolari» (GIOVANNI PAOLO II, Lettera alle famiglie Gratissimam sane, 2 febbraio 1994, n. 5).

 

 

III. Sulla legge naturale e la coscienza individuale

Noi ribadiamo fermamente la verità che, nel processo profondamente personale di prendere decisioni, la legge morale naturale non è una mera sorgente d’ispirazione soggettiva, bensí la legge eterna di Dio partecipata dalla persona umana. La coscienza non è la fonte arbitraria del bene e del male ma la consapevolezza di come un’azione deve adempiere a un requisito estrinseco all’uomo, cioè l’oggettiva e immediata intimazione di una legge che dobbiamo chiamare “naturale”.

«La legge naturale è scritta e scolpita nell’animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare»... La forza della legge risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di dare la sanzione a certi comportamenti... «La legge naturale è la stessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li inclina all’atto e al fine che loro convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore e governatore dell’universo» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 44, citando LEONE XIII, Enciclica Libertas praestantissimum e S. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, I-II, q. 91, a. 2).

Noi ribadiamo fermamente la verità che una coscienza ben formata, capace di discernere correttamente situazioni complesse, non giungerà mai alla conclusione che, date le limitazioni della persona, il suo rimanere in una situazione che oggettivamente contraddice la comprensione cristiana del matrimonio possa essere la sua migliore risposta al Vangelo. Presumere che la debolezza di una coscienza individuale sia il criterio della verità morale è inaccettabile e impossibile da incorporare nella prassi della Chiesa.

Gli obblighi fondamentali della legge morale sono basati sostanzialmente sulla natura dell’uomo e nei suoi rapporti essenziali e valgono, di conseguenza, ovunque si trovi l’uomo. Gli obblighi fondamentali della legge cristiana, per il fatto stesso che sorpassano quelli della legge naturale, si basano sull’essenza dell’ordine soprannaturale costituito dal divin Redentore. Dalle relazioni essenziali tra uomo e Dio, tra uomo e uomo, tra coniugi, tra genitori e figli, dalle relazioni essenziali della comunità nella famiglia, nella Chiesa, nello Stato, da tutto ciò risulta, tra le altre cose, che l’odio di Dio, la blasfemia, l’idolatria, la defezione dalla vera Fede, la negazione della fede, lo spergiuro, l’omicidio, la falsa testimonianza, la calunnia, l’adulterio e la fornicazione, l’abuso del matrimonio, il peccato solitario, il furto e la rapina, la sottrazione di ciò che è necessario alla vita, la defraudazione del giusto salario (cf. Gc 5, 4), l’accaparramento dei viveri di prima necessità e l’aumento ingiustificato dei prezzi, la bancarotta fraudolenta, le manovre d’ingiusta speculazione - tutto ciò è gravemente proibito dal Legislatore divino; non c’è alcun dubbio; qualunque sia la situazione individuale, non v’è altra scelta che obbedire (PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso della Federazione Cattolica Mondiale della Gioventú Femminile, 18 aprile 1952, n. 10).

Quando invece misconoscono o anche solo ignorano la legge, in maniera imputabile o no, i nostri atti feriscono la comunione delle persone, con pregiudizio di ciascuno (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 51).

I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 52).

Anche nelle situazioni piú difficili l’uomo deve osservare la norma morale per essere obbediente al santo comandamento di Dio e coerente con la propria dignità personale. Certamente l’armonia tra libertà e verità domanda, alcune volte, sacrifici non comuni e va conquistata ad alto prezzo: può comportare anche il martirio (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 102).

Noi ribadiamo fermamente la verità che non si deve guardare il sesto comandamento e l’indissolubilità del matrimonio come meri ideali da raggiungere. Anzi, questi sono precetti di Cristo Nostro Signore che ci aiutano a superare le difficoltà con la sua grazia e per mezzo della costanza.

È nella Croce salvifica di Gesú, nel dono dello Spirito Santo, nei Sacramenti che scaturiscono dal costato trafitto del Redentore (cf. Gv 19, 34), che il credente trova la grazia e la forza per osservare sempre la legge santa di Dio, anche in mezzo alle difficoltà piú gravi. Come dice sant’Andrea di Creta, la legge stessa «fu vivificata dalla grazia e fu posta al suo servizio in una composizione armonica e feconda. Ognuna delle due conservò le sue caratteristiche senza alterazioni e confusioni. Tuttavia la legge, che prima costituiva un onere gravoso e una tirannia, diventò per opera di Dio peso leggero e fonte di libertà» [Oratio I]. Solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le «concrete» possibilità dell’uomo. «Sarebbe un errore gravissimo concludere... che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un “bilanciamento dei vari beni in questione”. Ma quali sono le “concrete possibilità dell’uomo”? E di quale uomo si parla? Dell’uomo dominato dalla concupiscenza o dell’uomo redento da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della concupiscenza... Il comandamento di Dio è certamente proporzionato alle capacità dell’uomo: ma alle capacità dell’uomo a cui è donato lo Spirito Santo; dell’uomo che, se caduto nel peccato, può sempre ottenere il perdono e godere della presenza dello Spirito» [Discorso ai partecipanti a un corso sulla procreazione responsabile, 1 marzo, 1984]. In questo contesto si apre il giusto spazio alla misericordia di Dio per il peccato dell’uomo che si converte e alla comprensione per l’umana debolezza. Questa comprensione non significa mai compromettere e falsificare la misura del bene e del male per adattarla alle circostanze. Mentre è umano che l’uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda misericordia per la propria colpa è invece inaccettabile l’atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene... Un simile atteggiamento corrompe la moralità dell’intera società, perché insegna a dubitare dell’oggettività della legge morale in generale e a rifiutare l’assolutezza dei divieti morali circa determinati atti umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, nn. 103-104).

