Temi di frontiera
Appunti di esobiologia - Una riflessione filosofico-teologica
2004
«L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi agghiaccia» (Blaise Pascal, Pensées, 1669)
Affrontare lo studio del rapporto fra esobiologia e teologia è senza dubbio corretto, tuttavia si tratta di un compito che richiede una continua e attenta distinzione metodologica quale quella propria del rapporto dialogico fra scienza e fede. L'esobiologia considera la formazione e lo sviluppo della vita al di fuori dell'ambito terrestre, eventualità che non costituisce alcun problema dal punto di vista teologico, è evidente però che ben altre riflessioni sorgono nella nostra mente qualora si consideri la vita nella sua evoluzione come noi la conosciamo: vita intelligente e cosciente. Se per brevità useremo in questo contesto la parola "vita" sarà per designare appunto la vita intelligente e cosciente caratterizzata dal fenomeno morale e spirituale che ci contraddistingue. Il titolo, volutamente riduttivo, come anche la preferenza data alla circonlocuzione "non terrestre", ha solo l'intento di sottrarre questa riflessione, per quanto possibile, al condizionamento culturale che solitamente accompagna questo argomento.
Indubbiamente non si tratta di un tema recente come farebbe pensare il suo revival che dura tra fasi alterne da circa cinquanta anni. Il fascino ineffabile del cielo stellato ha sempre suscitato molti interrogativi, non ultimo quello della vita intelligente su altri mondi. Si tratta di una domanda fra le piú comuni in ogni cultura, anche del nostro remoto passato, come pure quella cosmologica, sull'origine, lo sviluppo e la struttura dell'universo.
Questo studio si ispira fondamentalmente al qualificato lavoro di G. Tanzella-Nitti (-, Vita extraterrestre, in AA. VV., Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Roma 2002, 591-605) che, in un contesto interdisciplinare di livello scientifico, ha proposto una sintesi della relativa problematica di consistente valore culturale e teologico, fra le piú mature e complete offerte finora.
Premesse storico-filosofiche
In una prospettiva storica, l'ipotesi della vita su mondi diversi dalla Terra ha attraversato la cultura umana dall'epoca classica fino ai nostri giorni. Considerata nella sua oggettività, la possibilità di trovare forme di vita intelligente su altri pianeti e, soprattutto, quella di instaurare un dialogo, rappresenterebbe senza dubbio una delle esperienze piú straordinarie della storia umana.
Cenni sulla riflessione filosofica antica
I primi ad ipotizzare l'esistenza di intelligenze non terrestri furono probabilmente i filosofi atomisti, all'interno di una visione meccanicista che contemplava un infinito numero di atomi del cosmo capaci di dare origine ad una infinità di corpi in una pluralità illimitata di possibili combinazioni, anche al di fuori del mondo conosciuto. San Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae cita appunto la tesi di Democrito (S. Th. I, q. 47, a. 3). Si tratta di una premessa filosofica che con Epicuro (341-270 a.C.) e ancor piú con Lucrezio (99-55 a.C.) si espliciterà maggiormente nel principio (principio di pienezza) secondo il quale tutte le potenzialità della materia sarebbero destinate a realizzarsi nel corso del tempo, dando origine ad un mondo tanto piú perfetto quanto maggiore è la ricchezza di enti insita in esso.
Plutarco di Cheronea (46-120 d.C.) tratterà della possibile esistenza di abitanti sulla luna nella sua opera De facie in orbe Lunae. Lo scrittore greco presenta un dialogo a piú voci sull'origine delle macchie che appaiono sulla sua superficie. Egli vedeva nel nostro satellite un'altra Terra, con avallamenti e depressioni, acqua e aria, dove la luce solare si riflette irregolarmente, dando luogo alle grandi macchie scure (PLUTARCO, De facie quae in orbe lunae apparet, tr. it. di L. Lehnus, Il volto della Luna, Milano 1991). Prima di lui altri filosofi avevano espresso convinzioni analoghe. Uno di questi, Eraclide, descrisse la Luna circondata da nubi. Il grande naturalista Plinio il Vecchio escludeva che il nostro satellite brillasse di luce propria:
«[la Luna] come tutte le altre stelle, è dominata dallo splendore del Sole, poiché in effetti essa risplende di una luminosità completamente mutuata da quest'ultimo, simile al riflesso oscillante che scorgiamo sullo specchio dell'acqua e le macchie visibili sulla sua superficie non sono altro che impurità di terra aspirate insieme all'umidità» (PLINIO, Storia Naturale, tr. it. A. Barchiesi, Torino 1982, 233, 235).
Aristotele (384-322 a.C.) troverà maggiore difficoltà a speculare sulla presenza di abitanti su altri mondi. Nella sua concezione filosofica la sfera celeste veniva progressivamente contrassegnata con i caratteri dell'eternità, dell'immutabilità e dell'incorruttibilità, radicalmente distinta dalla Terra dunque, caratterizzata invece dal mutamento e dalla contingenza (realtà sublunare). La sfera relativa alla luna, nella quale si può percepire una relativa mutazione, resterà a metà strada fra le due.
Cenni sulla riflessione filosofica medioevale e moderna
La teologia medioevale non si opporrà all'idea che Dio possa creare altri mondi ma non si evolverà in una profonda riflessione sui loro possibili abitatori. Nella cosmologia del De docta ignorantia (1440) il cardinal Nicola Cusano (Nikolaus Krebs von Cues, 1401-1464) pervenne a un'originale concezione dei rapporti tra Dio e il mondo. I molteplici enti finiti rimandano all'Uno infinito come loro principio; esso è causa di tutti gli enti finiti e delle loro opposizioni. Dio è coincidentia oppositorum, che è la complicazione (complicatio) del molteplice nell'uno; all'inverso, il mondo è la esplicazione (explicatio) dell'uno nel molteplice. Tra i due poli si ha un rapporto di partecipazione per il quale Dio e il mondo si compenetrano: l'essere divino, partecipandosi ad altro da sé, si diffonde, pur restando se stesso e in se stesso; il mondo, a sua volta, si configura come un'immagine, una riproduzione e un'imitazione dello stesso essere divino, ovvero come un "secondo dio" o un "dio creato" (deus creatus). Tali concezioni portarono Cusano al completo rifiuto della tradizionale cosmologia aristotelica. Compenetrato da Dio in quanto sua immagine, il mondo non può essere che "infinito"; non si può quindi attribuirgli uno spazio finito e un unico centro. Affermando la relatività delle rappresentazioni fisiche del luogo e del movimento, Cusano preludeva genialmente cosí alla rivoluzione eliocentrica copernicana.
Egli alluderà anche a possibili abitanti di altri mondi per sistematizzare dal punto di vista filosofico le loro possibili relazioni con la Terra e con le sue perfezioni, oltre che fra la natura dei loro abitanti e la nostra. Con una riflessione che sarebbe ancor oggi condivisibile da molti nostri contemporanei, il cardinal Cusano, filosofo e scienziato, concludeva che, nonostante tutto, non possiamo sapere nulla:
«Quare pater per hominem non esse scibile, an regio terrae sit in gradu perfectiori et ignobiliori respectu regionum stellarum aliarum, solis, lunae reliquarum, quoad ista. Neque etiam quoad locum; puta quod hic locus mundi sit habitatio hominum et animalium atque vegetabilium, quae in gradu sunt ignobiliora in regione solis et aliarum stellarum habitantium. Nam etsi Deus sit centrum et circumferentia omnium regionum stellarum et ab ipso diversae nobilitatis naturae procedant in qualibet regione habitantes, ne tot loca caelorum et stellarum sint vacua et solum ista tetra fortassis de minoribus inhabitata, tamen intellectuali natura, quae hic in hac terra habitat et in sua regione, non videtur nobilior atque perfectior dari posse secundum hanc naturam, etiamsi alterius generis inhabitatores sint in aliis stellis.
Non enim appetit homo aliam naturam, sed solum in sua perfectus esse. Improportionabiles igitur sunt illi aliarum stellarum habitatores, qualescumque illi fuerint, ad istius mundi incolas, etiamsi tota regio illa ad totam regionem istam ad finem universi quandam occultam nobis proportionem gerat, ut sic inhabitatores istius terrae seu regionis ad illos inhabitatores per medium universalis regionis hincinde quandam ad se invicem habitudinem gestent, sicut particulares articuli digitorum manus per medium manus proportionem habent ad pedem et particulares articuli pedis per medium pedis ad manum, ut omnia ad animal integrum proportionata sint.
Unde, cum tota nobis regio illa ignota sit, remanent inhabitatores illi ignoti penitus, sicut in hac tetra accidit, quod animalia unius speciei quasi unam regionem specificam facientia se uniunt et mutuo propter communem regionem specificam participant ea, quae eorum regionis sunt, de aliis nihil aut se impedientes aut veraciter apprehendentes. Non enim animal unius speciei conceptum alterius, quem per signa exprimit vocalia, apprehendere potest nisi in paucissimis signis extrinsecus, et tunc per longum usum et solum opinative. Minus autem de habitatoribus alterius regionis improportionabiliter scire poterimus, suspicantes in regione solis magis esse solares, claros et illuminatos intellectuales habitatores, spiritualiores etiam quam in luna, ubi magis lunatici, et in terra magis materiales et grossi; ut illi intellectuales naturae solares sint multum in actu et parum in potentia, terrenae veto magis in potentia et parum in actu, lunares in medio fluctuantes» (lib. II, c. 12: cfr. NICCOLÒ CUSANO, De docta ignorantia, Lipsia 1932, 107-108).
Giordano Bruno (1548-1600) ipotizzò la presenza di una vita diffusa in tutto l'universo. La sua concezione vitalista gli fece concepire un universo non solo popolato da abitanti su stelle e pianeti, ma animato in ogni sua struttura: l'intero universo diventava così struttura vitale. Galileo Galilei (1564-1642) e Giovanni Keplero (1571-1630) non affrontarono mai il tema in modo diretto, benché il sistema eliocentrico da essi contemplato ponesse la Terra in una condizione di maggiore analogia con gli altri pianeti conosciuti.
Dalla fine del XVII secolo, con l'affermarsi del telescopio ottico come strumento di osservazione astronomica si assisterà ad una rinascita di interesse per la tematica della vita nell'universo. Prova ne sarà la diffusione di opere a favore della pluralità dei mondi abitati, quale quella di Bernard le Bovier de Fontenelle (1657-1757), autore dell'opera Entretiens sur la pluralité des mondes (Chez Michel Guerout, Paris 1686) che conoscerà decine di edizioni e traduzioni fra le quali quella di Christian Huygens (1629-1695): Kosmotheoros, sive de terris coelestibus earumque ornatu conjecturae, A. Moetjens, Den Haag, 1698.
