«Piú di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate piú tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete piú franchezza, piú amore, piú consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e piú di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtú non si fa nulla di ciò! Sí, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!
E perché tu comprenda bene, colui al quale furono affidati cinque talenti è un maestro; colui a cui ne fu affidato uno è un discepolo. Ma se il discepolo dicesse: «Sono un semplice discepolo, non corro pericoli», e nascondesse la parola, comune e spoglia, ricevuta da Dio, e non pensasse di ammonire, di parlar con franchezza, di rimproverare, di correggere, se possibile, ma la nascondesse in terra: è davvero terra e cenere questo cuore che seppellisce la grazia di Dio! Se dunque la nascondesse per pigrizia o per malvagità, non lo scuserebbe nulla il dire: «Ho un solo talento». Hai un solo talento? Dovevi aggiungerne un altro e raddoppiare il tuo talento; se ne avessi aggiunto un altro, non saresti rimproverato. A colui che presentò due talenti, infatti, non fu detto: «Perché non ne porti cinque?», ma fu ritenuto degno degli stessi premi dati a colui che ne presentò cinque. E perché? Perché fece fruttare ciò che aveva e pur avendo ricevuto meno di quello che ne aveva avuti cinque, non per questo si abbandonò all'infingardaggine usando il poco che aveva per ozieggiare. Non dovevi guardare i due talenti; piuttosto dovevi guardare a lui che, avendone due, imitò quello che ne aveva cinque, e cosí tu devi imitare quello che ne aveva due. Se per chi è ricco e non fa parte delle sue ricchezze sta già preparato il castigo, per chi può esortare quanto vuole e non lo fa, non ci sarà forse un castigo maggiore? In quel caso si nutre il corpo, in questo l'anima: ivi si impedisce la morte temporanea, qui la morte eterna.
«Ma non so parlare» si dice. Non c'è bisogno di saper parlare né d'eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all'impudicizia, digli: «Ciò che fai è un'azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c'è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C'è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce cosí per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall'azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi piú là, allora, dopo che si sarà un po' riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensí piano piano, un po' alla volta.
E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l'amicizia, cosí il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l'amicizia: cosí l'hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l'uno dell'altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un'amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.
D'altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr'occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto piú lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è piú violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Cosí si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Cosí, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c'è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e cosí adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Cosí, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l'edificazione del Cristo».
Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2.