Nota storica sui rapporti fra cristiani ed ebrei
La parola ebreo è la traduzione italiana del termine ebraico ivri che a sua volta ha origine dal termine ever che ha il significato di "al di là". Abramo è stato colui che, spostandosi dalla Mesopotamia, è andato a vivere in terra d'Israele, la Palestina, "al di là" del fiume. I discendenti di Abramo dunque hanno assunto l'attributo di ivrim. Ciò che colpisce in modo particolare nell'ebraismo, a dispetto di tutti gli sconvolgimenti storici, è il persistere della memoria e dell'identità. Una coscienza e una memoria che trovano un'analogia solo in un'entità multiforme eppur solidale com'è quella della Chiesa cattolica, benché essa non poggi affatto su legami di sangue e di etnia. Quella ebraica è stata sempre una questione controversa e ancora oggi domina spesso il panorama della politica nazionale e internazionale. È diventato importante e urgente tuttavia capire il perché. Perché un rapporto talvolta cosí teso con le comunità cristiane e non cristiane in quasi tutti i tempi e luoghi? Nella delicata questione ebraica è giunto il momento di capire, di comprendere gli errori storici ma anche di distinguere gli abusi effettivamente compiuti dai cristiani dalle false accuse che purtroppo provengono non di rado da piú fronti. Una caratteristica del cristiano è quella di non giustificare i propri errori, egli si sforza di combatterli ed è capace di chiedere perdono: concetto questo che purtroppo appare estraneo al vocabolario usuale in molti altri contesti.
La Chiesa, nell'Anno santo del giubileo del 2000, ha chiesto perdono per le azioni di tanti suoi figli, soprattutto quando essi hanno fatto ricorso alla violenza. Essa non entra nel merito delle vicende storiche ma sottolinea che:
«l'individuazione delle colpe del passato di cui fare ammenda implica anzitutto un corretto giudizio storico, che sia alla base anche della valutazione teologica. Ci si deve domandare: che cosa è precisamente avvenuto? Che cosa è stato propriamente detto e fatto? Solo quando a questi interrogativi sarà stata data una risposta adeguata, frutto di un rigoroso giudizio storico, ci si potrà anche chiedere se ciò che è avvenuto, che è stato detto o compiuto può essere interpretato come conforme o no al Vangelo, e, nel caso non lo fosse, se i figli della Chiesa che hanno agito cosí avrebbero potuto rendersene conto a partire dal contesto in cui operavano. Unicamente quando si perviene alla certezza morale che quanto è stato fatto contro il Vangelo da alcuni figli della Chiesa ed a suo nome avrebbe potuto essere compreso da essi come tale ed evitato, può aver significato per la Chiesa di oggi fare ammenda di colpe del passato» (COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, in L'Osservatore Romano, Documenti, supplemento a «L'Osservatore Romano» n. 10, 10 marzo 2000, p. 5, n. 4).
Nei primi secoli di vita della Chiesa furono i cristiani a subire numerose persecuzioni da parte degli ebrei. Gli Atti degli Apostoli ci ricordano il martirio del diacono Stefano (At 7,55-60); lo stesso apostolo Paolo «circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribú di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge» (Fil 3,5), si definisce - prima della conversione - «quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge» (Fil 3,6). Egli stesso approvò l'assassinio del diacono Stefano (At 8,1). Nel Nuovo Testamento, redatto quasi tutto da autori ebrei, non mancano passi che, lungi dal poter essere definiti semplicisticamente antisemiti, testimoniano l'ostilità del giudaismo nei confronti dei nuovi credenti, dei seguaci di Cristo. L'apostolo Paolo, ebreo da Ebrei, scrive ai cristiani di Tessalonica:
«...ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete. Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesú Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesú e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l'ira è arrivata al colmo sul loro capo» (1Ts 2,13-16).