I prodromi della ricerca scientifica tra ingenuità e coraggio
Con il passare del tempo, saranno soprattutto gli astronomi, principali attori dello studio e dell'osservazione del cosmo, a pubblicare opere concernenti la possibilità di forme di vita al di fuori della Terra. Fra questi si distinse William Herschel (1738-1822), noto per avere avviato i primi studi sistematici sulla distribuzione spaziale delle stelle e sulla forma della Via lattea. Richard Proctor scrisse l'opera Other Worlds Than Ours. The Plurality of Worlds studied under the Light of Recent Scientific Researches, New York 1871. Camille Flammarion con La pluralité des mondes habités (Paris 1862) contribuí a tenere aperto il dibattito anche in ambiente scientifico per tutto il XIX secolo. L'opera di quest'ultimo conobbe una diffusione eccezionale, con oltre trenta edizioni in meno di vent'anni, un successo che durerà ininterrottamente fino al 1921. Sarà l'italiano Giovanni Schiaparelli (1835-1910) invece a suscitare l'interesse sulla possibilità di vita intelligente nel pianeta Marte dopo le note osservazioni sui "canali" (1877), strutture regolari sulla superficie del pianeta alle quali già il padre gesuita Angelo Secchi (1818-1878), valente astronomo, aveva dedicato la sua attenzione. A cominciare dall'agosto del 1877, la loro origine fu oggetto di disputa in tutto il mondo per circa un trentennio. Le misteriose immagini furono poi riconosciute come strutture naturali grazie all'impiego di strumenti di osservazione dotati di un potere risolutivo superiore. Cosí commentava il capitano Isidoro Baroni nel periodico Ore serene - Supplemento mensile letterario - scientifico illustrato del 31 Maggio 1908:
«Giovanni Schiaparelli, che scrutò assiduamente il pianeta Marte, all'Osservatorio di Brera in Milano, dal 1877 al 1890, non dispose mai di ingrandimenti telescopici superiori a 650 volte, eppure fu il primo a segnalare i cosiddetti canali di quel pianeta, nonché i loro periodici sdoppiamenti, il cui complesso costituisce quel misterioso reticolato che vedesi nell'unito planisfero marziano, disegnato dallo Schiaparelli dal 1877 al 1888 e che riproduciamo dal fascicolo ottavo dell'Astrofilo di Milano. A cagione del rovesciamento delle immagini prodotto dai cannocchiali astronomici, tutti i planisferi areografici (cioè, di Marte) hanno il nord in basso, il sud in alto, l'est a sinistra e l'ovest a destra; inoltre, poiché le parti oscure si ritengono liquide e le chiare come solide, appare evidente che le terre o continenti di Marte sono attraversati in ogni senso da righe oscure tutte affluenti ai mari od agli oceani, ragione per cui lo Schiaparelli le ha denominate "canali". Riflettendo però che ogni punto visibile in Marte rappresenta un oggetto tondeggiante di 60 a 70 chilometri di diametro, e che ogni linea visibile rappresenta una zona di almeno 30 chilometri di larghezza, si stenta ad ammettere che i canali schiaparelliani siano veri canali nel senso che noi li intendiamo sulla Terra, cioè fossati artificiali per le acque. Infatti, si dice, come credere che i marziani abbiano potuto costruire opere sí colossali? Ma che ne sappiamo noi? E come si può escluderlo? E perché non potrebbero avere escogitati dei mezzi meccanici potentissimi quanto a noi ignoti ed inconcepibili?».
Cosí il "pianeta rosso", sul quale già Herschel aveva indicato due calotte polari ritenendole formate di ghiaccio d'acqua (ma che oggi sappiamo essere formate da anidride carbonica allo stato solido) si apprestò a divenire il maggior candidato per ospitare una forma di vita intelligente. Alle opere di Schiaparelli si affiancarono quelle di Proctor e Flammarion, dando origine ad un fenomeno culturale e di costume che identificò con il termine "marziani" gli abitatori di altri mondi. Cosí scriveva il New York Herald del 19 maggio 1895: «Schiaparelli in Italia, Flammarion in Francia e il nostro Lowell hanno fatto dello studio di Marte lo scopo della loro vita. Essi hanno trovato sul pianeta fratello del nostro tali segni di una civiltà avanzata che anche i piú scettici hanno ammesso la plausibilità delle affermazioni degli astronomi, concedendo la possibilità che siano vere».
Fra il XIX e il XX secolo merita di essere ricordata anche la posizione contraria di Alfred R. Wallace (1823-1913), naturalista e propugnatore, prima di Darwin, della teoria dell'evoluzione. Wallace nell'opera Man's Place in the Universe. A Study of the Results of Scientific Research in Relation to the Unity or Plurality of Worlds (New York 1903), pure essa molto diffusa, concepiva un universo antropocentrico, fornendo validi argomenti ai difensori dell'unicità della vita intelligente nel cosmo. Cosí scrive, infatti, nelle sue conclusioni:
«The conclusions which I claim to have shown to have enormous probabilities in their favour are: (4) That no other planet in the solar system than our earth is inhabited or habitable. (5) That the probabilities are almost as great against any other sun possessing inhabited planets. (6) That the nearly central position of our sun is probably a permanent one, and has been specially favourable, perhaps absolutely essential, to life-development on the earth» (p. 313).
In epoca contemporanea, i progressi della radioastronomia, dell'astrofisica e l'avvento dell'astronautica, unitamente a una nuova comprensione della struttura spazio-temporale dell'universo, hanno contribuito ad offrire una visione sempre meno antropocentrica e che sollecita ancor piú l'interrogativo sulla possibilità di vita intelligente non terrestre. Anche in questo caso, le opere divulgative di alcuni scienziati hanno esercitato una notevole influenza, basti citare per tutti: SHAPLEY H., Of Stars and Men, Boston 1958; come pure Boris Shklovskii e Carl Sagan con la loro opera Intelligent Life in the Universe, San Francisco 1966.
In campo scientifico, in tempi ancora piú recenti, tramontato ormai l'entusiasmo per un possibile incontro con altri abitanti del sistema solare, rivelatosi non idoneo ad ospitare altrove la vita intelligente, ci si è rivolti alla ricerca di forme biologiche elementari e all'avvio di programmi a lunga scadenza nel campo dell'ascolto radioastronomico (ne è un esempio il progetto SETI.
Nel 1972 una placca dorata con l'immagine di una coppia umana ed alcuni dati scientifici codificati venne collocata sulle sonde automatiche Pioneer 10 e 11. Pioneer 10 venne lanciata il 2 marzo 1972 e ormai è giunta oltre il sistema solare, trovandosi attualmente a circa 13 miliardi di chilometri dalla Terra e viaggiando ad una velocità relativa al Sole di 12.178 km/sec verso Aldebaran (Alpha Tauri), una stella gigante rossa nella costellazione del Toro distante circa 68 anni luce, dove per giungere impiegherà piú di due milioni di anni. Nel 1977 vennero inseriti immagini e suoni digitalizzati della Terra sui Voyager 1 e 2; quest'ultimo, nell'agosto 1989, è giunto fino a Nettuno.
L'8 aprile 1960, dal radiotelescopio di Arecibo (Portorico - USA), è stato trasmesso un messaggio radio in direzione di due stelle molto simili al nostro Sole: Tau Ceti, nella costellazione della Balena ed Epsilon Eridani nella costellazione dell'Eridano, situate a circa 11 anni luce da noi. L'astronomo Frank Drake che ne ideò il contenuto utilizzando una sequenza di 1679 cifre in codice binario sostenne: «In fondo, dopo migliaia di anni in cui si è solo speculato, oggi abbiamo a portata di mano la prima, seria opportunità di verificare questa ipotesi con i mezzi adeguati. È forse giunto il momento in cui potremo dare una risposta alla fatidica domanda: Siamo soli nell'universo»? Nel messaggio in codice erano presenti i numeri da 1 a 10, i numeri atomici degli elementi chimici contenuti nel DNA: H, C, N, O, P, la formula strutturale del Dna con la sua doppia elica, insieme al disegno di un uomo, all'entità della popolazione terrestre e ad uno schema del radiotelescopio stesso. Il messaggio venne trasmetto sulla frequenza di 2381 Mhz per 169 secondi: fu il primo tentativo nella storia dell'umanità di entrare in contatto con altre civiltà al di fuori del nostro pianeta.
Schema dello storico messaggio di Arecibo
Il ruolo della cultura e dei media attuali
Il tema della vita nell'universo entra nella cultura odierna grazie ai mass-media. Al primo posto troviamo la ricca letteratura di science fiction e l'industria cinematografica con le sue analoghe tematiche di frontiera.
Il 30 ottobre 1938 le stazioni radio della Columbia Broadcasting System, una delle maggiori emittenti statunitensi, trasmisero uno sceneggiato radiofonico di Howard Koch, tratto dal famoso romanzo La guerra dei mondi (1898) di H. G. Wells, che ebbe una famosa trasposizione cinematografica nel 1952, con l'omonimo titolo. Si trattò di una trasmissione insolita, infatti, l'adattamento prevedeva, nel corso del programma musicale della sera, l'inserimento di comunicati identici a quelli trasmessi dai consueti giornali radio. In molte città scoppiò il panico. Solo il mattino dopo, all'uscita dei quotidiani, tornò la calma, ma nel frattempo l'incauta iniziativa costò alcuni morti e parecchi feriti con danni valutabili in milioni di dollari.
Piú recentemente ricordiamo il film La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World - 1951) di Howard Hawks; 2001 Odissea nello spazio (1968), scritto da Arthur C. Clarke e diretto da Stanley Kubrick; Star Wars (1977, riedito nel 2004) di George Lucas; Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters Of The Third Kind - 1977), il celebre E.T. L'Extra-Terrestre (1982) e The War Of The Worlds (2005), entrambi di Steven Spielberg. Nel campo letterario ricordiamo soprattutto i famosi romanzi di Isaac Asimov (1920-1992), chimico, biologo e affermato scrittore di fiction oltre che abile divulgatore scientifico (dobbiamo a lui il termine "robotica"). Asimov negli anni 40 darà il suo contributo a quella che sarà l'età dell'oro della fantascienza, se ne discosterà tuttavia per il suo stile personale e inconfondibile, nel quale i dettagli tecnici vengono trascurati per lasciare spazio alla storia, ai personaggi ed all'intreccio delle vicende. Saranno racconti di grande respiro, mosaici i cui pezzi si ricompongono spesso nel finale, vicende non scontate in cui compaiono solo esseri umani che si trovano ad attraversare il vortice delle vicende della storia futura. Forse per questo quasi nessuno dei suoi racconti è approdato alla cinematografia, che ne avrebbe facilmente distrutto la magica atmosfera dello svolgersi della vicenda, contraddistinta da episodi di appassionante complessità.
Anche numerosi serial televisivi degli anni 60, 70 e 80 hanno contribuito a divulgare a livello popolare il tema della vita su altri mondi. Ricordiamo solo i piú diffusi soprattutto nel mondo anglosassone e in Europa: UFO (1970-1971) e Space 1999 (1975-1977), entrambi ideati da Gerry e Sylvia Anderson; Star Trek (1966-1969) di Gene Roddenberry e infine X-Files (1993-2002), frutto dell'opera di vari registi. In questi serial, sia pure in maniera spesso superficiale e contraddittoria si sviluppano tematiche umane, etiche e religiose che cercano di dare una risposta all'interrogativo sul significato della vita umana nell'universo e sul suo rapporto con la trascendenza.
Quello della vita nell'universo costituisce un luogo di confluenza dove si riversano inevitabilmente i grandi temi dell'antropologia, della filosofia e della religione che attendono nell'intimo della nostra coscienza una risposta definitiva, una risposta che sembra possa provenire da un contesto "celeste", il solo che - specie nell'immaginario collettivo - può consegnarci un messaggio morale in grado di risollevare le sorti dell'umanità. L'incontro con altre civiltà provenienti da un contesto non terrestre appare cosí anche come un tentativo di autocomprensione del genere umano, come una sorta di contemplazione allo specchio della sua realtà. Dietro la ricerca di vita non terrestre inoltre è nascosta un'implicita dimensione religiosa, l'esplorazione dello spirito umano in rapporto all'incontro con "l'altro" e, soprattutto con il "totalmente Altro". Afferma Paul Davies:
«L'elemento di attrazione sembra essere il fatto che contattando esseri superiori provenienti dal cielo gli uomini potranno avere accesso ad una conoscenza privilegiata, e che l'ampliamento dei nostri orizzonti risultante da essa in qualche modo ci avvicinerà di piú a Dio. La ricerca degli alieni può quindi essere vista come parte di una ricerca religiosa che è sempre esistita, oltre che parte di un progetto scientifico» (DAVIES P., Siamo soli? Implicazioni filosofiche della scoperta della vita extraterrestre, Roma-Bari 1994, 144).
