Quando Charles Darwin a metà del secolo scorso sviluppò l’idea dell’evoluzione di tutto il vivente e con essa mise radicalmente in discussione la tradizionale rappresentazione della costanza delle specie create da Dio, scatenò una rivoluzione dell’immagine del mondo non inferiore a quella che per noi si lega al nome di Copernico.
Nonostante la svolta copernicana, che detronizzò la Terra e allargò le dimensioni dell’universo sempre piú verso l’infinito, rimase valido nel complesso il quadro consolidato della vecchia immagine del mondo, che si manteneva inalterato a partire dalla limitazione temporale ai seimila anni calcolati in base alla cronologia biblica.
Un paio di accenni possono illustrarci la naturalezza oggi a malapena ancora immaginabile con cui allora ci si atteneva all’angusto quadro temporale dell’immagine biblica del mondo. Quando Jacob Grimm pubblicò la sua “Storia della lingua tedesca” nel 1848, che l’età dell’umanità fosse di seimila anni era per lui una premessa indiscussa, che non aveva bisogno di alcuna riflessione. La stessa cosa esprime con grande naturalezza W. Wachsmuth nella sua apprezzata “Storia generale della cultura”, comparsa nel 1850, che non si differenzia in nulla dalla storia generale del mondo e dei popoli che Christian Daniel Beck aveva pubblicato in seconda edizione nel 1813. E si potrebbero fare facilmente molti altri esempi.
Sarebbero sufficienti a dimostrare in quale angusto orizzonte si muoveva da centinaia d’anni la nostra immagine della storia e del mondo, quanto restasse salda la tradizione presa dalla Bibbia di un pensiero interamente disegnato sulla base della storia della salvezza giudaico-cristiana, quale rivoluzione dovesse rappresentare il fatto che, dopo l’estensione all’infinito dello spazio, un uguale ampliamento si impadronisse del tempo e della storia.
Per molti aspetti le conseguenze di tale processo sono addirittura piú drammatiche di quanto potessero esserlo quelle della svolta copernicana. Poiché la dimensione del tempo tocca l’uomo incomparabilmente piú nel profondo di quella dello spazio, la rappresentazione dello spazio viene a sua volta relativizzata, nella misura in cui lo spazio perde la sua forma definibile stabilmente e viene sottomesso alla storia e alla contingenza.
L’uomo appare come l’essere in perenne trasformazione, le grandi costanti dell’immagine biblica del mondo, principio e fine, scivolano nell’indeterminato. La comprensione di fondo del reale cambia: il divenire al posto dell’essere, lo sviluppo al posto della creazione, l’ascesa al posto del declino.
Nell’ambito di queste riflessioni non si può percorrere l’intero complesso di questioni che si è aperto con esse; vogliamo soltanto discutere il problema se le concezioni di fondo, creazione e sviluppo, contrariamente alla prima impressione, possano coesistere senza che per questo il teologo accetti un compromesso disonesto e per ragioni tattiche dichiari inutile il terreno divenuto indifendibile, dopo averlo presentato con convinzione fino a poco prima come parte indispensabile della fede.
Il problema ha livelli diversi che dobbiamo distinguere e valutare separatamente. Innanzitutto c’è un aspetto relativamente evidente che è solo in parte di natura realmente teologica: l’idea dominante prima di Darwin della costanza delle specie si era legittimata sulla base dell’idea della creazione; vedeva ogni singola specie come un dato della creazione, che grazie all’opera creatrice di Dio esiste sin dal principio del mondo accanto alle altre specie come qualcosa di unico e di diverso.
È chiaro che questa forma di fede nella creazione contraddice l’idea dell’evoluzione e oggi è diventata insostenibile. Ma con questa correzione, sul significato e sulla problematica della quale torneremo piú avanti, non si coglie l’intera estensione del concetto di creazione.
Se si lasciano perdere tutte le singole creazioni e si sostituiscono con l’idea dell’evoluzione, per prima cosa diventa molto piú visibile la reale differenza tra i due concetti; diventa evidente che alla loro base ci sono diverse forme di pensiero, diversi approcci spirituali e diversi modi di porre il problema.