Noi ribadiamo fermamente la verità che la coscienza che ammette che una situazione determinata non corrisponde oggettivamente alla richiesta evangelica sul matrimonio, non può onestamente concludere che il rimanere in una tale situazione peccaminosa sia la piú generosa risposta che si possa dare a Dio, né che questo sia ciò che Dio le sta chiedendo in quel momento, giacché entrambe le conclusioni negherebbero l’onnipotenza della grazia per attrarre i peccatori alla pienezza della vita cristiana.

Nessuno, poi, per quanto giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti, nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e proibita dai Padri sotto pena di scomunica, esser cioè impossibile per l’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio, infatti, non comanda l’impossibile; ma quando comanda ti ammonisce di fare quello che puoi e di chiedere quello che non puoi, ed aiuta perché tu possa [AGOSTINO, De natura et gratia, 43, 50]: i suoi comandamenti non sono gravosi [Gv 5, 3], il suo giogo è soave e il peso leggero [Mt 11, 30]. Quelli infatti che sono figli di Dio, amano Cristo e quelli che lo amano, come dice lui stesso, osservano le sue parole [Gv 14, 23], cosa che con l’aiuto di Dio certamente possono fare... Dio infatti non abbandona con la sua grazia quelli che una volta ha giustificato, a meno che prima non sia abbandonato da essi [AGOSTINO, op. cit., 26, 29]. Nessuno quindi deve cullarsi nella sola fede, credendo di essere stato costituito erede e di conseguire l’eredità per la sola fede (CONCILIO DI TRENTO, Decreto sulla giustificazione, cap. 11).

Vi possono essere situazioni in cui l’uomo, e specialmente il cristiano, non può ignorare che egli deve sacrificare tutto, persino la sua vita, per salvare la propria anima, tutti i martiri ce lo rammentano, e sono numerosissimi anche ai nostri tempi. Ma allora la madre dei Maccabei ed i suoi figli, le sante Perpetua e Felicita nonostante i loro neonati, Maria Goretti e migliaia d’altri, uomini e donne, che la Chiesa venera avrebbero allora subito la loro morte sanguinosa, di fronte alla «situazione», inutilmente o addirittura a torto? No certo; ed essi sono, col loro sangue, testimoni piú espressivi della verità contro la «nuova morale» (PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso della Federazione Cattolica Mondiale della Gioventú Femminile, 18 aprile 1952, n. 11).

Le tentazioni si possono vincere, i peccati si possono evitare, perché con i comandamenti il Signore ci dona la possibilità di osservarli: «I suoi occhi su coloro che lo temono, egli conosce ogni azione degli uomini. Egli non ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di peccare» (Sir 15, 19-20). L’osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile. È questo un insegnamento costante della tradizione della Chiesa, cosí espresso dal Concilio di Trento (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 102).

Noi ribadiamo fermamente la verità che, nonostante la diversità di situazioni, il discernimento personale e pastorale non può mai condurre i divorziati “risposati” civilmente a concludere, in buona coscienza, che le loro unioni adulterine possono essere moralmente giustificate per la “fedeltà” al nuovo partner; che sia impossibile ritirarsi da una unione adulterina, oppure che, cosí facendo si espongano a nuovi peccati mancando di fedeltà cristiana o naturale nei confronti del convivente adulterino. Non possiamo parlare di fedeltà in una unione illecita che viola il comandamento divino e il legame indissolubile del matrimonio. Il concetto di lealtà fra adulteri nel loro mutuo peccato è blasfemo.

Noi opponiamo all’«etica di situazione» tre considerazioni o massime. La prima: Noi concediamo che Dio vuol principalmente e sempre la retta intenzione: ma questa da sola non è sufficiente. Un’altra: non è permesso fare il male perché ne risulti un bene (cf. Rm 3, 8); tuttavia quest’etica agisce - forse senza rendersene conto - secondo il principio che il fine santifica i mezzi (PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso della Federazione Cattolica Mondiale della Gioventú Femminile, 18 aprile 1952, n. 11).

Alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale piú concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere cosí di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette «pastorali» contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica «creatrice», secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 56).