È proprio la risonanza religiosa insita nella tematica della vita nell'universo che ci apre alla riflessione teologica. La teologia cristiana, in modo particolare, è coinvolta nella ricerca a motivo del rapporto singolare fra il divino e l'umano che la caratterizza, rapporto inscindibile e necessario che tocca il suo vertice nel mistero dell'Incarnazione, del Dio fatto uomo: ...et homo factus est, come attesta il Credo Niceno-costantinopolitano. Allargare il nostro orizzonte conoscitivo, anche teologico, fino a considerare degli esseri intelligenti e spirituali diversi da noi, richiederebbe una comprensione ulteriore della realtà non piú caratterizzata però da quella visione antropocentrica che finora ci ha accompagnati. Da piú di quattro secoli la nostra cultura ha perso il riferimento geocentrico dell'universo conosciuto e ora si pone di fronte all'eventualità di perdere anche quello antropocentrico derivante dall'unicità della sua storia biologica e della sua esistenza cosciente nel panorama del cosmo.
Fino ad oggi la teologia non ha dedicato una riflessione attenta alla problematica a dispetto delle provocazioni culturali secondo le quali un contatto con civiltà non terrestri potrebbe porre in crisi alcuni importanti principi fondanti il potere religioso. In realtà la riflessione teologica tende ad evitare tutto ciò che non rientra nell'ambito del reale, ove con il termine reale si intende qui tutto ciò che è oggetto della conoscenza certa nell'ambito della ragione e della fede. Ciò non toglie che, nel rigoroso contesto scientifico contemporaneo, non si può non tener conto di alcuni degli interrogativi che la scoperta della vita intelligente non terrestre susciterebbe.
Breve sintesi sulla ricerca scientifica della vita non terrestre
Allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di affermare se la vita rappresenti un evento unico nella storia dell'universo o se sia un fenomeno diffuso. Senza dubbio la sua comparsa ha richiesto una serie di tappe e di condizioni previe, nello spazio e nel tempo, la cui considerazione è d'obbligo se si desidera valutarne la possibile diffusione su scala cosmica. Da un punto di vista filosofico sorge tuttavia il presentimento che la sua complessa fenomenologia e la teleologia dei suoi processi impongano di valutare l'incidenza ed il possibile significato della vita con categorie che superino la povera alternativa fra il caso e la necessità, cosí in voga ancora oggi, nelle scienze naturali. Esaminiamo brevemente alcune fra le principali tappe che precedono necessariamente la comparsa della vita nel cosmo.
Per contare sulla presenza di elementi chimici necessari alla vita, come ad esempio l'ossigeno, il carbonio o il potassio, occorre attendere un sufficiente grado di evoluzione stellare perché, al termine della loro evoluzione termonucleare, si renda disponibile nello spazio cosmico un'adeguata presenza di tali elementi. È in questo ambiente arricchito che dovranno poi formarsi altri tipi di stelle, piú stabili e caratterizzate da una lunga evoluzione, intorno alla decina di miliardi di anni, come il nostro sole, e che consentano ad eventuali pianeti orbitanti di godere di una continuità energetica per tutto il tempo necessario all'evoluzione, dalle forme di vita semplici fino a quelle piú complesse.
Qualunque pianeta per ospitare una biosfera dovrà essere sufficientemente grande da trattenere gravitazionalmente un'atmosfera gassosa, ma anche sufficientemente piccolo da consentire alla superficie di raffreddarsi in un tempo geologicamente non troppo lungo. La distanza dalla stella centrale e l'inclinazione del pianeta nell'eclittica rivestono notevole importanza al fine di ricevere da essa una quantità opportuna di energia, equamente distribuita sulla sua superficie. Tale necessità eslcude i sistemi stellari binari o multipli, molto diffusi, dove la stabilità delle orbite planetarie non è garantita.
L'evoluzione della vita su un pianeta adatto ad ospitarla ha dei tempi di crescita piuttosto lunghi. Occorre tempo per la formazione dei composti chimici indispensabili alla vita - primo fra tutti l'acqua -, dei numerosi composti del carbonio e dell'ossigeno e di un'atmosfera idonea, capace di filtrare i componenti nocivi della radiazione stellare. Forse sono ancora piú lunghi i tempi necessari per fornire alla biosfera le sostanze necessarie alla vita delle forme superiori piú complesse. Sulla Terra il tempo trascorso dalla formazione dei primi esseri unicellulari fino alla comparsa dei mammiferi non è stato inferiore a circa tre miliardi di anni. È inevitabile che le discipline scientifiche che si accostano al tema della vita nel cosmo lo facciano cercando di utilizzare le conoscenze che abbiamo del nostro ambiente. Del resto, in un tema come questo, l'induzione, insieme alla paziente ricerca, è l'atteggiamento metodologicamente piú fondato.
La scienza contemporanea affronta il tema della vita nel cosmo in vari contesti tematici quali:
1) la ricerca e lo studio di composti organici o di possibili strutture biologiche presenti nello spazio interstellare o sulla superficie dei corpi celesti (comete, asteroidi, satelliti o pianeti);
2) la ricerca di qualche forma almeno elementare di vita nel nostro sistema solare;
3) l'individuazione e lo studio di altri sistemi planetari, simili a quello solare, formatisi attorno ad altre stelle;
4) la ricostruzione teorica e sperimentale dei processi che possono aver dato origine alla vita sulla Terra, e quindi in altre regioni dell'universo;
5) la ricerca di possibili segnali radio di origine intelligente mediante l'impiego di radiotelescopi nelle onde centimetriche e decimetriche.
L'insieme di queste attività ha fatto sí che nel panorama scientifico si affermasse una nuova disciplina, chiamata "astrobiologia" o anche "esobiologia". A partire dal 1982 la comunità astronomica internazionale ha dato all'esobiologia uno status ufficiale all'interno dei suoi organismi internazionali (Commissione 51 della International Astronomical Union).
La Commissione 51 (Bioastronomy: Search for Extraterrestrial Life) fra i suoi obiettivi include: la ricerca dei pianeti intorno ad altre stelle; la ricerca di radio trasmissioni, intenzionali o non intenzionali, di origine non terrestre; la ricerca di molecole interstellari biologicamente rilevanti e lo studio del loro processo di formazione; lo studio dei metodi di rilevazione di prove spettroscopiche di attività biologica; la coordinazione a livello internazionale di tutte queste attività e l'organizzazione di programmi di collaborazione con altri enti scientifici internazionali aventi interessi similari.
La ricerca e lo studio di composti organici o di possibili strutture biologiche presenti nello spazio interstellare ha già portato a risultati interessanti. L'elenco delle sostanze organiche scoperte nello spazio interstellare è notevole e al 1990 comprendeva oltre 90 molecole. Di seguito compare un breve elenco delle piú comuni con accanto l'anno della scoperta:
CH (metilidina) (1937), CN (1940), CH+ (1941), CO (1970), CS (1971), HCN (1970), HCO+ (ione formilico) (1970), HNC (idrogeno isocianile) (1971), OCS (solfuro di carbonile) (1971), C²H (etinile) (1973), HCO (formile) (1975), DCN (1973), DNC (1977), DCO+ (1976), H²CO (formaldeide) (1976), acetilene (1976), C3N (cianoetinile) (1977), HCNS (acido isotiocianico) (1979), HNCO (acido isocianico) (1972), H²CS (tioformaldeide) (1971), HCOOH (acido formico) (1970).
Nelle nubi interstellari e nei meteoriti, soprattutto nelle condriti carbonacee, sono stati trovati diversi amminoacidi, ma alcune omissioni e molte similarità con la vita sulla Terra costituiscono un vero e proprio enigma. Perché nei meteoriti sono presenti solo alcuni amminoacidi mentre altri ne sono assenti? E perché non sembrano preferire la stessa struttura molecolare sinistrorsa degli amminoacidi degli esseri viventi terrestri? Rispondere a queste domande potrebbe consentire di risolvere una delle questioni fondamentali della scienza: dove e come è cominciata la vita? Gli amminoacidi trovati finora sono identici a quelli presenti sulla Terra negli esseri viventi. Purtroppo non siamo ancora in grado di fornire una risposta definitiva a tutti questi interrogativi. Attualmente però, neanche nel vasto ambiente dello spazio interstellare, sono stati rilevati acidi nucleici o altre strutture biochimiche di origine cellulare che facciano pensare alla presenza di microrganismi, per quanto elementari.
All'interno del sistema solare, subito dopo l'avvio dell'era astronautica, Marte è diventato ben presto l'obiettivo di ambiziose missioni spaziali coronate da successo: prima con sonde in volo ravvicinato (serie Mariner, periodo 1964-1971), poi con atterraggi morbidi sulla sua superficie (serie Viking nel 1976), ed infine con ricognizioni da parte di sonde automatiche semoventi (missione Pathfinder del luglio 1997). Sia le sonde Viking che la missione Pathfinder hanno realizzato esperimenti volti a verificare l'esistenza di possibili forme di vita, riportandone un esito negativo. Non migliori risultati hanno ottenuto le successive missioni americane (Mars Global Surveyor, 1996 e Mars Odyssey, 7 aprile 2001) ed europee (Mars Express, 2 giugno 2003, con il suo lander Beagle 2, purtroppo andato perduto) a dispetto della scoperta della presenza di acqua nella sua storia passata e recente.
Le osservazioni compiute nelle ultime decadi del XX secolo tendono dunque ad escludere la possibilità di forme di vita, soprattutto evolute, sui pianeti del sistema solare, a motivo delle condizioni chimico-fisiche e ambientali decisamente sfavorevoli. L'attuale interesse degli studiosi si è cosí spostato su alcuni satelliti di Giove e Saturno. Le immagini ottenute negli anni '70 e '80 dalle sonde Pioneer e Voyager e, piú recentemente, dalla sonda Galileo (missione del 18 ottobre 1989), hanno attirato l'attenzione dei ricercatori su alcuni satelliti come Europa, in orbita attorno a Giove, sul quale è stata scoperta la presenza di acqua; Encelado e Titano, in orbita attorno a Saturno, dalle caratteristiche morfologiche particolarmente interessanti. Verso quest'ultimo è stata inviata la sonda Cassini-Huygens, lanciata il 15 ottobre 1997 e giunta nei pressi di Titano nel luglio 2004. Nel novembre 2004 Cassini ha rilasciato il modulo di atterraggio Huygens, che si è posato sulla superficie di Titano il 14 gennaio 2005 e ha inviato a Terra immagini e dati di straordinario valore.
Grazie allo sviluppo della tecnologia osservativa da Terra, dovuta soprattutto all'impiego di strumenti orbitanti come l'Hubble Space Telescope, sono stati identificati negli ultimi anni circa una quarantina di sistemi composti da una stella circondata da uno o piú pianeti. I pianeti finora scoperti hanno delle masse comparabili o molto superiori a quella di Giove, la maggior parte dei quali troppo vicini alla stella centrale e pertanto inadatti alla vita. In un prossimo futuro, grazie a tecnologie di nuovo tipo, come quella del Next Generation Space Telescope (NGST, il 10 settembre 2002 rinominato in James Webb Space Telescope in onore di James E. Webb, amministratore della NASA dal 1961 al 1968) che dovrebbe essere operativo entro il 2007, si potranno probabilmente individuare anche pianeti di piccola massa, rilevando maggiori informazioni sulla possibilità che tali corpi offrano condizioni adatte alla vita. Dal punto di visto teorico vi sono indicazioni tali da farci credere che la formazione dei pianeti attorno alle stelle sia un fenomeno relativamente frequente ma questo, come si può vedere, è ancora un settore tutto da esplorare.