L’estensione del concetto di creazione alle singole creature del reale ha potuto di certo coprire a lungo questa differenza piú profonda e perciò il vero problema di cui si tratta. La fede nella creazione indaga sul perché dell’essere in sé; il suo problema è perché c’è qualcosa e non niente. L’idea dello sviluppo invece si chiede perché ci sono proprio queste cose e non altre, da dove hanno tratto la loro determinatezza e come stanno in relazione con le altre creature.
Filosoficamente si direbbe dunque che l’idea dello sviluppo stia al livello fenomenologico, si confronta con le singole creature del mondo che esistono effettivamente, mentre la fede nella creazione si muove al livello ontologico, indaga dietro le singole cose, si stupisce della meraviglia dell’essere stesso e tenta di rendere conto di quel misterioso “è” che noi diciamo di tutte le realtà che esistono.
Si potrebbe formulare anche cosí: la fede nella creazione riguarda la differenza tra niente e qualcosa, l’idea dello sviluppo invece quella tra qualcosa e qualcos’altro. La creazione caratterizza l’essere nel complesso come essere che viene da un altro luogo, lo sviluppo invece descrive la costruzione interna dell’essere e indaga la specifica provenienza delle singole realtà esistenti.
Può essere che per i naturalisti la problematizzazione della fede nella creazione appaia come una questione illegittima, che per l’uomo è irrisolvibile. Effettivamente il passaggio alla contemplazione evolutiva del mondo rappresenta il passo verso quella forma positiva della scienza che si limita consapevolmente a ciò che è dato, concreto, dimostrabile all’uomo ed esclude dalla sfera della scienza la riflessione sulle vere ragioni del reale come una riflessione sterile. In questo fede nella creazione e idea dell’evoluzione indicano non appena due diverse dimensioni di ricerca, ma due diverse forme di pensiero. Di qui muove la problematica che si solleva fra esse anche quando la loro compatibilità sia visibile.
Con questo siamo condotti però a un secondo livello della questione. Abbiamo imparato a distinguere due aspetti nella fede della creazione: la sua concreta formazione nell’idea della creazione di tutte le singole specie da parte di Dio e il suo vero punto di partenza concettuale.
Abbiamo stabilito che il primo aspetto, cioè la forma in cui l’idea della creazione si era concretizzata, è stato liquidato dall’idea dello sviluppo; qui il credente deve lasciare che la scienza gli insegni che il modo in cui lui si era immaginato la creazione apparteneva a una rappresentazione prescientifica del mondo, che è diventata indifendibile.
Però per quanto riguarda il vero punto di partenza concettuale, la questione del passaggio dal nulla all’essere, noi abbiamo potuto solo prendere coscienza della differenza fra le due forme di pensiero; teoria dell’evoluzione e fede nella creazione appartengono qui, riguardo al loro ultimo orientamento di fondo, a due mondi spirituali assolutamente diversi, e in maniera diretta non si toccano affatto.
Ma nel frattempo come dovremmo valutare la neutralità apparente in cui in questo modo ci siamo imbattuti? Questo è il secondo livello della questione che dobbiamo perseguire.
Qui non è affatto facile proseguire, perché il paragone fra forme di pensiero e il problema della loro possibile relazionabilità reciproca hanno sempre in sé qualcosa di molto delicato. Bisogna tentare di mettersi al di sopra di entrambe le forme di pensiero, in una terra intellettuale di nessuno in cui si appare sospetti a entrambe le parti e si riceve rapidamente la sensazione di sedere fra le sedie.
Ciononostante dobbiamo fare questo tentativo per continuare a cercare. Per prima cosa potremo stabilire che la problematizzazione dell’idea di evoluzione è piú limitata di quella della fede nella creazione. Quindi la dottrina dell’evoluzione non può assolutamente incorporare la fede nella creazione. In questo senso essa può giustamente indicare l’idea della creazione come inutilizzabile per sé: non può stare fra i materiali positivi alla cui elaborazione essa è vincolata per metodo.
