Note biografiche
Claude Eatherly partecipò come pilota al bombardamento atomico su Hiroshima, il 6 agosto 1945, una data che rimarrà impressa per sempre nella sua vita. È ormai famoso suo carteggio con Günther Anders, grande filosofo tedesco dedicò tutta la vita a lottare contro gli orrori di Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki affinché non potessero ripetersi mai piú.
Eatherly in guerra aveva abbattuto 33 aerei facendo in breve una brillante carriera. A 24 anni, già maggiore, le venne riconosciuta la Distinguished Flying Cross (fra le decorazioni piú alte). In forza delle sue qualità e dei suoi meriti venne pertanto selezionato per la missione di bombardamento atomico su Hiroshima. Il compito assegnato al suo B29 era solo quello di individuare con la massima precisione il bersaglio e stabilire se le condizioni meteo consentivano il bombardamento di Hiroshima o se era opportuno proseguire verso altri obiettivi.
Cosí Eatherly descrive quei momenti: «Ho volato su Hiroshima per 15 minuti per studiare i gruppi di nuvole; Il vento le spingeva allontanandole dalla città. Mi pareva il tempo e il luogo ideale, cosí trasmisi il messaggio in codice e mi allontanai in fretta come mi era stato detto, ma non abbastanza. La potenza della bomba mi terrorizzò. Hiroshima era sparita dentro una nube gialla».
Dopo la missione su Hiroshima Eatherly chiese di andare in congedo. Tornò nel Texas ma le sue condizioni psichiche peggiorarono sempre piú. Eatherly non trovò ascolto neppure da quelle persone e istituzioni che per prime avrebbero dovuto aiutarlo. Ciò spiega alcune comprensibili espressioni di amarezza e di sfiducia che compaiono nelle sue lettere. Dopo quattro anni, nel 1950, i familiari lo convinsero a ricoverarsi nell'ospedale psichiatrico di Waco.
Tra le tante lettere ricevute nella sua lunga e tormentata degenza Eatherly ne lesse una scritta dal filosofo tedesco Günther Anders e decise di rispondergli. Günther Anders desiderava aiutare il pilota ad uscire da quella situazione di dolore e consigliò ad Eatherly di manifestare il suo pentimento nel giorno della memoria ad Hiroshima, facendo giungere una lettera di partecipazione entro il 6 Agosto 1960. Eatherly era effettivamente sconvolto da ciò che aveva compiuto e che tornava a vivere ogni 6 Agosto. La risposta nobilissima dei cittadini di Hiroshima fu che anche lui era stato una vittima della bomba. Da quel giorno Eatherly iniziò una nuova vita, sebbene restando in ospedale, dove morí qualche anno dopo.
Dopo quell'esperienza Günther Anders scrisse il libro Der Mann auf der Brueke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, apparso in Italia con il titolo Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, per i tipi di Einaudi, Torino, nel 1961. Ha scritto Anders: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo».
Altri piloti invece non si pentirono. È il caso di Tibbets che lanciò la bomba su Hiroshima. Il suo sconcertante commento fu: «Personalmente non ho rimorsi. Mi fu detto - come si ordina a un soldato - di fare una certa cosa. E non parlatemi del numero delle persone uccise. Non sono stato io a volere la morte di nessuno. Guardiamo in faccia alla realtà: quando si combatte, si combatte per vincere, usando tutti i metodi a disposizione. Non mi posi un problema morale: feci quello che mi avevano ordinato di fare. Nelle stesse condizioni lo rifarei».
Il co-pilota del bombardiere che sganciò la seconda atomica su Nagasaki, Fred J. Olivi (italo-americano di origini toscane), affermò: «Non mi sono mai pentito di aver buttato la bomba su Nagasaki, obiettivo su cui abbiamo ripiegato non avendo potuto radere al suolo Kokura. Solo un secondo prima di sganciarla ho pensato che stavamo per uccidere vecchi, donne, bambini. Poi mi sono venuti in mente quei bambini e quelle donne giapponesi che andavano incontro ai soldati americani con bastoncini avvelenati nascosti per ucciderli. No, non mi dispiace aver tirato la bomba. Anche perché con questa operazione abbiamo fatto finire la Seconda guerra mondiale. Senza l'atomica forse oggi molti bambini americani non ci sarebbero: in caso d'invasione del Giappone i loro nonni sarebbero morti e i loro padri non sarebbero mai nati. E quindi nemmeno loro sarebbero nati».
Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern) nacque a Breslavia nel 1902. Si laureò in filosofia con Husserl e nel 1933 emigrò a Parigi, da dove ripartí alla volta degli Stati Uniti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale tornò in Europa e si stabilí a Vienna dove, nel 1992 morí. È noto il suo impegno civile per la pace, contro la bomba atomica e la guerra del Vietnam. Anders è stato uno dei filosofi piú lucidamente presenti ai problemi di fondo del nostro tempo. È stato autore di opere monumentali come L'uomo è antiquato e Uomini senza mondo. Dopo Auschwitz e Hiroshima preferí un'attività piú concreta, di partecipazione diretta alle lotte contro la guerra, contro l'ingiustizia e contro il rischio che l'umanità corre di scomparire per sempre.