Parole durissime e dolorose quelle dell'apostolo Paolo, che collegano il Gesú della storia e il Gesú della fede, e riflettono le primitive polemiche gerosolimitane (Mt 5,12; Mt 21,33-46; Mt 23,29-37; At 2,23 ss.). Sono parole che tuttavia trovano una spiegazione adeguata proprio nell'ultimo versetto, ossia nell'accanimento della sinagoga nel porre ostacoli alla predicazione di Paolo (v. 16; cfr. et Fil 3,2-3; At 13,5 ss.). L'apostolo Paolo in ogni caso lungi dal generalizzare punta il dito solo contro gli avversari diretti della sua missione. In altri luoghi (cfr. Rm 9-11; Gal 4,21-31), infatti, egli richiamerà spesso la grandezza del popolo eletto e non risparmierà i suoi sforzi per rinsaldare l'unità tra i cristiani venuti dal paganesimo e quelli venuti da Israele (cfr. 1Cor 16,1 ss.; Ef 2,11-22).
Anche nella lettera ai filippesi appaiono lo sdegno e il dolore dell'Apostolo quando afferma:
«Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti, ve l'ho già detto piú volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra» (Fil 3,17-19).
Paolo accenna probabilmente ai cristiani cosiddetti "giudaizzanti", già presi in considerazione nel precedente versetto 2, ossia a quei cristiani che intendevano restare ancorati a tutti i precetti della legge giudaica anche dopo aver ricevuto il battesimo. L'Apostolo ritorce con ironia lo stesso epiteto (cani) che essi riservavano ai pagani (cfr. Mt 7,6 e Mt 15,26). Con un gioco di parole egli disprezza anche la circoncisione carnale ebraica paragonandola alle "incisioni" cruente, tipiche dei culti pagani (cfr. 1Re 18,28; cfr. Gal 5,12).
Non di rado, come si evince anche dal libro degli Atti, la polemica giungeva ad un livello tale da coinvolgere le pubbliche autorità. Governatori e procuratori romani a piú riprese dichiararono esplicitamente che la controversia fra i cristiani e i giudei era una controversia strettamente religiosa, senza implicazioni politiche e dichiararono che non intendevano farsi strumentalizzare dalle autorità religiose ebraiche (cfr. SORDI M., I cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano 1983, 13-28). Nonostante ciò molti cristiani subirono il martirio proprio dietro sollecitazione delle autorità giudaiche.
Nel 70 d.C., in seguito all'ennesima ribellione anti-romana, Tito distrusse il tempio. Successivamente, l'imperatore romano Adriano decise di ricostruire la città. Dopo la rivolta guidata da Simon Bar Kokeba (131-135 d.C.) Gerusalemme fu nuovamente distrutta e poi riedificata con il nome di Aelia Capitolina, diventando a tutti gli effetti una colonia romana. Con la dispersione degli ebrei nel mondo, là dove essi si stabilirono, iniziarono i problemi di convivenza con le popolazioni locali. Gli ebrei rappresentarono, in molti casi, una sorta di "Stato a sé" che non si integrava facilmente nel tessuto sociale. In questo contesto sorse il mito pagano antigiudaico dell'omicidio rituale diffuso nella città di Alessandria d'Egitto e riferito da Giuseppe Flavio nel testo Contra Apionem. La struttura del mito dell'omicidio rituale era questa: in occasione della pasqua ebraica veniva ucciso un bambino per utilizzare il suo sangue a scopo rituale, o a scopi medicinali e magici.
Il mito dell'omicidio rituale
La prima accusa documentata di omicidio rituale, con le prime persecuzioni popolari, la si ebbe a Fulda, in Germania, nel 1235. L'imperatore Federico II di Svevia (Iesi, Ancona 1194 - Castel Fiorentino presso San Severo, Foggia 1250) dichiarò ufficialmente falsa l'accusa. Nel 1247, a Valreas, nuova accusa di omicidio rituale: gli ebrei si appellarono a Papa Innocenzo IV (1243-1254) che intervenne con una prima bolla di condanna, cui ne seguirono altre, vietando di accusare gli ebrei "di utilizzare sangue umano nei loro riti". Agli inizi del Trecento si registrarono nuove accuse di omicidi rituali nel quartiere ebraico di Barcellona: anche qui venne riconosciuta l'innocenza degli ebrei. Le bolle papali continuarono a condannare la falsa credenza nell'omicidio rituale ma questo non impedí, purtroppo, il diffondersi di questo mito e non impedí neppure le conseguenti sollevazioni popolari le quali portarono spesso all'espulsione degli ebrei per motivi di ordine pubblico. Pontefici come Gregorio IX (1227-1241), Innocenzo IV (1243-1254), Gregorio X (1272-1276), Martino V (1417-1431) e Niccolò V (1455) si opposero sempre e nettamente alla falsa credenza nell'omicidio rituale.