Contemporaneamente, però, essa deve lasciare aperta la domanda se la problematizzazione della fede non sia legittima e possibile per sé. A partire da un certo concetto di scienza, al massimo la può vedere come extrascientifica, ma non può vietare per principio alcuna domanda sull’uomo che si rivolga alla questione dell’essere come tale. Al contrario, tali domande ultime saranno sempre indispensabili per l’uomo che vive faccia a faccia con l’Ultimo e non può essere ridotto a ciò che è documentabile scientificamente. Cosí però ora rimane il problema se la fede nella creazione, da parte sua, possa assumere in sé l’idea dell’evoluzione come un di piú oppure se al contrario questa contraddica il suo fondamento.
A prima vista ragioni di tipo diverso sembrano portare alla seconda possibilità; in fondo i naturalisti e i teologi della prima generazione che sostenevano questo non erano né sciocchi né malevoli: da entrambe le parti avevano assolutamente le loro ragioni di cui si deve tenere conto se non si vuole giungere a sintesi precipitose che non reggono o sono del tutto false. Le obiezioni che si impongono sono di tipo abbastanza diverso.
Si può dire innanzitutto che la fede nella creazione si è di fatto affermata come fede nella creazione delle singole specie e in una rappresentazione statica del mondo; che essa, ora che quest’immagine è diventata indifendibile, non può sbarazzarsi di questa zavorra su due piedi, anzi, è diventata inutilizzabile nella sua interezza.
Questa obiezione, che oggi non ci appare piú molto seria, si inasprisce se si considera che ancora oggi la fede deve considerare indispensabile almeno la creazione di un particolare essere, quella dell’uomo. Poiché se l’uomo è solo un prodotto dello sviluppo, allora anche lo spirito è una costruzione del caso. Se però lo spirito si è sviluppato, allora la materia è il principio e l’origine di tutto il resto. E se questo è vero, svanisce Dio e cosí pure il creatore e la creazione.
Ma come può l’uomo, una fra le tante creature, se pure cosí sublime e grande, essere tenuto fuori dalla catena dell’evoluzione? Con ciò ora si dimostra che la creazione del singolo essere e l’idea stessa della creazione non sono in verità cosí separabili l’una dall’altra senza conseguenze, come poteva sembrare in un primo momento.
Poiché sembra che qui si tratti di un principio: o tutte le singole cose sono prodotto dello sviluppo, e quindi lo è anche l’uomo, oppure non lo sono. Quest’ultima (opzione) è fuori discussione, quindi rimane la prima, e questo ora sembra porre in dubbio l’intera idea della creazione, come ci siamo appena spiegati, perché annulla il primato e la superiorità dello spirito, che sono in qualche forma da considerare presupposto fondamentale della fede nella creazione.
Ora, si è tentato di svicolare da questo problema dicendo che il corpo dell’uomo può essere un prodotto dello sviluppo, ma che lo spirito non lo è assolutamente: l’ha creato Dio stesso poiché dalla materia non può venir fuori lo spirito. Questa risposta, che sembra avere dalla sua il fatto che lo spirito in effetti non può essere trattato con gli stessi metodi delle scienze naturali con i quali si studia la storia degli organismi, a prima vista soddisfa pienamente.
Subito dopo però bisogna chiedersi: si può spartire in questo modo l’uomo fra teologi e naturalisti - l’anima agli uni, il corpo agli altri - o non è questo un atto insopportabile per entrambi? Il naturalista crede di vedere la creatura uomo maturare gradualmente; egli individua anche una zona fisica di transizione in cui lentamente il comportamento umano emerge da quello animale, senza però poter tracciare un confine netto, cosa per cui non ha a disposizione le prove - un fatto che spesso non viene confessato in maniera sufficientemente chiara. Dall’altro lato, se il teologo è convinto che lo spirito è ciò che dà forma anche al corpo plasmandolo nel profondo fino a renderlo umano, allora anche per lui la spartizione dell’uomo perde ogni significato.