Norberto Bobbio nel presentare Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki scrisse: «Lo scopo dell'autore è piú quello di scuotere gli indifferenti, di incitare i dubbiosi, di rendere perpetuamente inquieti gli ottimisti di professione e vigilanti i già convinti, che non quello di suggerire soluzioni immediate e indiscutibili. Da una pagina autobiografica del libro si apprende che, quando l'autore ebbe acquistato coscienza che è in gioco, oggi, 'la conservazione del tutto', il suo pensiero dominante diventò quello di suscitare questa coscienza anche negli altri, a costo di apparire agli occhi di qualche vecchio amico un 'fissato'. A chi gli rimprovera di aver abbandonato la versatilità di un tempo, di voler viaggiare ormai su di un binario unico, risponde: 'Ma a che serve questa versatilità, quando siete tutti sul treno che corre difilato sul suo binario unico verso la catastrofe'»?
Nota bibliografica su Günther Anders
Opere tradotte in italiano:
-, Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d'Ombra, Milano 1990;
-, Il pilota di Hiroshima, Linea d'Ombra, Milano 1992;
-, L'uomo è antiquato, I, Il Saggiatore, Milano, 1963;
-, Kafka pro e conto, Corbo, Ferrara 1989;
-, L'uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
La corrispondenza Anders - Eatherly
Lettera a Claude Eatherly
Al signor Claude R. Eatherly ex maggiore della A. F.
Veterans Administration Hospital Waco, Texas
3 giugno 1959
Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokio o a Vienna) col cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione dell'esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare - questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sí che si possa diventare "incolpevolmente colpevoli", in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere - oggi o domani ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. E per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore.
Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo assicurarLe che l'indiscrezione piace cosí poco a noi come a Lei, e La preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena detto, l'indiscrezione è - purtroppo - inevitabile, anzi doverosa. La Sua vita è diventata anche il nostro business. Poiché il caso (o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei non ha piú diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non è colpa Sua, ed è certamente spaventoso. Ma cosí è, ormai.
E tuttavia non creda di essere il solo condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in quest'epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come Lei non ha scelto la sua triste funzione, cosí anche noi non abbiamo scelto quest'epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste voi americani, "on the same boat", nella stessa barca, anzi siamo i figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela, determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera, tremendamente invano, di averla potuta evitare allora.
Ma allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funzionò perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro.
Naturalmente Lei rifiuterà questo titolo. "Tutt'altro, dirà, - poiché io non riesco a venire a capo del mio stato".
Si stupirà, ma è proprio questo "non" a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Perciò qualche parola di spiegazione.
Non dico "consolante per Lei". Non ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice, infatti, sempre: "La cosa non è poi cosi grave"; cerca, insomma, di impicciolire l'accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le parole. È proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi medici. Non è difficile scoprire perché agiscano cosí. In fin dei conti sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna morale di un'azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui, anzi, non deve neppure venire in mente la possibilità di questa condanna; e che perciò devono difendere in ogni caso l'irreprensibilità di un'azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perché i Suoi medici affermano: "Hiroshima in itself is not enough to explain your behaviour", ciò che in un linguaggio meno lambiccato significa: "Hiroshima è meno terribile di quanto sembra"; ecco perché si limitano a criticare, invece dell'azione stessa (o "dello stato del mondo" che l'ha resa possibile), la Sua reazione ad essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un castigo una "malattia" ("classical guilt complex"); ed ecco perché devono considerare e trattare la Sua azione come un "self-imagined wrong", un delitto inventato da Lei. C'è da stupirsi che uomini costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitú morale a sostenere l'irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse cosí bugiarde ottengano dalle loro cure risultati cosí poco brillanti? Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua azione. Hiroshima-self-imagined!
Non c'è dubbio: Lei la sa piú lunga di loro. Non è senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che l'accaduto è accaduto veramente, e, non è un'immaginazione. Lei non si lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno noi sappiamo che farci di queste "consolazioni".
No, io dicevo per noi. Per noi il fatto che Lei non riesce a "venire a capo" dell'accaduto, è consolante. E questo perché ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori, all'effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e perché questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo è possibile, e che dev'essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) è, per noi, consolante.
"Anche se dovesse fallire", ho detto. Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.
Già quando si è fatto torto a una persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l'azione si lascia abbracciare in tutti i suoi effetti, è tutt'altro che semplice "venirne a capo". Ma qui si tratta di ben altro. Lei ha la sventura di aver lasciato dietro di sé duecentomila morti. E come sarebbe possibile realizzare un dolore che abbracci 200000 vite umane? Come sarebbe possibile pentirsi di 200000 vittime?
Non solo Lei non lo può, non solo noi non lo possiamo: non è possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati. L'inutilità dei Suoi sforzi non è quindi colpa Sua, Eatherly: ma è una conseguenza di ciò che ho definito prima come la novità decisiva della nostra situazione: del fatto, cioè, che siamo in grado di produrre piú di quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli attrezzi che costruiamo sono cosí enormi che non siamo piú attrezzati per concepirli. Al di là, cioè, di ciò che possiamo dominare interiormente, e di cui possiamo "venire a capo". Non si faccia rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci mancherebbe altro! Il pentimento non può riuscire. Ma il fallimento stesso dei Suoi sforzi è la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiché al di fuori di questa esperienza non c'è nulla che possa sostituire il pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni cosi tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia caotica e disordinata, è quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei dire che è un segno della Sua salute morale. Poiché la Sua reazione attesta la vitalità della Sua coscienza.