Un discorso a parte nel panorama del rapporto fra l'attività scientifica e la ricerca di vita non terrestre lo richiede il programma SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence). L'idea di dedicare dei radiotelescopi all'ascolto di possibili segnali intelligenti provenienti da ambienti esterni al sistema solare nasce nel 1959 dal suggerimento di Giuseppe Cocconi e Philip Morrison, della Cornell University, i quali agli albori della radioastronomia, con un articolo sulla celebre rivista Nature (COCCONI G. - MORRISON P., Searching for Interstellar Communications, Nature 184 (1959), 844-846), mostrarono la possibilità teorica di ricevere dallo spazio delle densità di flusso elettromagnetico paragonabili a quelle che noi, sulla Terra, emettiamo quando trasmettiamo dei normali programmi radio. Gli autori consigliavano di cominciare l'ascolto a frequenze adiacenti alla riga di emissione dell'idrogeno neutro a 21 cm (1420 MHz), che poteva essere facilmente scelta come punto di riferimento da altre civiltà tecnologiche, data la sua intensità e diffusione in tutto il cosmo. L'intervallo tra 1420 MHz e 1720 MHz è indicato con il suggestivo nome di waterhole, la "pozza d'acqua" intorno alla quale, come animali nel deserto, si radunano le civiltà evolute per comunicare.
Articolo di Cocconi e Morrison, Searching for Interstellar Communications, pubblicato su Nature 184 (1959), 844-846
L'eco di un possibile contatto via radio con civiltà extraterrestri la si ebbe nell'opinione pubblica nel 1967, quando Burnell ed Hewish scoprirono la prima pulsar (acronimo di PULSAting Radio source, sorgente di impulsi radio). La pulsar è una stella di neutroni in rapida rotazione che emette, per cause ancora poco conosciute, fasci di onde radio. La velocità di rotazione delle pulsar determina l'estrema regolarità e la frequenza degli impulsi che può variare da un minimo di 1,5 millisecondi a qualche secondo di intervallo tra l'uno e l'altro. In attesa che Peter Goldreich e William H. Julian mostrassero definitivamente, nel 1969, la reale origine di tali segnali regolari ed intermittenti (cfr. GOLDREICH P. - JULIAN W. H., Pulsar electrodynamics, in Astrophysical Journal 157 (1969), 869-880), alcuni ritenendo possibile una loro origine intelligente, coniarono scherzosamente l'appellativo little green men.
A partire dal 1961, un progressivo coinvolgimento di ricercatori e di strumenti aveva gradatamente condotto alla formazione del SETI Institute (http://www.seti.org), oggi operante in collegamento sia con la NASA, sia con alcuni fra i maggiori centri di radioastronomia del pianeta. In Italia, collabora da qualche anno con le ricerche SETI anche l'Istituto di Radioastronomia del CNR con i suoi radiotelescopi operativi a Medicina (Bologna - http://www.seti-italia.cnr.it). È significativa anche la presenza del Seti Academy Committee, un Comitato dell'Accademia Internazionale di Astronautica (IAA) che, in collaborazione con altre istituzioni scientifiche, dedica parte della sua attività allo studio della ricaduta sociale e culturale di un possibile contatto con altre civiltà e alla preparazione di possibili protocolli di comunicazione. Sono state definite già da tempo alcune procedure internazionali che prevedono conferme indipendenti, organismi da informare ed alcune priorità da seguire, nel caso si verificasse un evento di questo genere.
La motivazione che sostiene questa attività di ricerca - oltre agli evidenti aspetti filosofici - risiede in un'interpretazione ottimistica dell'equazione di Drake e sul fatto che, con il procedere del tempo, aumenta proporzionalmente al cubo della distanza il volume di spazio nel quale viaggiano i segnali radio terrestri, e quindi anche la probabilità di ricevere una risposta. Le onde radio prodotte dalla nostra tecnologia hanno raggiunto le stelle (e gli eventuali sistemi planetari ad esse associati) in un raggio di circa 70-80 anni luce. Questo significa che entro una distanza di circa 30 o 40 anni luce da noi non esistono altre civiltà, o comunque, se esistono, non sono in grado o non hanno forse l'intenzione di rispondere ai nostri segnali. Sono allo studio progetti di radiotelescopi funzionanti in interferometria in orbita attorno alla Terra o sulla faccia nascosta della luna (al riparo quindi dai segnali di origine terrestre), allo scopo di aumentare il potere risolutivo e la sensibilità della ricezione di possibili segnali intelligenti non terrestri.
In relazione a questa eventualità l'astrofisico russo Nikolai Kardashev ipotizzò l'esistenza di civiltà a differente sviluppo tecnologico distinguendone sommariamente tre livelli:
1) il primo è paragonabile a quello raggiunto dall'uomo che è in grado di generare, complessivamente, 4000 miliardi di Watt. Una civiltà di tipo I è in grado di manipolare l'ambiente su scala planetaria: la nostra civiltà è giunta ad un tale livello tecnologico in quanto l'attività umana inizia a modificare sostanzialmente lo stato della Terra.
2) Il secondo riguarda le civiltà in grado di generare una quantità di energia paragonabile a quella di una stella: 400 milioni di miliardi di miliardi di Watt. Una civiltà di tipo II sarebbe in grado di utilizzare e gestire quindi una quantità di energia tale da richiedere un grado di sviluppo tecnologico miliardi di volte piú avanzato del nostro.
3) Il terzo sarebbe riservato a civiltà in grado di sviluppare energie dell'ordine di un'intera galassia, ciò che richiederebbe un livello di sviluppo cento miliardi di volte maggiore.
Per completezza occorre elencare accanto al SETI il programma COSETI (Columbus Optical SETI Observatory) che opera nello spettro delle frequenze ottiche. Scopo del COSETI è quello di rilevare impulsi e fasci di onde di natura Laser sia nelle frequenze dello spettro visibile sia in quelle dell'infrarosso. Tale approccio fu proposto per la prima volta da Schwartz e Townes (SCHWARTZ R. N. - TOWNES C. H., Interstellar and Interplanetary Communication by Optical Masers, Nature 190 (1961), 205-208) nel 1961, un anno dopo l'invenzione del Laser.
Accanto al programma SETI è sorto anche il programma SETV (Search for Extraterrestrial Visitation - http://www.setv.org). Il suo obiettivo è quello di studiare la possibile visita di intelligenze non terrestri nel nostro sistema solare. Sulla base di argomentazioni nate da calcoli statistici sulla migrazione galattica, dai modelli quantitativi sia dell'evoluzione stellare che delle piú avanzate teorie della fisica, è sorto il progetto SETA (Search for Extraterrestrial Artifacts) sviluppatosi nei primi anni '80 e poi evolutosi in SETV. L'intento è quello di studiare la possibilità che intelligenze non terrestri abbiano posizionato oggetti o sonde all'interno del sistema solare e che possano aver visitato e visitare tuttora il nostro pianeta (vedi per es. TEODORANI M., Instrumented Search for Exogenous Robotic Probes on Earth, Conf. Proc. on First European Workshop on Exo/Astrobiology, 21-23 May 2001, ESRIN, Frascati (Rome), Italy, ESA SP-496, 379-381).
All'ipotesi che la presenza di civiltà avanzate possa essere un evento assai diffuso è stato spesso obiettato che finora, né nel presente, né in un passato storico, vi sono stati contatti con esse. Se per ipotesi nella nostra galassia ve ne fossero un milione, esse sarebbero separate da una distanza media di circa 100 anni luce l'una dall'altra. Storicamente questo è noto come il "paradosso di Fermi" perché fu il fisico italiano, quasi per gioco, durante un pranzo a Los Alamos, a fare per la prima volta nel 1950 questo tipo di considerazioni matematiche. Se esistono dove sono dunque? Le risposte date sono state molteplici ma nessuna finora esauriente.
Il dibattito religioso e teologico
Come già detto il tema della presenza della vita intelligente in habitat diversi da quello terrestre non ha mai costituito un terreno di speculazione teologica, né si danno pronunciamenti definitivi del magistero ecclesiale in proposito. La sacra Scrittura, pur presentando l'azione di Dio ed i suoi rapporti con l'umanità in un contesto cosmico, non ne fa menzione. I riferimenti ad alcuni precedenti storici o di dibattito teologico non possono essere pertanto che frammentari. Riepiloghi delle principali posizioni possono trovarsi in alcuni autori come Domenico Grasso (-, La teologia e la pluralità dei mondi abitati, Civiltà Cattolica 103 (1952), IV, 255-265), Angelo Perego (-, Origine degli esseri razionali extraterreni, Divus Thomas 61 (1958), 3-24), Steven J. Dick (-, Plurality of Worlds: The origin of the Extraterrestrial Life Debate from Democritus to Kant, Cambridge 1982), Michael Crowe (-, The Extraterrestrial Life Debate 1750-1900: The Idea of a Plurality of Worlds from Kant to Lowell, Cambridge 1988) e nei saggi di Coyne e Dick raccolti nel volume collettivo curato da Steven Dick (DICK S. J., Vita nel cosmo. Esistono gli extraterrestri?, (Scienze e idee 95), Milano 2002).
Uno dei primi documenti magisteriali disponibili risale ad una lettera di Papa Zaccaria (741-752), nella quale si menziona un presbitero di nome Virgilio che insegnava una dottrina sulla pluralità di mondi abitati. Papa Zaccaria scrive al suo vescovo raccomandandogli:
«De perversa autem et iniqua doctrina ejus, qui contra Deum et animam suam locutus est, si clarificatum fuerit ita eum confiteri, quod alius mundus, et alii homines sub terra sint, seu sol et luna, hunc, habito consilio, ab ecclesia pelle, sacerdotii honore privatum» (cfr. Epistola XI ad Bonifacium, PL 89, 946-947).
Il motivo dottrinale di un simile richiamo però è esclusivamente quello di non introdurre elementi di novità, peraltro estranei alla dottrina comune dell'epoca che, scardinando il principio dell'unità del genere umano, avrebbero reso critica la comprensione del rapporto di quegli esseri, non discendenti dalla coppia primigenia, con Dio, con la dottrina del peccato originale e il mistero dell'universale redenzione.
Nel marzo del 1277 il vescovo di Parigi, Etienne Tempier, allo scopo di proteggere la libertà e l'onnipotenza del Creatore condannò la proposizione di tradizione aristotelica secondo la quale la Causa Prima non potesse creare una pluralità di mondi. Il testo in questione (la proposizione 34a) non menziona nulla però circa i loro possibili abitanti: «Quod prima causa non potest plures mundos facere. [...] Explicit rotulus errorum continens ducentos et decem et novem articulos Parisius damnatos a Stephano eiusdem loci fide digno ministro et episcopo anno Domini MCC septuagesimo sexto, die dominica, qua cantatur Lethare Jherusalem in curia Parisiensi». Alcuni anni prima, alla questione se esistessero molti mondi, Tommaso d'Aquino (1224-1274) nella Summa theologiae rispose affermando l'esistenza di un unico mondo. Queste le sue argomentazioni:
«Ad tertium sic proceditur.
Videtur quod non sit unus mundus tantum, sed plures. Quia, ut Augustinus dicit, in libro octoginta trium quaest., inconveniens est dicere quod Deus sine ratione res creavit. Sed ea ratione qua creavit unum, potuit creare multos, cum eius potentia non sit limitata ad unius mundi creationem, sed est infinita, ut supra ostensum est.
Ergo Deus plures mundos produxit. Praeterea, natura facit quod melius est, et multo magis Deus. Sed melius esset esse plures mundos quam unum, quia plura bona paucioribus meliora sunt. Ergo plures mundi facti sunt a Deo.