Noi ribadiamo fermamente la verità che i divorziati che sono “risposati” civilmente e che, per ragioni molto serie, come la crescita dei figli, non possono soddisfare al grave dovere della separazione, sono moralmente obbligati a vivere “come fratello e sorella” e a evitare di dare scandalo. In particolare, questo significa l’esclusione di quelle manifestazioni di intimità proprie alle coppie maritate, giacché sarebbero di per sé peccaminose e, inoltre darebbero scandalo alla propria prole che potrebbe concludere che sono legittimamente sposati, o che il matrimonio cristiano non è indissolubile, oppure che intrattenere rapporti sessuali con una persona che non è il legittimo coniuge non è peccato. Data la delicatezza della loro situazione, devono stare particolarmente attenti alle occasioni di peccato.

La riconciliazione nel sacramento della penitenza - che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico - può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non piú in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - non possono soddisfare l’obbligo della separazione, «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, n. 84).

 

 

IV. Sul discernimento, la responsabilità, lo stato di grazia e lo stato di peccato

Noi ribadiamo fermamente la verità che quei divorziati “risposati” civilmente che scelgono quella situazione con piena conoscenza e consentimento della volontà non sono membra vive della Chiesa giacché si trovano in uno stato di peccato grave che impedisce loro il possesso e l’aumento della carità. Inoltre sottolineiamo che il papa san Pio V, nella sua bolla Ex omnibus afflictionibus contro gli errori di Michael du Bay, detto Baio, condannò la seguente opinione morale: “L’uomo che vive in peccato mortale o sotto la pena di dannazione eterna può avere la vera carità” (DENZINGER, †1070/*1970).

Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l’uomo deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un disordine perpetrato dall’uomo contro questo principio vitale. E quando, «per mezzo del peccato, l’anima commette un disordine che va fino alla separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale». Per questa ragione, il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è appunto conseguenza del peccato mortale (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, n. 17).

Il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto, liberamente stipulato dagli sposi, di vivere insieme fino alla morte. Il divorzio offende l’Alleanza della salvezza, di cui il Matrimonio sacramentale è segno. Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente: «Se il marito, dopo essersi separato dalla propria moglie, si unisce ad un’altra donna, è lui stesso adultero, perché fa commettere un adulterio a tale donna; e la donna che abita con lui è adultera, perché ha attirato a sé il marito di un’altra» [BASILIO DI CESAREA, Moralia, regola 73] (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2384).

Noi ribadiamo fermamente la verità che non c’è una via di mezzo tra l’essere in grazia di Dio o l’esserne privo a causa del peccato mortale. La via della grazia e della crescita spirituale per qualcuno che vive in uno stato oggettivo di peccato consiste nell’abbandonare tale situazione e tornare sulla strada della santificazione che dà gloria a Dio. Nessun “approccio pastorale” può giustificare o incoraggiare le persone a rimanere nello stato di peccato, che si oppone alla legge divina.

Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, n. 17).

«Si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di “opzione fondamentale” - come oggi si suol dire - contro Dio», concepito sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo sia come implicito e non riflesso rifiuto dell’amore. «Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato... L’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica... intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 70).

Noi ribadiamo fermamente la verità che, dato che Dio è onnisciente, la legge naturale e quella rivelata provvedono a tutte le situazioni particolari, specialmente quando proibiscono azioni specifiche in tutte le circostanze, additandole come “intrinsecamente cattive” (intrinsece malum).

Ci si chiederà come la legge morale, che è universale, possa esser sufficiente e persino essere obbligatoria in un determinato caso singolare che nella situazione concreta sua propria è sempre unico e «di una sola volta»; lo può e lo fa perché, precisamente a causa della sua universalità, la legge morale comprende necessariamente ed «intenzionalmente» tutti i casi particolari in cui si verificano i suoi concetti; ed in numerosissimi casi lo fa con una logica talmente concludente che persino la coscienza del singolo fedele vede immediatamente e con piena certezza la decisione da prendere (PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso della Federazione Cattolica Mondiale della Gioventú Femminile, 18 aprile 1952, n. 9).

Esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, n. 17).

La ragione attesta che si danno degli oggetti dell’atto umano che si configurano come «non-ordinabili» a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Insegnando l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L’apostolo Paolo afferma in modo categorico: «Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio» (1Cor 6, 9-10) (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, nn. 80-81).

Noi ribadiamo fermamente la verità che la complessità delle situazioni e i vari gradi di responsabilità dei casi (dovuti a fattori che possono diminuire la capacità di prendere una decisione) non permettono ai pastori di concludere che coloro che si trovano in situazioni irregolari non sarebbero in un oggettivo stato di manifesto peccato grave, e di presumere nel foro esterno che coloro che si trovano in tali unioni e che non ignorano le regole del matrimonio non si sono privati da se stessi della grazia santificante.

Quest’uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli altri - il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano - sia pure negativamente e disastrosamente - anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c’è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtú o la responsabilità della colpa (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, n. 16).

È sempre possibile che l’uomo, in seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia impedito di portare a termine determinate buone azioni; mai però può essere impedito di non fare determinate azioni, soprattutto se egli è disposto a morire piuttosto che a fare il male (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 52).

Noi ribadiamo fermamente la verità che, posto che l’uomo è dotato di libero arbitrio, ogni atto morale consapevole e volontario che effettua gli va imputato in quanto autore, e che, non essendoci prova contraria, si deve supporre la sua imputabilità. La imputabilità esteriore non va confusa con lo stato interno della coscienza. Nonostante il principio “de internis neque Ecclesia iudicat” (la Chiesa non giudica ciò che è interno: solo Dio può farlo), la Chiesa può tuttavia giudicare atti che sono direttamente contrari alla Legge di Dio.