Il metodo usuale per venire a capo di cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a vivere come se niente fosse; si cancella l'accaduto dalla lavagna della vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa. Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista sull'Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perché continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di questo mondo, che "è stata solo una bomba un po' piú grossa delle altre". E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente che ha dato il "via" a Lei come Lei lo ha dato al pilota dell'apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant'è che alcuni anni fa, rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo), ha dichiarato, in un'intervista destinata al pubblico, di non sentire i minimi "pangs of conscience", che sarebbe una prova lampante della sua innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi pare difficile che Lei possa invidiare questo "clean sheet". Ma sono certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova d'innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non è un personaggio ridicolo, un uomo che fugge cosí davanti a se stesso? Lei non ha agito cosí, Eatherly; Lei non è un personaggio ridicolo. Lei fa, pur senza riuscirci, quanto è umanamente possibile: cerca di continuare a vivere come la stessa persona che ha compiuto l'azione. Ed è questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perché è rimasto identico con la Sua azione, si è trasformato in seguito ad essa.
Capisce che alludo alle Sue violazioni di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al fatto che è o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto "comuni": sono gesti di disperazione. Poiché essere colpevole come Lei lo è ed essere esaltati, proprio per la propria colpa, come "eroi sorridenti", dev'essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre termine alla quale si può anche commettere qualche scorrettezza. Poiché l'enormità che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare di parlare ed agire nel linguaggio intelligibile costí, nel piccolo linguaggio della petty o della big larceny nei termini della società stessa. Cosí Lei ha cercato di provare la Sua colpa con atti che fossero riconosciuti come reati. Ma anche questo non Le è riuscito.
È sempre condannato a passare per malato, anziché per colpevole. E proprio per questo, perché - per cosí dire - non Le si concede la Sua colpa Lei è e rimane un uomo infelice.
E ora, per finire, un suggerimento.
L'anno scorso ho visitato Hiroshima; e ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si rassicuri: non c'è nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una vite nell'ingranaggio di una macchina militare (ciò che Lei era, quando, a ventisei anni, eseguí la Sua "missione"); non c'è nessuno che La odi.
Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo essere stato adoperato come una vite, è rimasto, a differenza degli altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su cui Lei avrà modo di riflettere
Il prossimo 6 agosto la popolazione di Hiroshima celebrerà, come tutti gli anni, il giorno in cui "è avvenuto". A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a quegli uomini: "Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so che una cosa simile non dovrà piú accadere; e che nessuno può chiedere a un altro di compierla"; e: "La vostra lotta contro il ripetersi di un'azione simile è anche la mia lotta, e il vostro 'no more Hiroshima' è anche il mio 'no more Hiroshima', o qualcosa di simile può essere certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini come un amico, come uno di loro. E che ciò accadrebbe a ragione, poiché anche Lei, Eatherly, è una vittima di Hiroshima. E ciò sarebbe forse anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.
Col sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto.
Günther Anders
Lettera a Günther Anders
12 giugno 1959
Dear Sir,
molte grazie della Sua lettera, che ho ricevuto venerdí della scorsa settimana.
Dopo aver letto piú volte la Sua lettera, ho deciso di scriverLe, e di entrare eventualmente in corrispondenza con Lei, per discutere di quelle cose che entrambi, credo, comprendiamo. Io ricevo molte lettere, ma alla maggior parte non posso nemmeno rispondere. Mentre di fronte alla Sua lettera mi sono sentito costretto a rispondere e a farLe conoscere il mio atteggiamento verso le cose del mondo attuale.
Durante tutto il corso della mia vita sono sempre stato vivamente interessato al problema del modo di agire e di comportarsi. Pur non essendo, spero, un fanatico in nessun senso, né dal punto di vista religioso né da quello politico, sono tuttavia convinto, da qualche tempo, che la crisi in cui siamo tutti implicati esige un riesame approfondito di tutto il nostro schema di valori e di obbligazioni. In passato, ci sono state epoche in cui era possibile cavarsela senza porsi troppi problemi sulle proprie abitudini di pensiero e di condotta. Ma oggi è relativamente chiaro che la nostra epoca non è di quelle. Credo, anzi, che ci avviciniamo rapidamente a una situazione in cui saremo costretti a riesaminare la nostra disposizione a lasciare la responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni a istituzioni sociali (come partiti politici, sindacati, chiesa o stato). Nessuna di queste istituzioni è oggi in grado di impartire consigli morali infallibili, e perciò bisogna mettere in discussione la loro pretesa di impartirli. L'esperienza che ho fatto personalmente deve essere studiata da questo punto di vista, se il suo vero significato deve diventare comprensibile a tutti e dovunque, e non solo a me.
Se Lei ha impressione che questo concetto sia importante e piú o meno conforme al Suo stesso pensiero, Le proporrei di cercare insieme di chiarire questo nesso di problemi, in un carteggio che potrebbe anche durare a lungo.
Ho l'impressione che Lei mi capisca come nessun altro, salvo forse il mio medico e amico.
Le mie azioni antisociali sono state catastrofiche per la mia vita privata, ma credo che, sforzandomi, riuscirò a mettere in luce i miei veri motivi, le mie convinzioni e la mia filosofia.
Günther, mi fa piacere di scriverLe. Forse potremo stabilire, col nostro carteggio, un'amicizia fondata sulla fiducia e sulla comprensione. Non abbia scrupoli a scrivere sui problemi di situazione e di condotta in cui ci troviamo di fronte. E allora Le esporrò le mie opinioni.
RingraziandoLa ancora della Sua lettera, resto il Suo.