Praeterea, omne quod habet formam in materia, potest multiplicari secundum numerum, manente eadem specie, quia multiplicatio secundum numerum est ex materia. Sed mundus habet formam in materia, sicut enim cum dico homo, significo formam, cum autem dico hic homo, significo formam in materia; ita, cum dicitur mundus, significatur forma, cum autem dicitur hic mundus, significatur forma in materia. ergo nihil prohibet esse plures mundos.
Sed contra est quod dicitur Ioan. 1, mundus per ipsum factus est; ubi singulariter mundum nominavit, quasi uno solo mundo existente. Respondeo dicendum quod ipse ordo in rebus sic a Deo creatis existens, unitatem mundi manifestat. Mundus enim iste unus dicitur unitate ordinis, secundum quod quaedam ad alia ordinantur. Quaecumque autem sunt a Deo, ordinem habent ad invicem et ad ipsum Deum, ut supra ostensum est. Unde necesse est quod omnia ad unum mundum pertineant. Et ideo illi potuerunt ponere plures mundos, qui causam mundi non posuerunt aliquam sapientiam ordinantem, sed casum; ut Democritus, qui dixit ex concursu atomorum factum esse hunc mundum, et alios infinitos.
Ad primum ergo dicendum quod haec ratio est quare mundus est unus, quia debent omnia esse ordinata uno ordine, et ad unum. Propter quod aristoteles, in XII Metaphys., ex unitate ordinis in rebus existentis concludit unitatem Dei gubernantis. Et Plato ex unitate exemplaris probat unitatem mundi, quasi exemplati.
Ad secundum dicendum quod nullum agens intendit pluralitatem materialem ut finem, quia materialis multitudo non habet certum terminum, sed de se tendit in infinitum; infinitum autem repugnat rationi finis. Cum autem dicitur plures mundos esse meliores quam unum, hoc dicitur secundum multitudinem materialem. Tale autem melius non est de intentione Dei agentis, quia eadem ratione dici posset quod, si fecisset duos, melius esset quod essent tres; et sic in infinitum.
Ad tertium dicendum quod mundus constat ex sua tota materia. Non enim est possibile esse aliam terram quam istam, quia omnis terra ferretur naturaliter ad hoc medium, ubicumque esset. Et eadem ratio est de aliis corporibus quae sunt partes mundi» (S. Th. I, q. 47, a. 3).
Il dibattito medioevale sulla molteplicità dei mondi, pur offrendo spunti di particolare interesse, non è tuttavia pienamente utile per conoscere la posizione della teologia dell'epoca nei confronti della vita non terrestre come noi la intendiamo. La loro teologia era puramente speculativa, la nostra riflessione teologica, grazie ad un approccio interdisciplinare con la scienza, è aperta a un orizzonte di gran lunga piú aderente al reale, quanto alla conoscenza della natura. Il concetto di "pluralità di mondi" non equivaleva infatti a ciò che noi intendiamo oggi quando parliamo di diversi pianeti, eventualmente abitati. L'unità del mondo si riferiva, infatti, all'unità dell'Universo.
Frontespizio del libro di Fontenelle
Nel pensiero di Tommaso e di altri teologi medioevali, essa discendeva dall'unità del suo Creatore e dall'unità della sua causalità finale esercitata su tutto ciò che esiste. Nel testo citato, l'Aquinate associa infatti l'idea di una pluralità dei mondi ai fautori del caso i quali, come Democrito, negavano una sapienza ordinatrice. Il monito di Tempier, nel quale il concetto di mundus non coincideva totalmente con l'uso fattone da san Tommaso, intendeva essere solo un correttivo di carattere accademico, piuttosto che un intervento ecclesiale in senso stretto, allo scopo di mantenere inalterati i caratteri del Creatore, e ciò non tanto nella sfera del reale, quanto in quella del possibile (vedasi TANZELLA-NITTI G., Vita extraterrestre, in Aa. Vv., Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Roma 2002, 599).
Il dibattito attorno al sistema eliocentrico non ebbe ripercussioni di particolare importanza sul nostro tema. Alcuni ecclesiastici, manifestando in questo una mera opinione personale, ritennero che assimilare la Terra agli altri pianeti avrebbe potuto condurre alcuni novatores a spingersi ancor piú in là, fino ad ammettere anche in quelli degli abitanti, con le conseguenze già intraviste da papa Zaccaria nel secolo VIII. Questa preoccupazione è evidente in una lettera dell'abate Giovanni Ciampoli inviata all'amico Galileo Galilei il 28 febbraio 1615 (cfr. Galileo, Opere, a cura di A. Favaro, Firenze 1968, XII, 146) e in un'altra inviata dall'abate Le Cazre al reverendo Pierre Gassendi (1592-1655) (cfr. P. Gassendi, Opere, VI, Lione 1658, 451). Tutto il secolo XVII risulta caratterizzato da un atteggiamento di prudenza, come dimostra anche il fatto che il libro di Fontenelle, Entretiens sur la pluralité des monds fu inserito, nel 1687, nell'Index librorum prohibitorum.
Nel XVIII secolo il clima teologico muta, si aprono alcuni spiragli e la critica si fa piú audace. Nell'epoca precedente furono poste le basi per una nuova visione del mondo, i suoi orizzonti divennero piú vasti, tuttavia la teologia non era ancora in grado di inquadrare sufficientemente i problemi dogmatici che la vita su altri mondi avrebbe posto alla cristianità. Il tema tuttavia veniva accolto con maggiore apertura e senza particolari timori, tanto che la teologia anglicana, per esempio, contemplerà la possibilità di una vita extraterrestre nei suoi trattati di teologia naturale. Interessante al riguardo è l'opera di William Derham (1657-1735), gentiluomo inglese e cultore di astronomia (DERHAM W., Astro-theology, London 1714) che tuttavia non otterrà un'eco notevole. Decisamente piú forte invece sarà la reazione nei confronti di un'opera di Thomas Paine (1737-1809), (PAINE T., The Age of Reason. Being an Investigation of True and Fabulous Theology, Philadelphia 1794), il quale affermerà per la prima volta, e in modo diretto, un'incompatibilità radicale fra la religione cristiana e l'esistenza di vita intelligente non terrestre; secondo Paine una tale scoperta avrebbe condotto inevitabilmente a una sua negazione. Cosí scrive con un certo sarcasmo:
«From whence, then, could arise the solitary and strange conceit that the Almighty, who had millions of worlds equally dependent on his protection, should quit the care of all the rest, and come to die in our world, because, they say, one man and one woman had eaten an apple? And, on the other hand, are we to suppose that every world in the boundless creation had an Eve, an apple, a serpent, and a redeemer? In this case, the person who is irreverently called the Son of God, and sometimes God himself, would have nothing else to do than to travel from world to world, in an endless succession of deaths, with scarcely a momentary interval of life. It has been by rejecting the evidence that the word or works of God in the creation afford to our senses, and the action of our reason upon that evidence, that so many wild and whimsical systems of faith and of religion have been fabricated and set up. There may be many systems of religion that, so far from being morally bad, are in many respects morally good; but there can be but one that is true; and that one necessarily must, as it ever will, be in all things consistent with the ever-existing word of God that we behold in his works. But such is the strange construction of the Christian system of faith that every evidence the Heavens afford to man either directly contradicts it or renders it absurd».
La critica di Paine non sarà condivisa da molti astronomi credenti e aperti ad un'ipotesi pluralista come lo furono per esempio Thomas Wright (1711-1786), Johann Heinrich Lambert (1728-1777) e William Herschel (1738-1822) e susciterà l'opera di teologi che ne confuteranno le tesi. Tra questi si annoverano in Scozia Thomas Chalmers (1780-1847) autore degli Astronomical Discourses (1817); Thomas Dick (1774-1857) autore del The Christian Philosopher or The connection of science and philosophy with religion (1823) e, negli Stati Uniti, Timothy Dwight (1752-1817) autore dell'opera Theology Explained and Defended in a Series of Sermons, pubblicato a New Haven nel 1818.
A favore dell'ipotesi di una pluralità di mondi abitati si schiererà apertamente invece, nel XIX secolo, l'opera teologica di Joseph Pohle (1852-1922) dal titolo I mondi stellari ed i loro abitanti (Die Sternenwelten und ihre Bewohner, Köln 1884) che conoscerà diverse edizioni per circa un ventennio. Pohle affermò che il fine della creazione è quello di manifestare la gloria di Dio, essa pertanto deve pur essere tributata da tanti esseri intelligenti disseminati per il cosmo e con il quale - a differenza del mondo angelico, puramente spirituale - mantengono una stretta relazione. Le stesse posizioni verranno condivise da vari scienziati suoi contemporanei, fra cui gli italiani Angelo Secchi (1818-1866) e Francesco Denza (1834-1894), ambedue sacerdoti ed astronomi. Una tesi simile verrà sostenuta anche in uno dei piú noti manuali di teologia degli anni '50-70 scritto da Michael Schmaus (cfr. SCHMAUS M., Katolische Dogmatik, München 1957, II, n. 109).
La teologia odierna non dedica un'attenzione particolare al nostro tema, talvolta sono presenti brevi richiami, in genere nella linea di una prudente apertura, ad una eventualità che tuttavia resta sempre ipotetica, non essendo confortata da alcun dato scientifico oggettivo. In questo contesto possiamo registrare gli interventi di E. Milne (-, Modern Cosmology and the Christian Idea of God, Oxford 1952), E. Mascall (-, Christian Theology and the Natural Science, London 1956) e in misura particolare di K. Delano (-, Many Worlds, One God, New York 1977). Paul Tillich lamenterà l'assenza di una riflessione adeguata in campo teologico in una delle sue opere principali (-, Systematic Theology, II, Chicago 1957, 95-96). Teilhard de Chardin vi dedicherà solo un breve saggio con l'opera La multiplicité des mondes habités (La multiplicité des mondes habités, in Ce que je crois, Seuil 1969, 275; La multiplicité des mondes habités, in Oeuvres, Paris 1969, X, 282). A parte questi studi, piuttosto circoscritti, il tema delle implicazioni teologiche della vita nell'universo resta oggetto di conferenze e dibattiti di vario genere ma non ad un livello apprezzabile e di particolare maturità scientifica.
Come si può notare, il punto di partenza della maggior parte delle riflessioni teologiche resta sostanzialmente quello di Joseph Pohle: la grandezza e la gloria del Creatore sono compatibili con il dono della vita e della vita intelligente nel cosmo, anche in numerosi ambienti diversi dalla Terra, benché non siano noti i piani di Dio per le creature che li abitano. Elemento costante in tutte le opere degli autori che risposero alla critica di Thomas Paine è il tema della redenzione dal peccato originale. Essa riguarderebbe solo il genere umano e non potrebbe essere applicata ad altre creature. La stessa considerazione era stata fatta secoli prima dal francescano Guglielmo de Vorillon (1390-1463), e costituisce solo una prima approssimazione al problema (cfr. MCCOLLEY G. - MILLER W., St. Bonaventure, Francis Mayron, William Vorilong and the Doctrine of a Plurality of Worlds, Speculum 12 (1937), 386-389). Questa tesi tuttavia trova il suo punto debole nella dottrina della universalità del peccato e quindi della redenzione come formulata dalla teologia paolina (vedi per es. Rm 11,28-32).