Quantunque sia necessario credere che i peccati non vengano rimessi, né siano stati mai rimessi, se non gratuitamente dalla divina misericordia a cagione del Cristo: deve dirsi, tuttavia, che a nessuno che ostenti fiducia e certezza della remissione dei propri peccati e che si abbandoni in essa soltanto, vengono rimessi o sono stati rimessi i peccati, mentre fra gli eretici e gli scismatici potrebbe esservi, anzi vi è, in questo nostro tempo, e viene predicata con grande accanimento contro la Chiesa cattolica questa fiducia vana e lontana da ogni vera pietà. Ma neppure si può affermare che sia necessario che coloro che sono stati realmente giustificati, debbano credere assolutamente e senza alcuna esitazione, dentro di sé, di essere giustificati (CONCILIO DI TRENTO, Decreto sulla giustificazione, cap. 9).

Posta la violazione esterna, l’imputabilità si presume, salvo che non appaia altrimenti (Codice di Diritto Canonico, can. 1321, §3).

Ogni atto voluto direttamente è da imputarsi a chi lo compie (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1736).

Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza. Nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto Canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti «ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» [can. 915; cf. Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, can. 712] (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile 2003, n. 37).

 

 

V. Sui sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia

Noi ribadiamo fermamente la verità che, trattando con i penitenti, i confessori devono aiutarli a esaminare se stessi sui doveri specifici dei comandamenti, assistendoli per raggiungere un pentimento sufficiente cosí che si accusino pienamente dei peccati gravi, cosí come devono consigliarli di abbracciare la via della santità. In questo modo il confessore è tenuto ad ammonire i penitenti nei confronti di serie e oggettive trasgressioni della Legge di Dio, assicurandosi che essi desiderino veramente l’assoluzione e il perdono di Dio, e siano risoluti a riesaminare e correggere la loro condotta. Anche quando le ricadute frequenti non siano di per sé motivo per negare l’assoluzione, questa non può essere data senza un sufficiente pentimento o il fermo proposito di evitare il peccato dopo il sacramento.

La verità, che viene dal Verbo e deve portarci a Lui, spiega perché la confessione sacramentale debba derivare ed essere accompagnata non da un mero impulso psicologico, quasi che il sacramento sia un surrogato di terapie appunto psicologiche, ma dal dolore fondato su motivi soprannaturali, perché il peccato viola la carità verso Dio Sommo Bene, ha causato le sofferenze del Redentore e procura a noi la perdita dei beni eterni... purtroppo oggi non pochi fedeli accostandosi al sacramento della penitenza non fanno l’accusa completa dei peccati mortali nel senso ora ricordato del Concilio Tridentino e, talvolta, reagiscono al sacerdote confessore, che doverosamente interroga in ordine alla necessaria completezza, quasi che egli si permettesse una indebita intrusione nel sacrario della coscienza. Mi auguro e prego affinché questi fedeli poco illuminati restino convinti, anche in forza di questo presente insegnamento, che la norma per cui si esige la completezza specifica e numerica, per quanto la memoria onestamente interrogata consente di conoscere, non è un peso imposto ad essi arbitrariamente, ma un mezzo di liberazione e di serenità. È inoltre evidente di per sé che l’accusa dei peccati deve includere il proponimento serio di non commetterne piú nel futuro. Se questa disposizione dell’anima mancasse, in realtà non vi sarebbe pentimento: questo, infatti, verte sul male morale come tale, e dunque non prendere posizione contraria rispetto ad un male morale possibile sarebbe non detestare il male, non avere pentimento. Ma come questo deve derivare innanzi tutto dal dolore di avere offeso Dio, cosí il proposito di non peccare deve fondarsi sulla grazia divina, che il Signore non lascia mai mancare a chi fa ciò che gli è possibile per agire onestamente... Conviene peraltro ricordare che altro è l’esistenza del sincero proponimento, altro il giudizio dell’intelligenza circa il futuro: è infatti possibile che, pur nella lealtà del proposito di non piú peccare, l’esperienza del passato e la coscienza dell’attuale debolezza destino il timore di nuove cadute; ma ciò non pregiudica l’autenticità del proposito, quando a quel timore sia unita la volontà, suffragata dalla preghiera, di fare ciò che è possibile per evitare la colpa (GIOVANNI PAOLO II, Lettera alla Penitenzieria Apostolica, 22 marzo 1996, nn. 3-5).

Noi ribadiamo fermamente la verità che i divorziati “risposati” civilmente e che non si sono separati, bensí rimangono nel loro stato di adulterio, non possono mai essere ritenuti dai confessori o altri pastori di anime in stato oggettivo di grazia, capaci di crescere nella vita della grazia e della carità e in condizione di ricevere l’assoluzione nel sacramento della Penitenza, o di essere ammessi alla Sacra Eucaristia. Ciò a meno che non esprimano contrizione per il loro stato di vita e fermamente risolvano di abbandonarlo, anche quando soggettivamente questi divorziati possano non sentirsi colpevoli per la loro situazione oggettivamente peccaminosa, o non completamente colpevoli, a causa di fattori condizionanti o mitigatori.

Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa... Basandosi su questi due principi complementari (di compassione e di verità), la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste. Circa questa materia, che affligge profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere dire parole chiare nell’esortazione apostolica Familiaris consortio, per quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o comunque di cristiani che convivono irregolarmente (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, 2 dicembre 1984, n. 34).

Va riprovato qualsiasi uso che limiti la confessione ad un’accusa generica o soltanto di uno o piú peccati ritenuti piú significativi (GIOVANNI PAOLO II, Motu Proprio Misericordia Dei, 7 aprile 2002, n. 3).

È chiaro che non possono ricevere validamente l’assoluzione i penitenti che vivono in stato abituale di peccato grave e non intendono cambiare la loro situazione (GIOVANNI PAOLO II, Motu Proprio Misericordia Dei, 7 aprile 2002, n.7 c).

Noi ribadiamo fermamente la verità che, nei confronti dei divorziati “risposati” civilmente e che vivono apertamente more uxorio (come marito e moglie), nessun responsabile discernimento personale e pastorale può affermare che sono permesse l’assoluzione sacramentale o l’ammissione all’Eucaristia, sotto la pretesa che a causa di una diminuita responsabilità non esiste una grave mancanza. La ragione di questo è che la loro eventuale mancanza di colpevolezza formale non può essere materia di dominio pubblico, mentre invece la forma esterna del loro stato di vita contraddice il carattere indissolubile del matrimonio cristiano e dell’unione di amore fra Cristo e la sua Chiesa, la quale è significata ed attuata nella Sacra Eucaristia.

La Chiesa ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio (GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981, n. 84).

Negli ultimi anni in varie regioni sono state proposte diverse soluzioni pastorali secondo cui certamente non sarebbe possibile un’ammissione generale dei divorziati risposati alla Comunione eucaristica, ma essi potrebbero accedervi in determinati casi, quando secondo il giudizio della loro coscienza si ritenessero a ciò autorizzati. Cosí, ad esempio, quando fossero stati abbandonati del tutto ingiustamente, sebbene si fossero sinceramente sforzati di salvare il precedente matrimonio, ovvero quando fossero convinti della nullità del precedente matrimonio, pur non potendola dimostrare nel foro esterno, oppure quando avessero già trascorso un lungo cammino di riflessione e di penitenza, o anche quando per motivi moralmente validi non potessero soddisfare l’obbligo della separazione. Da alcune parti è stato anche proposto che, per esaminare oggettivamente la loro situazione effettiva, i divorziati risposati dovrebbero intessere un colloquio con un sacerdote prudente ed esperto. Questo sacerdote però sarebbe tenuto a rispettare la loro eventuale decisione di coscienza ad accedere all’Eucaristia, senza che ciò implichi una autorizzazione ufficiale. In questi e simili casi si tratterebbe di una soluzione pastorale tollerante e benevola per poter rendere giustizia alle diverse situazioni dei divorziati risposati. Anche se è noto che soluzioni pastorali analoghe furono proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrarono in qualche misura anche nella prassi, tuttavia esse non ottennero mai il consenso dei Padri e in nessun modo vennero a costituire la dottrina comune della Chiesa né a determinarne la disciplina.... Fedele alla parola di Gesú Cristo, la Chiesa afferma di non poter riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il precedente matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994, nn. 3-4).

Ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse piú meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende piú necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli (PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Dichiarazione circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati, 24 giugno 2000, n. 1).

Noi ribadiamo fermamente la verità che avere in coscienza una certezza soggettiva sulla invalidità di un matrimonio previo da parte dei divorziati “risposati” civilmente (nonostante la Chiesa ancora ritenga il matrimonio previo valido) non è mai sufficiente, per se stessa, per scusare qualcuno del peccato materiale di adulterio, o di permettere di ignorare la norma canonica e le conseguenze sacramentali che comporta il vivere come peccatore pubblico.

L’errata convinzione di poter accedere alla Comunione eucaristica da parte di un divorziato risposato, presuppone normalmente che alla coscienza personale si attribuisca il potere di decidere in ultima analisi, sulla base della propria convinzione, dell’esistenza o meno del precedente matrimonio e del valore della nuova unione [cf. Enciclica Veritatis splendor, 55]. Ma una tale attribuzione è inammissibile [cf. Codice di Diritto Canonico, can. 1085 § 2]. Il matrimonio infatti, in quanto immagine dell’unione sponsale tra Cristo e la sua Chiesa, e nucleo di base e fattore importante nella vita della società civile, è essenzialmente una realtà pubblica.... Pertanto il giudizio della coscienza sulla propria situazione matrimoniale non riguarda solo un rapporto immediato tra l’uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza. Non riconoscere questo essenziale aspetto significherebbe negare di fatto che il matrimonio esiste come realtà della Chiesa, vale a dire, come sacramento (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994, nn. 7-8).