Claude Eatherly
Lettera a Günther Anders
23 giugno 1959
Dear Sir,
sono stato lieto di ricevere nuovamente Sue notizie. E sarei felice se mi potesse far avere una copia dei Comandamenti dell'era atomica.
Ah, se sapessi scrivere come Lei! Ma se ci sono scrittori come Lei, uno di loro sarà abbastanza efficace da dare al mondo un messaggio che lo riconduca verso la pace e la concordia. Sarà forse Lei a svolgere questa funzione. Se posso aiutarLa in qualche modo, conti pure su di me. Le do il permesso di adoperare la mia lettera per la pubblicazione.
Ho solo brevi intervalli di tempo libero per scrivere, ma se ha da farmi delle domande, Le risponderò sinceramente. Ho sete di risposte ai pensieri in cui sono avvolto, e che riguardano il modo di impedire l'ulteriore accumulazione di armi nucleari e la preparazione incessante della guerra. Ho tenuto molti discorsi davanti a organizzazioni diverse per ottenere appoggio alle mie idee. Ma i discorsi durano cosi poco, mentre i libri sono monumenti. Faccia quindi il meglio che può nei Suoi, e dia agli uomini il messaggio, a cui aspirano tutti gli uomini amanti della pace. In attesa della Sua prossima lettera, cordialmente Suo.
Claude R. Eatherly
Lettera a Claude Eatherly
2 luglio 1959
Caro Claude Eatherly, non mi chiami "Sir", La prego. Il modo in cui abbiamo fatto conoscenza è stato certo molto insolito, ma fin dal primo momento ci siamo rivolti l'uno all'altro nella sicurezza di poter nutrire piena fiducia reciproca e nella certezza che ci saremmo compresi: come effettivamente accade.
Mi ha fatto molto piacere che Lei acconsentisse alla pubblicazione della Sua risposta alla mia lettera. L'ho già mostrata, del resto, a taluni amici, soprattutto a fisici nucleari, che sanno quello che si dicono quando parlano della possibile distruzione dell'umanità: e sono rimasti tutti profondamente impressionati dal fatto che la stessa persona che ha avuto la disgrazia di diventare il primo "colpevole incolpevole" dell'era atomica, appartenga ora a quelli che cercano di prevenire il peggio. In una delle Sue frasi Lei dice che ha parlato piú volte del nostro problema in pubblico. È quello che ho fatto anch'io. Davanti a uomini delle categorie piú diverse: professori universitari, allievi delle scuole, perfino preti buddisti a Kyoto: insomma, davanti a chiunque, poiché il nostro problema riguarda chiunque, e la minaccia non fa distinzione tra giovani e vecchi, militari e civili, uomini dalla pelle bianca o scura, cristiani, ebrei o maomettani. Sono curioso di sapere qualcosa delle udienze di fronte a cui ha parlato.
Le allego il Codice morale dell'era atomica. Mia moglie lo ha tradotto in inglese (o meglio, in americano, poiché è nata in California). Per questa volta il "codice" terrà posto di una lettera piú lunga, poiché ho terminato proprio ieri il mio diario di viaggio in Giappone, e mi è rimasto poco tempo per scrivere; devo mettermi a imballare tutte le mie cose, perché dovremo cambiar casa entro pochi giorni. Ma spero di potermi prendere due settimane di vacanza, e ho la ferma intenzione di approfittarne per scrivere una vera lettera.
Cordialmente il Suo amico.
Günther Anders
Il «Genbaku Dome» sullo sfondo del Peace Memorial Park ricorda
le vittime della bomba atomica
sganciata su Hiroshima dagli Stati Uniti il 6 agosto 1945 durante la seconda guerra
mondiale
I comandamenti dell'Era Atomica
di Günther Anders
Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo".
Poiché non devi cominciare un solo giorno nell'illusione che quello che ti circonda sia un mondo stabile. Quello che ti circonda è qualcosa che domani potrebbe essere già semplicemente "stato"; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei, siamo piú "caduchi" di tutti quelli che finora sono stati considerati tali. Poiché la nostra caducità non significa solo il nostro essere "mortali"; e neppure che ciascuno di noi può essere ucciso. Questo era vero anche in passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo essere uccisi come "umanità". Dove "umanità" non è solo l'umanità attuale, quella che si estende e si distribuisce attraverso le regioni terrestri; ma è anche quella che si estende attraverso le regioni del tempo: poiché, se l'umanità attuale sarà uccisa, si estinguerà con lei anche l'umanità passata, e anche quella futura.
La porta davanti alla quale ci troviamo reca quindi la scritta: "Nulla sarà stato", e sull'altro verso le parole: "Il tempo è stato solo un interludio". Ma, in questo caso, il tempo non sarà stato un interludio fra due eternità (come speravano i nostri antenati), ma un interludio fra due nulla: fra il nulla di ciò che, nessuno potendolo ricordare, "sarà stato" come se non fosse mai stato, e il nulla di ciò che non potrà mai essere. E poiché non ci sarà nessuno per distinguere i due nulla, essi si confonderanno in un nulla unico. Ecco quindi la nuova, apocalittica forma di caducità che è la nostra, e accanto alla quale tutto ciò che ha avuto finora questo nome è diventato un'inezia. - E perché questo non ti sfugga, il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: "Atomo".