Cosí il tema creazione ed evoluzione per l’uomo sembra condurre da entrambe le parti a un rigoroso aut-aut, che non concede alcuna mediazione. Questo, però, in realtà, visto lo stato attuale delle nostre conoscenze, significherebbe la fine della fede nella creazione.
Dunque la bella armonia che già sembrava delinearsi al primo livello di formulazione della questione si è nuovamente dissolta; siamo rispediti all’inizio. Come dobbiamo procedere? Ora, poco fa avevamo rapidamente toccato un livello intermedio che da principio era apparso senza importanza, ma che adesso potrebbe rivelarsi il centro della formulazione della questione e il punto di partenza di una risposta sostenibile.
In che misura la fede è legata all’idea della creazione delle singole realtà fondamentali del mondo da parte di Dio? Questo modo di porre la questione, da subito in qualche misura evidente, riconduce a un problema generale che dovrebbe rappresentare lo strato centrale dell’intera nostra questione: la rappresentazione di un mondo in divenire è conciliabile con l’idea biblica fondamentale della creazione del mondo da parte del Verbo, con il ricondurre l’essere al senso creatore? L’idea dell’essere espressa nella Bibbia può coesistere con quella del divenire elaborata dalla teoria dell’evoluzione?
Fra queste domande se ne insinua un’altra di natura sostanziale, quella del rapporto tra immagine del mondo e fede in generale. Sarà bene cominciare da qui. Poiché in questo tentativo di pensare creazionisticamente e insieme scientificamente, cioè evoluzionisticamente, viene evidentemente attribuita alla fede un’immagine del mondo diversa da quella che fino a oggi avrebbe dovuto essere considerata come l’autentica immagine del mondo della fede.
Esattamente in questo processo sta perfino il nocciolo dell’intero avvenimento intorno al quale ruotano le nostre riflessioni: la fede è stata derubata della sua immagine del mondo, che sembrava addirittura essere stata lei stessa, e se ne è vista attribuire un’altra. Si può farlo senza annullare la sua identità? Sta esattamente qui il nostro problema.
In proposito, in una certa misura può sorprendere e sollevare il fatto che questa domanda non sia stata posta per la prima volta nella nostra generazione. I teologi della Chiesa antica, anzi, si trovarono immancabilmente messi di fronte al medesimo compito, poiché l’immagine biblica del mondo, cosí come essa si esprime nei racconti della creazione del Vecchio Testamento, non era affatto la loro. In sostanza appariva antiscientifica a loro tanto quanto a noi.
Ci si ritrova in errore notevole ogni volta che si parla semplicisticamente dell’antica immagine del mondo. A noi da fuori certamente essa può apparire unitaria; per quelli che ci vivevano immersi, invece, le differenze che noi oggi riteniamo irrilevanti erano decisive.
I primi racconti della creazione esprimono l’immagine del mondo dell’antico oriente, in particolare quella di Babilonia; i Padri della Chiesa vissero nell’età ellenistica, alla quale quella immagine del mondo appariva mitica, prescientifica, insostenibile sotto ogni aspetto. Venne loro in aiuto, e dovrebbe venire in aiuto anche a noi, il fatto che la Bibbia in realtà è letteratura che abbraccia lo spazio di un intero millennio. Passa dall’immagine del mondo dei babilonesi fino a quella dell’ellenismo, dalla quale i testi della creazione sono classificati come letteratura della sapienza, delineando un’immagine totalmente diversa del mondo e dell’avvenimento della creazione rispetto ai testi della creazione della Genesi comuni a noi, che certo dal canto loro non sono unitari: il primo e il secondo capitolo di questo libro forniscono un’immagine assai contrastante dell’inizio della creazione.
Questo significa che già all’interno della stessa Bibbia fede e immagine del mondo non sono identiche; la fede si serve di un’immagine del mondo, ma l’una non coincide con l’altra. All’interno dello sviluppo biblico questa differenza rappresentava evidentemente un’ovvietà trascurabile: solo cosí si spiega il fatto che le concezioni dell’immagine del mondo in cui la creazione era rappresentata mutavano non solo nelle varie fasi storiche di Israele, ma anche all’interno di uno stesso periodo, senza che alcuno vedesse in questo una minaccia per la reale intenzione del testo.