Ma alcuni autori si spingono piú in là ammettendo la possibilità - peraltro difficilmente condivisibile - di varie unioni ipostatiche ove ciò fosse rispondente alla volontà salvifica universale di Dio (MASCALL E., Christian Theology and the Natural Science, London 1956). E. Milne, nell'opera Modern Cosmology and the Christian Idea of God (Oxford 1952), suggerisce che l'unicità dell'Incarnazione potrebbe essere compatibile col fatto che le comunicazioni fra una civiltà e l'altra costituirebbero un mezzo per informare altre creature intelligenti circa la storia della salvezza realizzata da Dio in favore dei terrestri (tesi della "informazione redentiva"), tale da costituire una sorta di traditio fidei. Kenneth Delano nell'opera Many Worlds, One God (New York 1977), si distingue per alcune posizioni interessanti ma non del tutto nuove. Secondo Delano la grandezza di Dio ha concepito un universo molto piú ricco di quanto sia dato allo stato attuale di concepire, in questo contesto la trascendenza dei piani divini non lascia spazio ad atteggiamenti antropocentrici. Egli sostiene l'eventualità dell'incarnazione per ogni persona divina, in qualsiasi luogo, non ponendo alcun limite alla storia della salvezza, egli pertanto non propugna una sorta di teoria dell'unica redenzione cosmica, nella quale l'atto redentivo di Cristo sulla Terra sarebbe applicabile all'intero universo. Le posizioni di Mascall e di Delano circa la possibile molteplicità dell'incarnazione del Figlio o di altre Persone divine hanno il notevole limite di porsi al di fuori di una comprensione cristiana della Rivelazione e rischiano seriamente di prestare il fianco alla già menzionata critica di Thomas Paine nel suo libro The Age of Reason, precedentemente citato.
Da segnalare la posizione di Charles Davis (-, The Place of Christ, in The Clergy Review 45 (1960), 706-718) fondata sul dato biblico della centralità cosmica di Cristo nei confronti dell'intero universo materiale. Egli pone in rilievo la teologia paolina sul Cristo come colui che ricapitola in sé tutto il creato, le cose che sono sulla terra e quelle del cielo (Ef 1,10; Col 1,16), ne conclude pertanto che la posizione teologicamente piú corretta e consona alla Tradizione ecclesiale postula l'unicità dell'unione ipostatica (l'assunzione della natura umana da parte della persona divina del Figlio), avvenuta semel pro semper, una volta per tutte, nell'esclusivo contesto dell'economia salvifica terrestre. Questa tesi ha anche il pregio di spostare l'attenzione dall'antropocentrismo al cristocentrismo. In questa ottica l'incarnazione del Verbo costituisce la maggiore auto-comunicazione di Dio alla creazione. Nel 1953 Pierre Teilhard de Chardin in un suo scritto (La multiplicité des mondes habités, in Ce que je crois, Seuil 1969, 275; La multiplicité des mondes habités, in Oeuvres, Paris 1969, X, 282) afferma la centralità di Cristo in tal senso, ma sottolinea nel contempo l'azione di una terza "natura cosmica", lasciando ad essa e non alla natura umana del Verbo, il compito di ricapitolare in Lui tutta la creazione. Teilhard tenterà cosí di superare l'ostacolo dell'antropocentrismo introducendo tuttavia arbitrariamente un elemento del tutto estraneo al dogma cristologico, che afferma la duplice natura (umana e divina), unite nella persona divina del Verbo (DS 300-303).
Ulteriori linee di approfondimento teologico
Il tema della possibilità di una vita intelligente di origine non terrestre rappresenta per la teologia cristiana uno dei maggiori sforzi speculativi in senso assoluto. Si aprono dinanzi alla nostra mente molti interrogativi che saranno destinati a restare tali per lungo tempo. La storia non ci offre analogie adeguate se non l'incontro fra popoli e religioni differenti nel corso dei tempi. È una storia drammatica dove lo shock culturale e tecnologico ha messo in crisi molti principi, talvolta universalmente condivisi, ma che poi ha elevato l'umanità ad una nuova visione di sé e a nuove dimensioni spirituali. Lo studio attento del passato, non di rado, offre delle soluzioni anche per il futuro. Oltre le apparenze che sembrano relativizzare l'importanza del messaggio cristiano occorre meditare profondamente sul significato del mistero dell'Incarnazione del Verbo e sulla singolarità dell'unione ipostatica: questo evento-incontro fra il Creatore e la creazione, fra il divino e l'umano, manifesta la forza di una comunione universale che oltrepassa ogni confine. In questa straordinaria elevazione e assunzione del creato nel divino si nasconde la chiave per comprendere anche il rapporto fra noi e il cosmos. I lenti e incerti sviluppi del progresso umano talora sembrano porre in discussione molti dei principi su cui si basa la nostra dimensione religiosa, in realtà, solo il tempo e il pieno dispiegarsi della conoscenza potranno darci un quadro completo - benché sempre perfettibile - della verità. Ciò che oggi è scienza domani potrà manifestarsi come ignoranza, ecco perché un vero processo di conoscenza non può prescindere da un atteggiamento di umiltà: quella umiltà che finora ci impone di riconoscere anzitutto i nostri limiti.
Il rapporto con altre religioni e culture impone alla teologia una continua rilettura di sé e della Parola di Dio, impone il continuo sforzo di rileggere ciò che è "altro" alla luce del mistero di Cristo: è interessante al riguardo la linea offerta dal documento della Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni, La Civiltà Cattolica 148 (1997), I, 146-183. È solo una traccia in quanto il tema della vita nel cosmo, scavalcando l'unità del genere umano creato e redento in Cristo, pone un problema del tutto nuovo rispetto a quello, ad esempio, delle relazioni con i popoli autoctoni dell'America, per i quali Paolo III (1534-1549), dinanzi ad una divergenza con la monarchia spagnola, non ebbe difficoltà a riconoscerne l'appartenenza alla discendenza di Adamo (DS 1495).
Allo stato attuale occorre dire che non vi sono, da parte del magistero della Chiesa e da parte della riflessione teologica, argomenti pregiudiziali che impediscano di ammettere tale possibilità. La volontà e la libertà insondabili di Dio Creatore, il riconoscimento del valore intrinseco della vita, la dignità della vita personale e intelligente, ovunque essa si manifesti, sono argomenti molto validi per ritenere che anche in altri luoghi dell'universo si manifesti un riflesso di quella Vita che tutti i veri credenti sanno risiedere in Dio stesso, con qualunque nome venga invocato. La tradizione ebraico-cristiana, come pure quella islamica, professa l'esistenza degli angeli, esseri spirituali intelligenti, personali, liberi e partecipi della vita divina. È interessante notare che si tratta di un elemento fermo nella dottrina cattolica, essendo stato oggetto, piú volte, di interventi magisteriali diretti e indiretti, citiamo principalmente il I Sinodo di Braga (Portogallo) del 561 (DS 451-464); il Concilio Ecumenico Lateranense IV del 1215 (DS 800); il Concilio di Firenze del 1431-1447 (DS 1347 e 1349); il Concilio Ecumenico di Trento del 1545-1563 (DS 1521, 1523 e 1668). Il Concilio Vaticano II presenta diversi testi interessanti, fra i quali: SC 6; LG 5, 16-17, 35, 48, 55 e 63; DH 11; AG 3, 9, 14 e relativa nota 19; GS 2, 13, 22, 37. Sono numerosi anche gli interventi magisteriali pontifici degli ultimi decenni fra i quali citiamo a titolo di esempio quello di Paolo VI nell'udienza generale del mercoledí 15 novembre 1972 (cfr. Insegnamenti, X (1972), 1168-1170) e di Giovanni Paolo II a Torino (cfr. L'Osservatore Romano, 5-6 settembre 1988, 7).
Questi pronunciamenti magisteriali volti a tutelare la fede cattolica dimostrano che il senso della creazione non si gioca tutto sul rapporto fra l'uomo e Dio, ma resta aperto ad altre creature le quali, pure in relazione a Dio, hanno una storia distinta da quella del genere umano e partecipano in diverso modo all'economia della salvezza. Tommaso d'Aquino, ad esempio, diede ragioni di convenienza per sostenere che il numero di questi esseri spirituali sarebbe tale da superare qualsiasi molteplicità materiale (cfr. Summa theologiae, I, q. 50, a. 3).
A dispetto di queste considerazioni tuttavia, la singolarità del genere umano, in quanto unica forma di vita intelligente e cosciente nel cosmo, rappresenterebbe per la teologia la soluzione piú "facile", poiché non la obbligherebbe a ri-comprendere alcuni aspetti della Rivelazione. È una soluzione anch'essa ragionevole e - allo stato attuale delle ricerche - non può certo essere qualificata come non scientifica anche se spesso - in campo biblico è ben noto - la lectio facilior non è la migliore. Oggi sappiamo che la grandezza dell'universo è legata ad una necessità definita da alcuni di origine antropica (principio antropico): ai lunghi tempi necessari per produrre nelle stelle gli elementi chimici indispensabili alla vita corrispondono necessariamente anche degli enormi spazi, ne risulta pertanto indebolito l'argomento probabilistico che parte dalla constatazione della grandezza del cosmo, ma anche l'argomento teologico sulla convenienza che molteplici esseri intelligenti manifestino ancor piú la profondità del mistero e della gloria di Dio. Certamente l'odierna teologia, a partire da una visione paolina, non può piú accettare il discorso scolastico e medioevale di un Dio che crea allo scopo di "darsi gloria". Con una immediatezza assunta dalla sensibilità teologica francescana possiamo solo dire che il bene, l'amore è diffusivum sui. Questa in realtà appare l'unica vera ragione dell'operato divino e questo argomento sarebbe certamente a favore di una molteplicità la piú ampia possibile.
In merito all'espressione principio antropico occorre rilevare che fu il cosmologo Brandon Carter a coniarla nel 1974 (CARTER B., Confrontation of Cosmological Theories with Observation, Dordrecht 1974, 291) ma l'idea non è nuova: la si ritrova infatti in molte filosofie e religioni. Molti scienziati liquidarono l'espressione con un'alzata di spalle perché quel principio andava contro la "decentralizzazione" dell'uomo rispetto all'universo avviata da Copernico e da Keplero. Tuttavia il seme era stato gettato. È difficile dare uno statuto epistemologico a questo principio, esso ha il pregio di mettere in evidenza la scoperta, indubbiamente carica di suggestione, che l'universo è critico rispetto alla biologia. Questo tuttavia da un punto di vista strettamente scientifico non ci autorizza a concludere che l'universo è com'è al fine di permettere la vita e, in particolare, la vita intelligente quale noi la conosciamo. Si potrebbe infatti obiettare che l'evento "vita umana" appare molto improbabile solo perché noi guardiamo le cose dal punto di vista dell'evento compiuto, ma forse non sarebbe cosí se potessimo metterci da altri punti di vista. In ogni modo al "principio antropico" va riconosciuto il merito di aver introdotto il fattore biologico come un fattore in piú di cui ogni cosmologo deve tener conto e questo è un problema scientifico dalle sfaccettature filosofiche e religiose vertiginose (vedasi anche l'interessante testo di Barrow John D. - Tipler Frank, Il principio antropico, Milano 2002).
Come già affermato in precedenza, in un universo in espansione - l'unico che può condurre alla formazione di strutture e di ambienti adeguati alla vita - il lungo tempo richiesto dall'evoluzione biologica si traduce necessariamente in un grande spazio ed in una grande quantità di materia formata o in formazione. In un simile universo è ragionevole supporre la simultanea comparsa di molte civiltà quasi coeve, come anche quella di una sola. La teleologia messa in luce dal principio antropico non offre conclusioni sulla molteplicità o singolarità della vita intelligente, ma solo sui tempi necessari alla sua comparsa e sul legame non accidentale con la struttura dell'universo. Non conoscendo le ragioni ultime dell'origine della vita, la scienza non può sapere se essa risponda ad una sorta di imperativo categorico o se sia un evento altamente improbabile: dunque, anche equazioni come quella di Drake, riguardano condizioni "necessarie", ma non "necessarie e sufficienti" alla presenza della vita intelligente (vedi TANZELLA-NITTI G., Vita extraterrestre, in Aa. Vv., Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Roma 2002, 603).