La possibilità dell'apocalisse
E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio: "La possibilità dell'apocalisse è opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo". No, non lo sappiamo; e non lo sanno nemmeno quelli che dispongono e decidono di essa; poiché anch'essi sono come noi; anch'essi sono noi; anch'essi sono radicalmente incompetenti. È vero che questa incompetenza non è colpa loro, ma è piuttosto l'effetto di una circostanza che non si può attribuire a nessuno di loro né di noi: la sproporzione continuamente crescente fra la nostra facoltà produttiva e la nostra facoltà immaginativa, fra ciò che possiamo produrre e ciò che possiamo immaginare. Poiché, nel corso dell'epoca tecnica, il rapporto tradizionale tra fantasia e azione si è rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati, considerare la fantasia "esorbitante", esuberante, eccessiva, e cioè tale che superava e trascendeva l'ambito del reale, oggi i poteri della nostra fantasia (e i limiti della nostra sensibilità e della nostra responsabilità) sono inferiori a quelli della nostra prassi; per cui si può dire che oggi la nostra fantasia non è all'altezza degli effetti che possiamo produrre.
Non è solo la nostra ragione a essere kantianamente limitata e finita, ma anche la nostra immaginazione e - a maggior ragione - la nostra sensibilità. Possiamo pentirci, tutt'al piú, dell'uccisione di un uomo: è tutto ciò che si può chiedere alla nostra sensibilità; possiamo rappresentarci, tutt'al piú, l'uccisione di dieci uomini: è tutto ciò che si può chiedere alla nostra immaginazione; ma ammazzare centomila persone non presenta piú alcuna difficoltà. E ciò non solo per ragioni tecniche; e non solo perché l'azione si è ridotta a semplice collaborazione e partecipazione, a un "azionare" che rende invisibile l'effetto, ma anche e proprio per una ragione di ordine morale: e cioè perché la strage in massa trascende di gran lunga la sfera di quelle azioni che siamo in grado di rappresentarci concretamente e a cui possiamo reagire sentimentalmente; e la cui esecuzione potrebbe essere inibita dall'immaginazione o dai sentimenti. - Le tue verità successive dovrebbero quindi essere queste: "L'inibizione diminuisce progressivamente con l'ingrandirsi oltre misura dell'azione"; e "L'uomo è minore (piú piccolo) di se stesso". Questa è la formula della nostra attuale schizofrenia, e cioè del fatto che le nostre varie facoltà operano separatamente, come entità isolate e prive di coordinazione che hanno perso il contatto fra loro.
Ma non è per formulare nozioni definitive e fatalmente disfattistiche su noi stessi che devi formulare queste verità: ma, al contrario, per inorridire della finitezza e per vedere in essa uno scandalo; per sciogliere e allentare quei limiti irrigiditi e trasformarli in barriere da superare; per revocare e abolire la schizofrenia. Naturalmente, finché ti è concesso di sopravvivere, puoi anche metterti a sedere, rinunciare ad ogni speranza e rassegnarti alla tua schizofrenia. Ma se non sei disposto a questo, devi cercare di raggiungere te stesso, di portarti alla tua propria altezza. E ciò significa (questo è il tuo compito) che devi cercare di colmare l'abisso fra le due facoltà: la facoltà produttiva e la facoltà riproduttiva; che devi livellare la differenza di altezza che le separa; o, in altri termini, che devi sforzarti di allargare l'ambito limitato della tua immaginazione (e quello ancora piú ristretto del tuo sentimento), finché sentimento ed immaginazione arrivino ad apprendere e a concepire l'enormità che sei stato in grado di produrre; finché tu possa accettare o respingere ciò che hai inteso. Insomma, il tuo compito consiste nell'allargare la tua fantasia morale.
Non aver paura di aver paura
Il tuo compito successivo è quello di allargare il tuo senso del tempo. Poiché decisivo per la nostra situazione attuale non è solo (ciò che ormai sanno tutti) che lo spazio terrestre si è contratto, e che tutti i luoghi che si potevano considerare lontani fino a ieri sono ormai località viciniori; ma che anche lo spazio temporale si è contratto, e che tutti i punti del nostro sistema temporale si sono avvicinati; che i futuri che potevano sembrare fino a ieri a distanza irraggiungibile, confinano ormai direttamente col nostro presente; che li abbiamo trasformati in comunità attigue. Ciò vale sia per il mondo orientale che per quello occidentale. Per il mondo orientale, poiché il futuro vi è pianificato in una misura senza precedenti; e il futuro pianificato non è piú un futuro "in grembo agli dei", ma un prodotto in fabbricazione: che, per il fatto di essere previsto, è già visto come parte integrante dello spazio in cui ci si trova. In altri termini: poiché tutto ciò che si fa, lo si fa per quel prodotto futuro, esso getta già la sua ombra sul presente, appartiene già, in un senso pragmatico, al presente stesso. E ciò vale, in secondo luogo (ed è il caso che ci riguarda), per gli uomini del mondo occidentale attuale; poiché questo, anche senza proporselo direttamente, opera già sui futuri piú remoti: decidendo, ad esempio, della salute o della degenerazione, e forse dell'esistenza o dell'inesistenza dei suoi nipoti. E non importa che esso, o, piuttosto, che noi, si miri consapevolmente a questo risultato: poiché ciò che conta, da un punto di vista morale, è soltanto il fatto. E dal momento che il fatto - l'"azione a distanza" non pianificata - ci è noto, continuando ad agire come se non sapessimo quello che facciamo commettiamo un delitto colposo.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia: "Non esser vile, abbi il coraggio di aver paura!