Noi ribadiamo fermamente la verità che «il Battesimo e la Penitenza sono come medicine purgative, somministrate per togliere la febbre del peccato, mentre questo sacramento [la Sacra Eucaristia] è una medicina somministrata per rafforzare e non deve essere dato se non a quelli che sono liberi dal peccato” (TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, III, q. 80, a. 4, ad 2). Coloro che ricevono la Sacra Eucaristia stanno davvero partecipando al Corpo e Sangue di Cristo e devono trovarsi nello stato di grazia. I divorziati “risposati” civilmente che, pertanto, conducono pubblicamente uno stile di vita peccaminoso, rischiano di commettere un sacrilegio ricevendo la Sacra Comunione. Per loro la Sacra Comunione non sarebbe una medicina bensí un veleno spirituale. Se un celebrante approva la loro indegna Comunione vuol dire o che non crede nella presenza reale di Cristo o nella indissolubilità del matrimonio oppure nella peccaminosità di vivere more uxorio (come marito e moglie) fuori dal matrimonio valido.

Si deve ricordare che l’Eucaristia non è ordinata al perdono dei peccati, il che corrisponde al Sacramento della Penitenza. L’Eucaristia è propriamente il sacramento di coloro che sono in piena comunione con la Chiesa (CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Circolare sulla Penitenza, 20 marzo 2000, n. 9).

La proibizione [di dare la Comunione ai pubblici peccatori] fatta nel citato canone [can. 915], per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa. Il testo scritturistico cui si rifà sempre la tradizione ecclesiale è quello di San Paolo: «Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1Cor 11, 27-29)... Qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante. Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cf. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti. La formula «e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» è chiara e va compresa in un modo che non deformi il suo senso, rendendo la norma inapplicabile. Le tre condizioni richieste sono:

a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare;

b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc...) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale;

c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale.

Non si trovano invece in situazione di peccato grave abituale i fedeli divorziati risposati che, non potendo per seri motivi - quali, ad esempio, l’educazione dei figli - «soddisfare l’obbligo della separazione, assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Familiaris consortio, n. 84), e che sulla base di tale proposito hanno ricevuto il sacramento della Penitenza. Poiché il fatto che tali fedeli non vivono more uxorio è di per sé occulto, mentre la loro condizione di divorziati risposati è di per sé manifesta, essi potranno accedere alla Comunione eucaristica solo remoto scandalo.... Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime.... Tenuto conto della natura della succitata norma (cf. n. 1), nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano (PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Dichiarazione circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati, 24 giugno 2000, nn. 1-4).

Noi ribadiamo fermamente la verità che, secondo la logica del Vangelo, le persone che muoiono in stato di peccato mortale, senza essersi riconciliate con Dio, sono dannate all’inferno per sempre. Nel Vangelo Gesú parla spesso del pericolo della dannazione eterna.

Se [i fedeli cattolici] non vi corrispondono [alla grazia] col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno piú severamente giudicati (CONCILIO VATICANO II, Lumen Gentium, 21 novembre 1964, n. 14).

Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia. Se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l’esclusione dal regno di Cristo e la morte eterna dell’inferno; infatti la nostra libertà ha il potere di fare scelte definitive, irreversibili. Tuttavia, anche se possiamo giudicare che un atto è in sé una colpa grave, dobbiamo però lasciare il giudizio sulle persone alla giustizia e alla misericordia di Dio (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1861).

 

 

VI. Sull’atteggiamento materno e pastorale della Chiesa

Noi ribadiamo fermamente la verità che l’insegnamento chiaro della verità è una eminente opera di misericordia e carità, perché il primo compito di salvezza degli Apostoli e dei suoi successori è obbedire al comandamento solenne del Salvatore: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).

La dottrina cattolica ci insegna che il primo dovere della carità non consiste nella tolleranza delle convinzioni erronee, per quanto sincere esse siano, né nella indifferenza teorica o pratica per l’errore o per il vizio in cui vediamo immersi i nostri fratelli, ma nello zelo per il loro miglioramento intellettuale e morale, non meno che per il loro benessere materiale... Ogni altro amore è illusione o sentimento sterile e passeggero (PIO X, Lettera apostolica Notre charge apostolique, 25 agosto 1910, n. 24).

La Chiesa [è] sempre eguale e fedele a se stessa, quale Cristo la volle e la autentica tradizione la perfezionò (PAOLO VI, Omelia del 28 ottobre 1965).

Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il Redentore stesso ha dato l’esempio nel trattare con gli uomini. Venuto non per giudicare, ma per salvare, egli fu certo intransigente con il male, ma paziente e misericordioso verso i peccatori (PAOLO VI, Enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, n. 29).