Il tabulato del segnale radio a banda stretta rilevato
dal dr. Jerry R. Ehman il 15-08-1977,
grazie al Radiotelescopio Big Ear, dell'Università dello Stato dell'Ohio
(Stati Uniti).
Il dr. Ehman, impegnato nel progetto SETI, scoprì un segnale di
72 secondi che non venne mai più rilevato.
Ehman, controllando i tabulati stampati dai computer del radiotelescopio,
stupito dalla probabile
origine interstellare del segnale, lo evidenziò e scrisse a fianco
il commento “Wow!”.
Altro punto fermo della nostra riflessione è che l'immagine di Dio consegnata dalla nostra tradizione ebraico-cristiana, per quanto possa sembrare strano, non è geocentrica, né antropocentrica ma si rivela universale e trascendente, soggetto di una onnipotenza creatrice la cui portata è di ordine cosmico e non solamente locale. Anche nel contesto della vita libera e cosciente l'immagine trinitaria si presenta con i caratteri dell'universalità: lo sono l'esistenza di una paternità e di una filiazione, la cui intelligibilità è legata proprio al processo generativo comune ad ogni vivente, e lo è l'esistenza di un Amore-Dono, lo Spirito Santo, la cui comprensione rimanda all'idea di comunione, di altruismo e di donazione, che non è certamente estranea alla dinamica di una vita cosciente. Questo basta a confutare l'opinione secondo la quale la teologia cristiana, per aprirsi alla possibilità di una vita intelligente nel cosmo, debba abbandonare la propria immagine di Dio.
Ogni credente vedrebbe un eventuale incontro con una civiltà non terrestre come un'esperienza certamente straordinaria; sarebbe tendenzialmente incline a manifestarvi un senso di rispetto, a riconoscervi un'origine comune, una possibilità nuova di comprendere meglio i rapporti di Dio con l'intero creato. Un simile incontro, e forse il successivo dialogo, non potrebbero non avere una dimensione religiosa, nel senso piú naturale del termine. Un credente rispettoso delle esigenze della ragione scientifica non sarebbe per questo obbligato a rinunciare alla propria fede solo sulla base di nuove informazioni di carattere religioso provenienti da civiltà non terrestri. Proprio la ragione gli imporrebbe in primo luogo di sottoporne il contenuto ad un'analisi di ragionevolezza, analogamente a quanto siamo abituati a fare nel nostro contesto interculturale, e, una volta verificatane l'attendibilità, dovrebbe sforzarsi di comporre tali nuove conoscenze con le verità note sulla base della rivelazione cristiana. L'approccio metodologico della rilettura inclusiva dei nuovi dati, analoga a quella che applichiamo nel dialogo interreligioso, è certamente il migliore e il piú prudente (vedasi TANZELLA-NITTI G., Vita extraterrestre, in Aa. Vv., Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Roma 2002, 603).
Sarà bene tuttavia non cadere nell'illusione che un eventuale contatto del genere possa portarci delle risposte definitive o ultime sulla validità della coscienza religiosa dell'umanità e sulle grandi domande dell'esistenza. Sarebbe assai ingenuo credere che altre civiltà, esse pure partecipi della nostra limitata dimensione creaturale, per quanto tecnologicamente e socialmente progredite, possano fornire delle risposte "qualitativamente" molto diverse alle domande filosofiche e soprattutto religioso-esistenziali che accompagnano la nostra vita. In quanto creature anche i nostri eventuali vicini cosmici non possono che condividere la nostra situazione di "pellegrini dello spazio-tempo" e di cercatori della verità. Ben piú grave e urgente invece potrebbe essere il problema dello shock culturale e tecnologico: nel 1513 gli indios quechua appresero dello sbarco di uomini bianchi provenienti dal mare. Come era avvenuto una decina di anni prima con gli Aztechi, Pizzarro seppe sfruttare abilmente la leggenda del loro dio Viracocha che sarebbe dovuto ritornare dal mare come aveva promesso; i valorosi guerrieri quechua erano estremamente insicuri trovandosi a dover combattere contro degli uomini rassomiglianti all'immagine della loro divinità. Le armi da fuoco e i combattenti a cavallo, che parevano centauri, fecero il resto insieme alla micidiale diffusione del vaiolo che decimò i vinti. Non meno violento fu lo shock che devastò le menti dei sopravvissuti costretti a cambiare in breve tempo tradizioni culturali, credenze religiose e sistema economico.
Approfondendo la nostra riflessione teologica dobbiamo porre ulteriormente in evidenza un altro aspetto di particolare importanza. Abbiamo detto che in forza del mistero dell'Incarnazione Cristo è colui che ricapitola «in sé tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10). Si tratta di una centricità che non rimanda ultimamente né all'antropocentrismo, né al geocentrismo. Egli, non i nostri riferimenti spazio-temporali e/o umani, occupa il centro della storia e dell'universo. Se l'evento dell'incarnazione fa sí che Egli "ci appartenga" è altrettanto vero che Egli è colui che restituisce l'umanità (e tutta la nostra dimensione) a Dio, collocandola in una dimensione che non è piú puramente terrena ma anche ultraterrena e che sarà rivelata in pienezza nei tempi escatologici. Alla luce di quanto abbiamo appena detto si evidenzia anche il valore rivelativo e salvifico universale, e non solo terreno, dell'evento-incarnazione. La ricapitolazione di cui parla l'apostolo Paolo nella lettera agli efesini riguarda chiaramente anche le creature angeliche (Eb 1,3-14 e 2,5-18) e pertanto, a maggior ragione, andrebbe interpretata come rivelativa del suo status capitale nei confronti di tutte le possibili creature (cfr. oltre a Ef 1,10 anche il testo di Col 1,20). La dimensione infinita insita nell'evento dell'unione ipostatica fa sí che anche il sacrificio vicario di Cristo abbia un valore infinito. Come questo sia applicabile all'intero universo resta per la nostra comprensione teologica un mistero, ma non è certo moltiplicandone gli accadimenti storici che se ne accresce l'efficacia. La celebrazione eucaristica, per esempio, come tutti i sacramenti, applica in tempi e in luoghi diversi i frutti di quel medesimo evento storico, senza moltiplicarlo in alcun modo. È lecito ritenere pure, contrariamente a quanto suggerito da altri autori, che la sua pienezza - ove questa fosse necessaria ad altri esseri intelligenti e liberi - non dipenda da un nostro impegno missionario o da una comunicazione mediata (sebbene questi fattori possano e forse debbano operare). Quelli a noi noti sono i canali ordinari della grazia, quel che è altrettanto certo è che non sono gli unici e che le vie di Dio sono illimitate. Analogamente a quanto avviene nell'economia salvifica terrena, lo Spirito Santo condurrebbe alla verità tutta intera (Gv 16,13) sul mistero di Dio e lo renderebbe in qualche modo presente. Il tutto, nella logica convinzione che il Creatore abbia in ogni luogo i suoi modi per farsi conoscere e rendersi presente a tutte le sue creature.
«Dio ha assunto in Cristo una natura creata, una volontà e una libertà finite, facendo propria l'esperienza del limite e della creaturalità e ciò ha un valore che va certamente al di là della creatura umana in quanto tale. Ma Cristo ha assunto su di Sé anche la realtà della morte e ne ha rivelato la non ultimità, prefigurando nel suo corpo risorto un destino che appartiene all'intero universo e non solo all'uomo. Ma quale risonanza avrebbe questo per altre creature i cui rapporti originari ed originanti con Dio noi ignoriamo? In una prospettiva in cui la morte biologica fosse una conseguenza che dipende in modo diretto, totale ed esclusivo dal peccato originale di Adamo, non avremmo piú nulla da dire e resteremmo comunque in attesa di un chiarimento teologico che migliori la nostra comprensione delle cose. In una prospettiva che lasciasse invece un maggiore spazio di manovra, il termine del ciclo vitale di un essere creaturale, non necessariamente legato ad un peccato d'origine, potrebbe essere visto come il luogo dell'accettazione cosciente della sua creaturalità e finitezza, il luogo di un'esperienza suprema, alla quale la morte della vera umanità di Cristo sulla croce avrebbe molto da dire, cosí come la sua resurrezione» (cfr. TANZELLA-NITTI G., Vita extraterrestre, in Aa. Vv., Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Roma 2002, 604).
Circa il tema del rapporto fra peccato e libertà nella storia personale di altri esseri non è possibile formulare delle ipotesi deduttive. Negli unici due casi che la teologia conosce per induzione, il genere umano e le creature angeliche, questa associazione si è verificata. La libertà è la condizione imprescindibile perché la creatura sia capace di amare (auto-donarsi-realizzarsi) autenticamente e quindi possa recare in sé l'impronta di Dio creatore. Il peccato è un rischio insito in questa condizione di libertà e la possibilità di incorrervi è innegabile, tuttavia anche questo contribuirebbe a rendere la redenzione cristiana come necessaria ad eventuali creature libere non appartenenti al nostro contesto terreno.
Finora abbiamo basato la nostra riflessione teologica partendo da un dato di fondo, da una sorta di principio antropico, quasi che l'origine terrestre della vita sia una premessa indispensabile nel rapporto con Dio e con il suo disegno salvifico. Preso atto della realtà innegabile di tale rapporto sorge la domanda se esso, fino ad oggi, non sia stato considerato in modo troppo "esclusivo" o addirittura preclusivo. Che cosa ci rende "cittadini" di quello che le Sacre Scritture chiamano regnum Dei? Non certo il semplice fatto di essere nati su questo pianeta. La teologia al riguardo è sempre stata molto chiara: l'accesso alla figliolanza divina di adozione è dato dal sacramento del battesimo, ossia da un atto che è al tempo stesso naturale e soprannaturale, umano e divino. È questa soprannaturalità che rende quel gesto anche "ultraterreno", come tale è anche il nostro destino escatologico. Senza questo dono e questa elezione restiamo nella nostra condizione creaturale, non siamo piú figli, ma solo "creature di Dio". Ma questa sorta di "cittadinanza" o di appartenenza previa è ovviamente la condizione indispensabile per essere resi capaci di un rapporto di filiazione. L'essere "creatura di Dio" implica l'appartenere localmente al genere Homo e alla specie: Homo sapiens? Oppure semplicemente l'appartenere a questo cosmos? È innegabile che in realtà qualunque eventuale creatura intelligente di questo universo può fregiarsi del titolo di "creatura di Dio", il concetto di creazione è universale, ne consegue una universale capacità ad essere l'oggetto di quella elevazione soprannaturale che contempliamo nella nostra Rivelazione e che è l'oggetto principale della teologia. Cristo non è solo "cittadino" di questa Terra ma, nella Terra, dell'intero cosmos, come del resto tutti noi. Da un punto di vista scientifico sappiamo ormai che le leggi della fisica e della chimica sono uguali nell'intero universo. La medesima struttura della materia non può evolversi se non all'interno dei limiti intrinseci alla sua essenza. Ne consegue che anche la successiva evoluzione biologica non può discostarsi di molto dalla realtà che noi contempliamo nel nostro pianeta. Le basi biologiche della vita per esempio non possono sorgere al di fuori della chimica del carbonio e della sua capacità ineguagliabile di stabilire legami chimici con un gran numero di altri elementi e composti. Non esistono alternative valide alla chimica del carbonio, né le leggi chimico-fisiche ci consentono di immaginare fenomeni bio-fisiologici sostanzialmente diversi da quelli noti. La chimica del silicio, per esempio, l'elemento piú vicino al carbonio, è troppo lenta nelle sue reazioni, troppo dispendiosa in termini energetici. La sua struttura atomica non consente la creazione della varietà dei composti che vediamo nel carbonio. Questo significa che eventuali creature intelligenti, pur vivendo in altri luoghi anche molto distanti dal nostro, non possano non essere sostanzialmente simili a noi anche quanto alla struttura genetica e fisica di base. A questo punto dove sarebbe la differenza rispetto alla nostra specie? L'unico spazio possibile per una differenziazione notevole resterebbe quello culturale, ma anche in questo caso i binari della ragione e della logica ci ricondurrebbero a degli schemi fondamentali simili o comunque condivisibili. La sorpresa di un eventuale futuro potrebbe forse riguardare piú la somiglianza che non la diversità.