Astringiti a fornire quel tanto di paura che corrisponde alla grandezza del pericolo apocalittico!" Anche e proprio la paura fa parte dei sentimenti che siamo incapaci o riluttanti a fornire; e dire che abbiamo già paura, che ne abbiamo anche troppa, e che viviamo, anzi, nell'"epoca della paura", è una frase priva di senso, che, se non è diffusa ad arte col preciso intento di ingannare, è pur sempre uno strumento ideale per impedire l'avvento di una paura veramente adeguata all'enormità del pericolo, e per renderci indolenti e passivi. - È vero piuttosto il contrario: che viviamo in un'epoca refrattaria all'angoscia e assistiamo quindi passivamente all'evoluzione in corso. Perciò vi è tutta una serie di ragioni (a prescindere dai limiti della nostra capacità di sentire), che non è possibile enumerare qui (cfr. GÜENTHER ANDERS, Die Antiquierheit des Menschen, C. H. Beksche Verlagsbuchhandlung, 264 ss.). Ma non possiamo fare a meno di menzionarne una, a cui gli eventi del recente passato conferiscono un'attualità e un'importanza particolare. Si tratta della mania delle competenze, e cioè della persuasione, inculcata in noi dalla divisione del lavoro, che ogni problema rientri in un determinato ambito giuridico in cui non abbiamo il diritto di interferire e di dire la nostra. Cosí, per esempio, il problema atomico rientra nella competenza dei politici e dei militari. E questo "non aver diritto" si trasforma subito e automaticamente in "non aver bisogno". In altri termini: non c'e' bisogno che mi occupi dei problemi di cui non sono tenuto e autorizzato ad occuparmi. E posso fare a meno di aver paura, poiché la paura stessa viene "sbrigata" in un altro ressort. Perciò ripeti dopo il tuo risveglio: "Res nostra agitur". Il che significa due cose: 1) che la cosa ci riguarda perché ci può colpire; e 2) che la pretesa di alcuni a una competenza di carattere esclusivo è infondata, perché siamo tutti, in quanto uomini, ugualmente incompetenti.
Credere che in puncto "fine del mondo" possa aver luogo una competenza maggiore o minore, e che quelli che (in seguito a una divisione casuale del lavoro, delle responsabilità e dei compiti) sono diventati politici o militari, e che si occupano della fabbricazione e dell'"impiego" della bomba piú attivamente o piú direttamente di noi, siano perciò piú "competenti" di noi, è una follia pura e semplice. Chi cerca di farcelo credere (che si tratti di questi pretesi competenti o di altri) dimostra solo la sua incompetenza morale. Ma la nostra situazione morale finisce per diventare intollerabile quando quei pretesi competenti (che sono incapaci di vedere i problemi se non in termini tattici) pretendono di insegnarci che non abbiamo nemmeno il diritto di aver paura, e tanto meno di porci problemi morali: dal momento che la coscienza morale implica una responsabilità, e la responsabilità è affar loro, affare dei competenti; con la nostra paura, con la nostra angoscia morale, invaderemmo - secondo loro - un campo di loro competenza. In conclusione: devi rifiutarti di riconoscere un ceto privilegiato, un "clero dell'apocalisse": un gruppo che si arroghi una competenza esclusiva per la catastrofe che sarebbe la catastrofe di tutti. Se ci è lecito variare il detto rankiano ("ugualmente vicini a Dio"), potremmo dire che "ognuno di noi è ugualmente vicino alla fine possibile". E perciò ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare ad alta voce il suo monito. A cominciare da te.
Contro la discussione di carattere tattico
Non solo la nostra immaginazione, la nostra sensibilità e la nostra responsabilità vengono meno di fronte alla "cosa": ma non siamo neppure in grado di pensarla. Poiché sotto qualunque categoria cercassimo di sussumerla, la penseremmo in modo sbagliato: per il semplice fatto di ridurla sotto una determinata categoria o classe di concetti, ne faremmo un oggetto fra gli altri e la minimizzeremmo. Anche se può esistere in molti esemplari, è unica nel suo genere, non appartiene a nessuna specie: è, quindi, un monstrum. Disgraziatamente è proprio questa ("mostruosa") inclassificabilità a portarci a trascurare la cosa, o a dimenticarla addirittura. Tendiamo a considerare come inesistente tutto ciò che non siamo in grado di classificare. Ma nella misura in cui si parla della cosa (ciò che peraltro non avviene ancora nella conversazione quotidiana fra gli uomini), tendiamo a classificarla (poiché è la soluzione piú comoda e meno inquietante) come un'arma, o piú in generale come un mezzo. Ma essa non è un mezzo, poiché è essenziale alla natura del mezzo risolversi nello scopo raggiunto e scomparire, come la via nella meta. Il che non accade in questo caso. Poiché anzi l'effetto inevitabile (e perfino l'effetto consapevolmente ricercato) della cosa è maggiore di ogni scopo pensabile; poiché questo, per forza di cose, scompare e si annulla nell'effetto. Scompare e si annulla insieme al mondo in cui c'erano ancora "fini e mezzi". Ed è chiaro che una cosa che distrugge, con la sua sola esistenza, lo schema "fini e mezzi", non può essere un mezzo. Perciò la tua massima successiva sia: "Nessuno mi farà credere che la bomba sia un mezzo". E dal momento che non è un mezzo come i milioni di mezzi che compongono il nostro mondo, non puoi tollerare che sia prodotta come se si trattasse di un frigorifero, di un dentifricio e nemmeno di una pistola, per costruire la quale nessuno ci interpella. - E come non devi credere a quelli che la chiamano un "mezzo", non devi credere nemmeno ai persuasori piú sottili che sostengono che la cosa serve esclusivamente alla "dissuasione", ed è prodotta, cioè, solo allo scopo di non essere usata. Poiché non si sono mai visti oggetti il cui impiego si esaurisse nel loro non essere usati; o, tutt'al piú, vi sono stati oggetti che, in determinati casi, non furono usati (e cioè quando la minaccia del loro uso, spesso già avvenuto, si era già rivelata sufficiente). Del resto, non dobbiamo mai dimenticare che la cosa è già stata "usata" realmente (e senza giustificazione adeguata) a Hiroshima e Nagasaki. Infine, non dovresti permettere che l'oggetto il cui effetto supera ogni immaginazione sia classificato in modo falso con un'etichetta sciocca e minimizzante.