Il senso di questa ampiezza interna della fede iniziò a venire meno quando cominciò a imporsi la cosiddetta esegesi letterale e con essa andò perduta la comprensione della trascendenza della parola di Dio rispetto a tutte le sue singole forme espressive. Nello stesso tempo - circa a partire dal Tredicesimo secolo - si consolidò però anche quell’immagine del mondo in una maniera sconosciuta prima di allora, benché essa nella sua forma originaria non fosse in alcun modo un prodotto del pensiero biblico, ma al contrario potesse essere conciliata solo con fatica con i dati fondamentali della fede biblica.
Non sarebbe difficile scoprire le radici pagane di quell’immagine del mondo che poi fu considerata come l’unica cristiana, e anche i punti di congiunzione dai quali ancora si può sempre riconoscere come la fede si sia servita di quell’immagine senza potervisi identificare.
Ma non possiamo occuparci di questo; dobbiamo limitarci alla questione positiva se la fede nella creazione, che è sopravvissuta al succedersi di cosí tante immagini del mondo e contemporaneamente ha agito da fermento critico e ha messo in moto l’evoluzione, possa continuare a consistere come un’affermazione sensata anche nel segno di una comprensione evolutiva del mondo.
In questo è chiaro che la fede, che non era identica ad alcuna delle immagini del mondo elaborate finora e che tuttavia rispondeva a una domanda che stava dietro di esse e perciò naturalmente vi si imprime, non può né deve diventare identica nemmeno alla nostra immagine del mondo. Sarebbe sciocco e falso offrire quasi sottobanco la teoria dell’evoluzione come un prodotto della fede, anche se questa ha contribuito a che si formasse quell’orizzonte mentale in cui poté nascere la questione dell’evoluzione. Sarebbe ancora piú sciocco considerare la fede come una specie di illustrazione della teoria dell’evoluzione e lasciare che questa sia confermata da quella.
Il livello è totalmente un altro, come abbiamo constatato prima; ciò di cui ci occupiamo è di verificare se alla domanda fondamentale umana si possa legittimamente rispondere, anche con gli attuali presupposti del pensiero, nello stesso modo in cui lo si faceva sotto la fede nella creazione e nella cui forma anche l’immagine evolutiva del mondo può essere compresa come espressione della creazione.
Per proseguire qui dobbiamo indagare meglio tanto il racconto della creazione quanto l’idea di evoluzione; ed entrambe le cose purtroppo devono avvenire per accenni. Chiediamo innanzitutto, a partire dall’ultima: come si conosce il mondo se lo si interpreta evolutivamente? A questo scopo di sicuro è essenziale che essere e tempo entrino in una stretta relazione: l’essere è tempo, non solo ha tempo. È solo in divenire e si dispiega a se stesso.
Conformemente a questo, l’essere viene conosciuto dinamicamente, come moto dell’essere: non ruota nell’immutato ma procede in avanti. Si dibatte cioè sull’applicabilità del concetto di progresso alla catena dell’evoluzione, soprattutto perché non si dispone di alcun criterio che permetta di dire cosa sia da considerare meglio o peggio e quando di conseguenza si possa sul serio parlare di un avanzamento. Solo che il rapporto particolare che l’uomo assume con tutto il resto della realtà lo autorizza, per lo meno per quanto riguarda la domanda su di sé, a considerarsi punto di riferimento: nella misura in cui si tratta di lui, senza dubbio è autorizzato a farlo.
E se vi rinuncia, la direzione dell’evoluzione e il suo carattere progressivo sono ultimamente indiscutibili, anche se in questo non si calcola che ci sono vicoli ciechi dell’evoluzione e che la sua strada è molto lontana dal procedere diritta. Anche le deviazioni sono una strada, e anche seguendo le deviazioni si arriva a destinazione, come mostra proprio la stessa evoluzione.