La dottrina della Chiesa e in particolare la sua fermezza nel difendere la validità universale e permanente dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi è giudicata non poche volte come il segno di un’intransigenza intollerabile, soprattutto nelle situazioni enormemente complesse e conflittuali della vita morale dell’uomo e della società d’oggi: un’intransigenza che contrasterebbe col senso materno della Chiesa. Questa, si dice, manca di comprensione e di compassione. Ma, in realtà, la maternità della Chiesa non può mai essere separata dalla sua missione di insegnamento, che essa deve compiere sempre come Sposa fedele di Cristo, la Verità in persona: «Come Maestra, essa non si stanca di proclamare la norma morale... Di tale norma la Chiesa non è affatto né l’autrice né l’arbitra. In obbedienza alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le esigenze di radicalità e di perfezione» (GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 95)

Noi ribadiamo fermamente la verità che l’impossibilità di dare l’assoluzione e la Sacra Comunione ai cattolici che vivono manifestamente in un oggettivo stato di peccato grave - per esempio quelli che convivono, o i divorziati “risposati” civilmente - promana dalla cura materna della Chiesa, visto che Essa non è la proprietaria dei sacramenti bensí “fedele amministratrice dei misteri di Dio” (cf. 1Cor 4, 1).

Come maestri e custodi della verità salvifica dell’Eucaristia, dobbiamo, cari e venerati fratelli nell’episcopato, custodire sempre e dappertutto questo significato e questa dimensione dell’incontro sacramentale e dell’intimità con Cristo... Dobbiamo però vigilare sempre, affinché questo grande incontro con Cristo nell’Eucaristia non divenga per noi un fatto consuetudinario e affinché non lo riceviamo indegnamente, cioè in stato di peccato mortale... Non possiamo, neanche per un attimo, dimenticare che l’Eucaristia è un bene peculiare di tutta la Chiesa. È il dono piú grande che, nell’ordine della grazia e del sacramento, il divino sposo abbia offerto e offra incessantemente alla sua sposa. E proprio perché si tratta di un tale dono, dobbiamo tutti, in spirito di profonda fede, lasciarci guidare dal senso di una responsabilità veramente cristiana... L’Eucaristia è un bene comune di tutta la Chiesa come sacramento della sua unità. E perciò la Chiesa ha il rigoroso dovere di precisare tutto ciò che concerne la partecipazione e la celebrazione di essa (GIOVANNI PAOLO II, Lettera Dominicae Cenae, 24 febbraio 1980, nn. 4-12).

Ciò non significa che la Chiesa non abbia a cuore la situazione di questi fedeli, che, del resto, non sono affatto esclusi dalla comunione ecclesiale. Essa si preoccupa di accompagnarli pastoralmente e di invitarli a partecipare alla vita ecclesiale nella misura in cui ciò è compatibile con le disposizioni del diritto divino, sulle quali la Chiesa non possiede alcun potere di dispensa (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994, n. 6).

Nell’azione pastorale si dovrà compiere ogni sforzo perché venga compreso bene che non si tratta di nessuna discriminazione, ma soltanto di fedeltà assoluta alla volontà di Cristo che ci ha ridato e nuovamente affidato l’indissolubilità del matrimonio come dono del Creatore. Sarà necessario che i pastori e la comunità dei fedeli soffrano e amino insieme con le persone interessate, perché possano riconoscere anche nel loro carico il giogo dolce e il carico leggero di Gesú [cf. Mt 11, 30]. Il loro carico non è dolce e leggero in quanto piccolo o insignificante, ma diventa leggero perché il Signore - e insieme con lui tutta la Chiesa - lo condivide. È compito dell’azione pastorale che deve essere svolta con totale dedizione, offrire questo aiuto fondato nella verità e insieme nell’amore (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994, n. 10).

La celebrazione del sacramento della Penitenza ha avuto nel corso dei secoli uno sviluppo che ha conosciuto diverse forme espressive, sempre, però, conservando la medesima struttura fondamentale che comprende necessariamente, oltre all’intervento del ministro - soltanto un Vescovo o un presbitero, che giudica e assolve, cura e guarisce nel nome di Cristo - gli atti del penitente: la contrizione, la confessione e la soddisfazione (GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Misericordia Dei, 7 aprile 2002, proemio).

 

 

VII. Sulla validità universale del Magistero costante della Chiesa

Noi ribadiamo fermamente la verità che le questioni dottrinali, morali e pastorali riguardanti i sacramenti dell’Eucaristia, della Penitenza e del Matrimonio devono essere risolte con gli interventi del Magistero e che esse, per la loro propria natura, precludono le interpretazioni contraddittorie di quel Magistero o il trarre conseguenze pratiche diverse, supponendo che ogni nazione o regione possa cercare soluzioni accomodate alla propria cultura, sensibilità e bisogni locali.