Quando l'esplosione di una bomba H è definita ufficialmente "azione Opa" o "azione nonnino", non è solo una manifestazione di cattivo gusto, ma anche un inganno consapevole. Inoltre devi opporti e ribellarti tutte le volte che la cosa (la cui semplice presenza è già una forma di uso) è discussa da un punto di vista puramente "tattico". Questo tipo di discussione è assolutamente inadeguato, poiché l'idea di potersi servire tatticamente delle armi atomiche presuppone l'esistenza di una situazione politica indipendente dal fatto stesso della loro esistenza. Ma questa è una supposizione affatto irreale, poiché la situazione politica (l'espressione "era atomica" è perfettamente giustificata) è definita dal fatto delle armi atomiche. Non sono le armi atomiche a presentarsi, fra le altre cose, sulla scena politica, ma sono gli avvenimenti politici a svolgersi all'interno della situazione atomica; e la maggior parte delle azioni politiche sono passi intrapresi all'interno di questa situazione. I tentativi di utilizzare la possibilità della fine del mondo come una pedina sullo scacchiere della politica internazionale, indipendentemente o meno dalla loro astuzia, sono segni di accecamento. L'epoca delle astuzie è finita. Perciò devi farti un principio di sabotare tutte le analisi in cui i tuoi contemporanei cercano di esaminare il fatto del pericolo atomico da un punto di vista puramente tattico, e di portare la discussione sul punto essenziale: sulla minaccia che pesa sull'umanità di un'apocalisse provocata da lei stessa; e fallo anche a costo di essere deriso come persona priva di realismo politico. In realtà, ad essere poco realisti, sono proprio i puri tattici, che vedono le armi atomiche solo come mezzi, e che non capiscono che i fini che cercano o pretendono di raggiungere mediante la loro tattica, sono completamente svuotati di significato dall'uso (anzi, dalla semplice possibilità dell'uso) di questi mezzi.
La decisione è già stata presa
Non lasciarti ingannare da chi sostiene che ci troveremmo ancora (e ci troveremo forse sempre) nello stadio sperimentale, nello stadio delle esperienze di laboratorio. Poiché questa è solo una frase. E non solo perché abbiamo già gettato delle bombe (ciò che molti stranamente dimenticano), e l'epoca "in cui si fa sul serio" è quindi già cominciata da un pezzo; ma anche perché (ed è la ragione piú importante) non è possibile parlare, in questo caso, di esperimenti. La tua ultima massima sarà, quindi, questa: "Per quanto felice possa essere l'esito degli esperimenti, è lo sperimentare stesso che fallisce". E fallisce perché si può parlare di esperimenti solo dove l'evento sperimentale non esce e non spezza l'ambito isolato e circoscritto del laboratorio; condizione che non si ritrova in questo caso. Poiché fa proprio parte dell'essenza della cosa, e dell'effetto ricercato della maggior parte degli esperimenti attuali, accrescere il piú possibile la forza esplosiva e il fall-out radioattivo dell'arma; e cioè, per quanto contraddittoria possa essere la formula, provare fino a che punto si possa superare ogni limite sperimentale. Ciò che è prodotto dai cosiddetti "esperimenti" non rientra piú, quindi, nella classe degli effetti sperimentali, ma nello spazio reale, nell'ambito della storia (dove si trovano, ad esempio, i pescatori giapponesi contagiati dal fall-out) e perfino della storia futura, poiché è il futuro stesso ad essere investito (ad esempio la salute delle prossime generazioni), e si può quindi dire che il futuro, secondo la formula filosofica del libro di Jungk, "e' già cominciato". È quindi del tutto illusoria e ingannevole l'affermazione a cui si ricorre cosí volentieri, che l'impiego della cosa non è stato ancora deciso. - È vero, invece, che la decisione è già avvenuta attraverso i cosiddetti esperimenti. Fa quindi parte dei tuoi doveri denunciare e distruggere l'apparenza che noi si viva ancora nella "preistoria" atomica: e chiamare per nome ciò che è.