Anche per questo non riteniamo che il dibattito sulla vita non terrestre possa costituire per la teologia cristiana il luogo determinante della sua verifica critica, per quanto rappresenti uno straordinario stimolo ad accrescere l'intelligibilità delle sue formulazioni. «Esistono, come segnalato, alcuni punti fermi ed alcune piste di riflessione, come esiste pure una soluzione "classica", quella dell'unicità del genere umano, che in assenza di prove stringenti non parrebbe corretto considerare obsoleta semplicemente sulla base dell'apertura di orizzonti recata dalla cosmologia contemporanea» (cfr. TANZELLA-NITTI G., Vita extraterrestre, in Aa. Vv., Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, I, Roma 2002, 604). Una soluzione diversa richiederebbe un lavoro di ri-comprensione che, analogamente a quanto avviene in fisica con le soluzioni quantistiche o relativistiche, sia capace di mantenere molte delle verità contenute nella soluzione classica, rivelandone un ambito piú ristretto di applicazione, oppure comprendendole in un contesto piú generale.
Assodato che chi si occupa di teologia non può non guardare con interesse, come ogni altro essere umano, alla ricerca della vita al di là del nostro pianeta, dobbiamo puntualizzare che il dilemma non sta nel "credere o non credere" all'esistenza di altre forme di vita: siamo infatti di fronte ad una possibilità di eventi fattuali la cui conoscenza sarà possibile solo mediante dei fatti di natura sensibile, come la scoperta, in modo diretto e sperimentale, di forme semplici di vita, oppure il contatto via radio con forme di vita intelligente. La risposta può venire solo dai fatti, se e quando li avremo, non dalle nostre ipotesi o preconcetti. Se mai un giorno la notizia arrivasse, dovremmo accoglierla con spirito di umiltà. Con il desiderio di capire, e di aprirci a una verità che assumerebbe davvero una portata e dei contorni insospettati.
Il progetto SETI e la riflessione teologica
Abbiamo già risposto alla domanda su quali possano essere alcune delle ricadute di un successo SETI sul nostro pensiero religioso. Il motivo per cui la teologia può condividere un interesse per il progetto SETI dipende essenzialmente dal valore della vita intelligente e cosciente in quanto tale, per quello che essa è e ultimamente significa: l'essere partecipazione e riflesso di quella Vita e di quella Sapienza che è Dio Stesso.
Se anche dovessimo considerare la vita come un fenomeno diffuso nell'universo ciò non obbligherebbe la teologia ad abbandonare la sua visione della vita come dono di Dio, né gli impedirà di considerarla come il risultato di una progettualità che trascende l'ordine fisico delle cose; le domande ultime infatti restano inaccessibili alla scienza. Queste considerazioni non sono del tutto nuove, sono già state fatte, pur con certo travaglio intellettuale, dopo Cristoforo Colombo e, ancor piú, dopo Copernico e Darwin. Non abbiamo motivi per non ritenerlo possibile anche dopo un eventuale successo SETI.
Come per l'eliocentrismo e per l'evoluzione biologica, la teologia aveva già degli strumenti per effettuare tale ri-comprensione, come ne possiede oggi per il tema della vita non terrestre. Basti pensare all'esegesi non letterale della Sacra Scrittura, disponibile anche ai tempi di Galileo, o alla visione evolutiva contenuta nelle rationes seminales di Agostino: Dio avrebbe creato, insieme alla materia, virtualmente, tutte le possibilità di attuazione della medesima infondendo in essa appunto le «ragioni seminali» di ogni cosa; l'evoluzione del mondo nel decorso del tempo altro non è se non l'attualizzarsi e il realizzarsi di tali «ragioni».
Un sincero atteggiamento credente, non pone mai limiti alla potenza e alla ricchezza sempre sconvolgente dell'amore creativo di Dio. Molti scienziati credenti ce lo hanno ricordato lungo la storia. Ad esempio, padre Angelo Secchi, sacerdote e antesignano della classificazione spettrale delle stelle, affermava nelle sue Lezioni elementari di fisica terrestre del 1879 che... "La vita riempie l'universo e con la vita va associata l'intelligenza. Come abbondano gli esseri a noi inferiori, cosí possono in altre condizioni esisterne altri immensamente piú capaci di noi".
Allo stato attuale quale contributo può offrire la fede, la teologia cristiana in particolare, alla ricerca propugnata dal SETI?
Anzitutto la considerazione della vita intelligente come dono di Dio dispone ad un atteggiamento di fratellanza verso coloro che ne partecipano. Alla fine dei conti qual è il senso ultimo della ricerca della vita su altri mondi se non quello di entrare in un dialogo fecondo con essa? Cosa, piú della riflessione religiosa, può svolgere un ruolo-guida nell'orientare correttamente le ricadute di una tale scoperta sulle coscienze degli uomini? Si può dire che in un certo senso la scienza, in questo progetto di ricerca, quasi trascenda se stessa poiché, di fatto, il suo fine si allarga potenzialmente, come non mai, ad una ricerca di comunione davvero senza confini.
In tal senso la religione fa vedere con un certo ottimismo di fondo la possibilità di instaurare rapporti significativi con nuove civiltà. Se, come la teologia ricorda, l'universo è razionale e denso di significato perché effetto di una parola intenzionale del Creatore, allora la vita intelligente, ovunque essa appaia, appartiene ad un piano logico. Questa logica fonda sia la capacità che una civiltà ha di conoscere la natura, sia la capacità di entrare in comunione con altre civiltà.
La religione può quindi «suggerire anche delle riflessioni sul contenuto dei protocolli di comunicazione. Il riferimento ad un Creatore comune, la cui esistenza può essere dedotta per inferenza dalla contingenza del mondo, dalle sue specificità formali, dall'esperienza estetica o da quella morale, può rientrare a pieno titolo in tale scambio comunicativo. La religione cristiana suggerirebbe poi di dare priorità ad un linguaggio universale, quello dell'amore, specie verso il piú debole e indifeso, con i corrispondenti gesti che lo esprimono, non ultimo quello di dare la vita per l'altro» (TANZELLA-NITTI G., Intervento al "SETI Day", Torino, Accademia delle Scienze, 26 Giugno 1998).
La scienza e la religione, affermava Giovanni Paolo II in una lettera indirizzata alcuni anni or sono al Direttore della Specola Vaticana, hanno un'influenza troppo grande sulla coscienza dei popoli per ignorarsi: «Non si può leggere la storia del secolo scorso senza accorgersi che la responsabilità della crisi ricade su ambedue le comunità. L'uso della scienza si è dimostrato in piú di un'occasione largamente distruttivo, e le riflessioni sulla religione sono state troppo spesso sterili. Abbiamo ambedue bisogno di essere quello che dobbiamo essere, quello che siamo stati chiamati ad essere» (GIOVANNI PAOLO II, Lettera al rev.do p. George Coyne, direttore della Specola Vaticana in occasione del terzo centenario della pubblicazione del libro «Philosophiae Naturalis Principia Mathematica» di Isaac Newton, in L'Osservatore Romano, 1 giugno 1988).
Volendo trarre finalmente un bilancio concreto bisogna rilevare che in circa 40 anni di indagini non si è scoperto nulla. E ciò a dispetto del salto tecnologico che ci separa dal primo esperimento di Frank Drake del 1960, il famoso "progetto Ozma". Il divario di sensibilità e potenza di elaborazione dei mezzi attuali supera di 14 ordini di grandezza gli apparati utilizzati in quell'esperimento e lo sviluppo prosegue incessante verso attrezzature ancora piú sofisticate. Evidentemente non basta ancora. Le migliaia di ore complessive di ascolto trascorse sotto le gigantesche antenne di Arecibo (305 m.) a Portorico, del VLA del Nuovo Messico (36 km electronically combined), di Parkes (64 m.) in Australia e di Green Bank (42 m.) in West Virginia e in molti altri luoghi, non hanno dato ancora alcun esito. Forse bisogna anche mettere in conto che una civiltà tecnologicamente avanzata potrebbe disporre di strumenti e metodi di trasmissione estremamente efficienti e perciò pressoché esenti da dispersioni inutili nello spazio circostante. È un po' quello che sta accadendo da noi con l'avvento delle comunicazioni satellitari e del digitale terrestre. Bisogna ricordare, infatti, che due sono le tipologie fondamentali di segnali ricevibili da un sistema SETI: la radiazione elettromagnetica intenzionalmente trasmessa tipo "radio-faro" (beacon) e quella non intenzionale destinata ad utilizzi interni, dovuta a perdite di radioenergia (leakage).
Il fascino di questa ricerca aveva convinto anche la NASA ad interessarsi attivamente al problema al punto da attivare un programma di ascolto, l'HRMS (High Resolution Microwave Survey), avvalendosi dei migliori specialisti e dei mezzi piú sofisticati disponibili. Dopo un solo anno di attività il veto del Senato americano decretava la fine del progetto. Non tutto però è andato perduto, l'eredità, il patrimonio tecnologico e scientifico di uomini e strumentazioni lasciato dalla NASA è stato raccolto da un'istituzione privata che vive di donazioni e fondi da parte di tutti coloro che credono in questa missione: il SETI Institute a Mountain View (California). Il progetto è cosí rinato e, per l'occasione, è stato battezzato progetto Phoenix. Ma Phoenix non è l'unico esempio di ricerca SETI ad alto livello; negli Stati Uniti in particolare esistono almeno altri tre programmi dedicati, da decenni, alla ricerca di segnali radio artificiali provenienti dallo spazio. All'università di Berkeley in California, ad esempio, si stanno conducendo intensi studi in questa direzione che hanno portato all'avvio del programma SERENDIP, parola dal doppio significato: acronimo per Search for Extraterrestrial Radio Emissions from Nearby Developed Intelligent Populations, e nel senso vero e proprio di serendipity, ossia casualità della scoperta. Questo programma, infatti, a differenza del progetto Phoenix, non prevede alcuna lista di oggetti da studiare ma scandaglia le stesse regioni di cielo nello stesso momento in cui vengono analizzate dai radioastronomi per le ricerche convenzionali. Un impianto del tipo Serendip IV è stato installato presso il Centro di Radioastronomia del CNR di Bologna dove è stato attivato un programma SETI tutto italiano. All'università di Harvard il progetto META, una collaborazione con la Planetary Society che utilizzava un analizzatore di milioni di canali, si è evoluto nel progetto BETA in grado oggi di scandagliare miliardi di canali contemporaneamente.
SETI, pur essendo una straordinaria avventura scientifica, non potrà fornire risposte sostanzialmente diverse agli interrogativi esistenziali che hanno da sempre accompagnato la storia del genere umano: il significato del dolore, l'esperienza del limite e della finitezza, la coscienza del bene e del male, il significato della bellezza e dell'amore, il senso della vita e della morte. Una risposta definitiva non può provenire da alcuna creatura intelligente, ma solo da quella Vita con la maiuscola, che è anche la ragione ultima del perché di tutte le cose.
L'ultima parola sulla questione della vita extraterrestre non spetta tanto alla teologia quanto alla scienza. L'esistenza di vita intelligente in pianeti diversi dalla Terra non viene né postulata né esclusa da alcun argomento teologico: alla teologia, come a tutta quanta l'umanità, non resta che l'attesa.
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Documenti - The Post Detection Seti Protocol - Sintesi in lingua italiana
Johann Pachelbel (1653-1706) - Canon [2,60 MB]