II fondamento dunque delle nuove opinioni accennate a questo si può ridurre: perché coloro che dissentono possano piú facilmente essere condotti alla dottrina cattolica, la Chiesa deve avvicinarsi maggiormente alla civiltà del mondo progredito, e, allentata l’antica severità, deve accondiscendere alle recenti teorie e alle esigenze dei popoli. E molti pensano che ciò debba intendersi, non solo della disciplina del vivere, ma anche delle dottrine che costituiscono il “deposito della fede”. Pretendono perciò che sia opportuno, per accattivarsi gli animi dei dissidenti, che alcuni capitoli di dottrina, per cosí dire di minore importanza, vengano messi da parte o siano attenuati, cosí da non mantenere piú il medesimo senso che la Chiesa ha tenuto costantemente per fermo. Ora, diletto figlio Nostro, per dimostrare con quale riprovevole intenzione ciò sia stato immaginato, non c’è bisogno di un lungo discorso; basta non dimenticare la natura e l’origine della dottrina, che la Chiesa insegna. Su questo punto cosí afferma il Concilio Vaticano (Costituzione Dei Filius, c. 4): «La dottrina della fede, che Dio rivelò, non fu, quasi un’invenzione di filosofi, proposta da perfezionare alla umana ragione, ma come un deposito divino fu data alla sposa di Cristo da custodire fedelmente e dichiarare infallibilmente… Quel senso dei sacri dogmi si deve sempre ritenere, che una volta dichiarò la santa madre chiesa, né mai da tal senso si dovrà recedere sotto colore e nome di piú elevata intelligenza» (LEONE XIII, Lettera apostolica Testem benevolentiae, 22 gennaio 1899).

Ricordatevi tuttavia che nel nostro apostolico ufficio dobbiamo rifiutare e redarguire i placiti della moderna filosofia e della civile prudenza, coi quali oggi il corso delle umane cose è spinto colà, dove non permettono le prescrizioni della Legge Eterna. Ora cosí facendo non tratteniamo l’uman genere dal progresso, si bene impediamo ch’esso precipiti alla rovina (PIO X, Discorso al Concistoro, 9 novembre 1903).

Sapete anche che è di somma importanza, per la pace delle coscienze e per l’unità del popolo cristiano, che, nel campo della morale come in quello del dogma, tutti si attengano al magistero della Chiesa e parlino uno stesso linguaggio (PAOLO VI, Enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, n. 28).

La Chiesa, «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3, 15), «ha ricevuto dagli Apostoli il solenne comandamento di Cristo di annunziare la verità della salvezza» [Lumen Gentium, 17]. «È compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e cosí pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime» [can.747] (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2032).

Spetta al Magistero universale della Chiesa, in fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione, insegnare ed interpretare autenticamente il «depositum fidei». Di fronte alle nuove proposte pastorali sopra menzionate questa Congregazione ritiene pertanto doveroso richiamare la dottrina e la disciplina della Chiesa in materia (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 settembre 1994, n. 4).

 

 

VIII. La voce sempre giovane dei Padri della Chiesa

Accade che, mentre [i pastori delle anime] godono di essere incalzati da inquietudini mondane, ignorano i beni interiori che avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui sicuramente anche la vita dei sudditi intorpidisce... Infatti quando la testa è malata anche le membra perdono vigore, e nella ricerca del nemico non serve che l’esercito segua con prestezza, se la stessa guida del cammino perde la strada. Nessuna esortazione innalza gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo efficace contro le loro colpe... I sudditi non possono cogliere la luce della verità perché, quando interessi terreni occupano i sensi del Pastore, la polvere spinta dal vento della tentazione acceca gli occhi della Chiesa. (GREGORIO MAGNO, Regula pastoralis, II, 7).

Quando per degna causa e secondo la legge della Chiesa c’è sufficiente ragione per affrontare la penitenza, essa tuttavia viene frequentemente evitata a causa di infermità, cioè per la vergogna e la paura di perdere il piacere, giacché la buona reputazione degli uomini dà piú piacere che la giustizia che porta un uomo a umiliarsi in penitenza. Perciò la misericordia di Dio è necessaria non solo quando un uomo si pente, ma anche per portarlo a pentirsi (AGOSTINO, Enchiridion de fide, spe et caritate, 82).

Il pentimento è il rinnovo del battesimo. Il pentimento è un contratto con Dio per una seconda vita. Il pentimento è un acquirente della umiltà. Il pentimento è condanna della spensierata auto-indulgenza. Il pentimento è figlio della speranza ed è rinuncia alla disperazione. Il pentimento è un galeotto graziato. Il pentimento è la riconciliazione col Signore mediante la pratica delle buone opere che si oppongono ai peccati. Il pentimento è la purificazione della coscienza. Il pentimento risolleva i caduti, bussando alla porta del Cielo, che si apre con l’umiltà (GIOVANNI CLIMACO, Scala Paradisi, 25).

Conclusione Mentre il nostro mondo neopagano muove un attacco generale contro la divina istituzione del matrimonio e le piaghe del divorzio e della depravazione sessuale si diffondono ovunque, anche dentro la vita della Chiesa, noi, i sottoscritti vescovi, sacerdoti e fedeli cattolici riteniamo essere nostro dovere e nostro privilegio dichiarare, a una sola voce, la nostra fedeltà agli immutabili insegnamenti della Chiesa sul matrimonio e alla sua ininterrotta disciplina, come sono stati ricevuti dagli Apostoli. Infatti, solo la chiarezza della verità farà la gente libera (cf. Gv 8, 32) e renderà possibile che essa trovi la vera gioia dell’amore, vivendo una vita secondo la sapienza e la volontà salvifica di Dio, in altre parole, evitando il peccato, come fu maternamente richiesto dalla Madonna a Fatima nel 1917.

 

29 agosto 2016, festa della passione di san Giovanni Battista, martirizzato per avere sostenuto la verità del matrimonio.