La domanda se l’essere inteso come strada, l’evoluzione nel complesso, abbia un senso cosí però rimane aperta, e non può nemmeno essere risolta all’interno della stessa teoria dell’evoluzione; è una domanda estranea al suo metodo, ma per l’uomo vivo è la questione fondamentale del tutto. Per questo la scienza naturale oggi spiega i suoi limiti riconoscendo giustamente che a questa domanda indispensabile all’uomo non può essere risposto scientificamente, ma solo nell’ambito di un “sistema di fede”.
Del fatto che in proposito molti siano dell’idea che il “sistema di fede” cristiano non sia adatto a questo scopo, e che invece sia necessario trovarne uno nuovo, non c’è bisogno che ci occupiamo qui, perché costoro in questo modo fanno un’affermazione all’interno della loro scelta di fede e al di fuori della loro scienza.
Con questo però adesso siamo messi in condizione di dire in modo preciso cosa significhi la fede nella creazione nel rispetto della comprensione evolutiva del mondo. Davanti alla questione fondamentale irrisolvibile dalla stessa teoria dell’evoluzione - se comandi l’insensatezza o il senso - la fede esprime la convinzione che il mondo nella sua interezza, come dice la Bibbia, venga fuori dal logos, cioè dal senso creatore, e rappresenti la forma contingente del suo proprio compimento.
Vista dalla nostra comprensione del mondo, la creazione non è un principio lontano e nemmeno un principio suddiviso in piú stadi, bensí coinvolge l’essere contingente e l’essere in divenire: l’essere contingente è abbracciato nella sua interezza dall’unico atto creatore di Dio, il quale gli dà nella sua divisione la sua unità, in cui contemporaneamente consiste il suo essere, che non è misurabile per noi, perché noi non vediamo il tutto, anzi noi stessi siamo solo sue parti.
La fede nella creazione non ci dice il che cosa del senso del mondo, ma solo il suo perché: tutti questi alti e bassi dell’essere in divenire sono l’atto piú libero e piú sottoposto al rischio della libertà del pensiero creatore originario, dal quale esso ha (ricevuto) il suo essere. E cosí forse per noi oggi diviene piú comprensibile quel che la dottrina cristiana della creazione ha sempre detto e che però a stento è riuscita a far valere sotto l’impronta dei modelli antichi: la creazione non è da pensare secondo lo schema dell’artigiano che realizza oggetti di ogni sorta, ma nella maniera in cui il pensiero è creatore.
E nello stesso momento diventa visibile che l’insieme del moto dell’essere (non solo l’inizio) è creazione e che allo stesso modo il tutto (non solo ciò che viene dopo) è realtà propria e moto proprio. Riassumendo tutto questo possiamo dire: credere alla creazione significa comprendere nella fede il mondo in divenire reso accessibile dalla scienza come un mondo sensato, che viene da un senso creatore.
Cosí però già si delinea chiaramente anche la risposta alla domanda sulla creazione dell’uomo: il riconoscimento del mondo in divenire come autocompimento di un pensiero creatore racchiude il suo ricondurre alla creatività dello spirito, al Creator Spiritus. In Teilhard de Chardin su questa questione si trova la seguente brillante osservazione: “Quel che differenzia un materialista da uno spiritualista non è piú il fatto che egli ammette un passaggio tra infrastruttura fisica e sovra-struttura fisica delle cose, ma solo che egli situa a torto il punto di equilibrio definitivo del movimento cosmico dalla parte dell’infra-struttura, cioè del decadimento”.
Sui dettagli di questa formulazione si potrà sicuramente discutere; ma l’essenziale mi pare colto in maniera esatta: l’alternativa tra materialismo e contemplazione del mondo informata spiritualmente, tra caso e senso, si presenta a noi oggi nella forma della domanda se si consideri lo spirito e la vita nelle sue forme evidenti solo come una muffa casuale sulla superficie del materiale (cioè dell’esistente che non comprende se stesso) oppure come scopo di quello che accade e perciò al contrario si consideri la materia come antefatto dello spirito.