Siamo manipolati dai nostri apparecchi
Ma tutti questi postulati e questi divieti si possono condensare in un solo comandamento: "Abbi solo quelle cose le cui massime potrebbero diventare le tue massime e quindi le massime di una legislazione universale". È un postulato che può lasciare interdetti: l'espressione "massime delle cose" può sembrare, a tutta prima, paradossale. Ma solo perché strano e paradossale è il fatto stesso designato dall'espressione. Ciò che vogliamo dire è solo che, vivendo in un mondo di apparecchi, siamo soggetti al trattamento dei nostri apparecchi (e sempre in un modo determinato dalla natura degli apparecchi). Ma poiché, d'altra parte, siamo gli utenti di questi apparecchi, e trattiamo il nostro prossimo per mezzo di essi, finiamo per trattare il nostro prossimo, anziché secondo i nostri principi, secondo i modi di operare degli apparecchi, e cioè, in certo qual modo, secondo le loro massime. Il postulato esige che ci rendiamo conto di queste massime come se fossero le nostre (dal momento che lo sono effettivamente e di fatto); che la nostra coscienza morale, anziché dedicarsi all'esame di se stessa (che è ormai un lusso privo di conseguenze), si dedichi a quello degli "impulsi nascosti" e dei "principi" dei nostri apparecchi. Esaminando scrupolosamente la propria anima alla maniera tradizionale, un ministro atomico non vi troverebbe, probabilmente, nulla di particolarmente peccaminoso; ma esaminando la "vita intima" dei suoi aggeggi, vi troverebbe niente meno che l'erostratismo, e un erostratismo su scala cosmica; poiché erostratico è il modo in cui le armi atomiche trattano l'umanità. Solo quando ci saremo abituati a questa nuova forma di azione morale ("l'analisi del cuore degli apparecchi"), avremo qualche motivo di sperare che, dovendo decidere del nostro essere o non-essere, sapremo decidere per la conservazione del nostro essere.
Impossibilità di non-potere
Il tuo principio successivo sia: "Non credere che quando saremo riusciti a compiere il primo passo, la cessazione dei cosiddetti esperimenti, il pericolo si possa considerare passato, e che noi si possa dormire sugli allori". Poiché la fine degli esperimenti non significa ancora quella della produzione di bombe e tanto meno la distruzione delle bombe e dei tipi che sono già stati sperimentati e che sono pronti per l'uso. Vi possono essere varie ragioni per una cessazione degli esperimenti: uno stato vi si può risolvere, ad esempio, perché ogni ulteriore esperimento sarebbe superfluo, dal momento che la produzione dei tipi sperimentati o la riserva di bombe esistenti bastano già per ogni eventualità; insomma, perché sarebbe assurdo e antieconomico uccidere l'umanità piú di una volta. Non credere nemmeno che avremmo diritto di stare tranquilli una volta che fossimo riusciti ad eseguire il secondo passo (l'arresto della produzione di bombe A e H), o che potremmo metterci a sedere dopo il terzo passo (la distruzione di tutte le riserve). Anche in un mondo completamente "pulito" (e cioè in un mondo dove non ci fossero piú bombe A o H, e dove quindi, apparentemente, non "avremmo" bombe), continueremmo, tuttavia, ad averle, poiché sapremmo come fare per produrle. Nella nostra epoca contrassegnata dalla riproduzione meccanica non si può dire che un oggetto possibile non esista, poiché ciò che conta non sono gli oggetti fisici reali, ma i loro tipi, i loro "modelli". Anche dopo aver eliminato tutti gli oggetti fisici che hanno a che fare con la produzione delle bombe A o H, l'umanità potrebbe cadere vittima dei loro disegni. Si potrebbe concludere, allora, che bisogna distruggere questi ultimi. Ma anche questo è impossibile, poiché i modelli sono indistruttibili come le idee di Platone; in un certo senso sono addirittura la loro realizzazione diabolica. Insomma, anche se ci riuscisse di distruggere fisicamente i fatali apparecchi e i loro "modelli", e di salvare cosí la nostra generazione: anche questa sarebbe solo una pausa, sarebbe solo una dilazione. La produzione potrebbe essere ripresa ogni giorno, il terrore rimane, e dovrebbe restare, quindi, anche la tua paura.
D'ora in poi l'umanità dovrà vivere, per tutta l'eternità, sotto l'ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie indefinita di atti quotidiani. Dobbiamo comprendere, insomma (e questa comprensione finisce di mostrarci il carattere fatale della nostra situazione), che la nostra lotta contro la permanenza fisica degli ordigni e la loro costruzione, sperimentazione ed accumulazione rimane, in definitiva, insufficiente. Poiché la meta che dobbiamo raggiungere non può consistere nel non-avere la cosa, ma solo nel non adoperarla mai, anche se non possiamo fare in modo di non averla; nel non adoperarla mai, anche se non ci sarà mai un giorno in cui non potremmo adoperarla. Ecco quindi il tuo compito: far capire all'umanità che nessuna misura fisica, nessuna distruzione di oggetti materiali potrà mai rappresentare una garanzia assoluta e definitiva, e che dobbiamo, invece, essere fermamente decisi a non compiere mai quel passo, anche se sarà, in un certo senso, sempre possibile. Se non riusciamo - sí, tu, tu ed io - a infondere questa coscienza e questa convinzione nell'umanità, siamo perduti.
I testi sono tratti dalla corrispondenza privata tra Günther Anders e Claude Eatherly
Cfr. ANDERS D. G., Il pilota di Hiroshima, Linea d'Ombra, Milano 1992.
Cfr. ANDERS D. G., Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Linea d'Ombra, Milano 1995.
Il testo di Günther Anders allegato alle lettere (noto come i "Comandamenti dell'Era Atomica") è reperibile per la traduzione di Renato Solmi in Il pilota di Hiroshima, Linea d'Ombra, Milano 1992 e apparve precedentemente sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 13 luglio 1957.