Se si sceglie la seconda opzione, è chiaro che lo spirito non è un prodotto casuale dello sviluppo della materia, ma che piuttosto la materia rappresenta un momento nella storia dello spirito. Questa però è solo una diversa espressione dell’affermazione che lo spirito è creato e non è puro prodotto dello sviluppo, anche se si manifesta alla maniera dell’evoluzione.
Con questo siamo ora giunti al punto in cui si può rispondere alla domanda come l’affermazione teologica della creazione particolare dell’uomo possa coesistere con un’immagine evolutiva del mondo, cioè che forma essa debba assumere in una concezione evolutiva del mondo. Trattare questo nel particolare oltrepasserebbe di certo l’ambito di questo tentativo; un paio di accenni devono bastare.
Ci sarebbe da ricordare innanzitutto che anche rispetto alla creazione dell’uomo la creazione non indica un principio lontano, ma con Adamo significa ognuno di noi: ogni uomo è in rapporto diretto con Dio. La fede afferma sul primo uomo nulla di piú che su ciascuno di noi e viceversa su di noi nulla di meno che sul primo uomo. Ogni uomo è piú che un prodotto di disposizioni ereditarie e ambiente, nessuno è solo risultato dei fattori calcolabili del mondo, il mistero della creazione sta sopra ognuno di noi.
Poi ci sarebbe da riprendere in considerazione il fatto che lo spirito non si aggrega alla materia come qualcosa di estraneo, come una sostanza altra; la comparsa dello spirito dopo quello che abbiamo detto significa piuttosto che un moto progressivo raggiunge la sua meta stabilita.
Infine ci sarebbe da dire che proprio la creazione dello spirito si dovrebbe presentare meno di tutto come un’azione artigianale di Dio, che cosí improvvisamente comincerebbe a trafficare nel mondo. Se la creazione significa dipendenza dall’essere, allora una particolare creazione non è altro che una particolare dipendenza dall’essere. L’affermazione che l’uomo è creato da Dio in un modo piú specifico, piú diretto delle cose naturali significa, detta in modo meno metaforico, semplicemente questo, che l’uomo è voluto da Dio in modo specifico: non solo come un essere che “c’è”, ma come un essere che lo riconosce; non solo come una creatura che lui ha pensato, ma come esistenza che può a sua volta pensare lui. È questo specifico essere voluto e riconosciuto da Dio, che è proprio dell’uomo, che noi chiamiamo creazione particolare.
A partire da qui si potrebbe addirittura formulare una diagnosi sulla forma dell’umanazione (il diventare uomo): l’argilla divenne uomo nell’istante in cui un essere per la prima volta, anche se ancora in modo confuso, riuscí a sviluppare l’idea di Dio. Il primo tu che fu pronunciato - balbettando come sempre - nei confronti di Dio dalle labbra dell’uomo, indica l’istante in cui lo spirito era nato nel mondo. Qui fu attraversato il Rubicone dell’umanazione.
Poiché l’uomo non è costituito dall’utilizzo delle armi o del fuoco né dalle nuove forme della crudeltà o dell’utilitarismo, ma dalla sua capacità di essere immediatamente in rapporto con Dio. Questo stabilisce la dottrina della particolare creazione dell’uomo. Soprattutto qui sta il centro della fede nella creazione.
Sta qui anche la ragione per cui l’istante dell’umanazione non può essere fissato dalla paleontologia: l’umanazione è l’insorgenza dello spirito, che non si può dissotterrare con la vanga. La teoria dell’evoluzione non annulla la fede, e nemmeno la conferma. Ma la sfida a comprendere meglio se stessa e ad aiutare in questo modo l’uomo a capire sé e a diventare sempre piú quello che deve essere: l’essere che può dire tu a Dio per l’eternità.
Articolo estratto da Wer ist das eigentlich - Gott? (1969) e riportato su Il Foglio,23 dicembre 2005, 303 (X), 1.
Joseph Cardinal Ratzinger - Benedetto XVI
N.B. Si raccomanda la consultazione dei testi originali presso il sito della Santa Sede. È inoltre possibile richiedere i documenti presso il sito della Libreria Editrice Vaticana.