Nel 1554 la terribile accusa apparve nuovamente anche a Roma, sotto Giulio III (1550-1555), alla vigilia dell'avvento al soglio pontificio di Paolo IV (1555-1559), uomo dal carattere particolarmente rigido, i cui provvedimenti politici, rigorosi e autoritari, fecero soffrire sia gli ebrei che il popolo romano (cfr. Paolo IV, in MONDIN B., Dizionario enciclopedico dei Papi, Città Nuova, Roma, 1999, 329-334). Il problema si ripropose nuovamente in Polonia alla fine del Settecento. La Chiesa reagí incaricando il vescovo francescano Lorenzo Ganganelli, il futuro papa Clemente XIV, di preparare un votum, approvato poi dal Sant'Uffizio la vigilia di Natale del 1759, e che risulta uno dei piú dettagliati studi sull'argomento. Ne emerse una delle piú articolate denunce del mito dell'omicidio rituale quale leggenda priva di qualsiasi fondamento storico.
Nonostante tutto ciò nel 1840 il mito dell'omicidio rituale era ancora vivo. Un gruppo di ebrei venne accusato a Damasco dell'omicidio di un frate cappuccino sardo (p. Tomaso da Calangianus) e del suo domestico. Un recente studio dello storico israeliano Jonathan Frankel (cfr. FRANKEL J., The Damascus Affair. "Ritual Murder", Politics, and the Jews in 1840, Cambridge University Press, Cambridge-New York-Melbourne 1997) su questo celebre caso giudiziario e che ebbe grande risonanza internazionale, mostra come le forze liberali e progressiste, dalla Francia di Luigi Filippo al giovane Karl Marx, consideravano gli accusati pregiudizialmente colpevoli mentre era la diplomazia cattolica ad esigere il piú scrupoloso rispetto dei diritti degli imputati. Frankel cita un discorso particolarmente violento di Marx, del 1847, nel quale egli sostiene che anche i cristiani... «macellavano esseri umani e consumavano vera carne e sangue umano nell'eucaristia» (il discorso, inedito, fu pubblicato come introduzione di Karl Marx alla seconda edizione dell'opera di Georg Friedrich Daumler, Geheimnisse des christlichen Altertums, Wissenschaftliche Bibliothek des proletarischen Freidenkertums, Dresda 1923, p. V). Per un approfondimento sul caso "p. Tomaso da Calangianus" è possibile consultare anche INTROVIGNE M., Il caso di Damasco: i cattolici, antisemitismo e politica negli anni 1840, in Cristianità n. 279-280 (1998), 18.
Mentre la questione dell'omicidio rituale sembrava ormai destinata all'oblio, un recente studio ha inaspettatamente riacceso l'interesse e la polemica. Si tratta dell'opera di Ariel Toaff, Pasque di sangue - Ebrei d'Europa e omicidi rituali che ha visto la luce per i tipi de Il Mulino (Bologna 2007). L'autore sostiene che la gravissima accusa rivolta per lunghi secoli agli ebrei di uccidere ritualmente bambini cristiani per usare il loro sangue nelle celebrazioni pasquali, non sarebbe del tutto priva di fondamento. Secondo Toaff tra il XII e il XV secolo alcuni ambienti integralisti del giudaismo askenazita avrebbero effettivamente praticato riti del genere.
Il 6 febbraio 2007 il Corriere della Sera, con un articolo a firma di Sergio Luzzatto, ebreo anch'egli e docente di Storia moderna all'Università di Torino, ha recensito il libro definendolo "un gesto di inaudito coraggio intellettuale". Una parte significativa del volume è dedicata all'episodio del piccolo Simone di Trento, noto alla pietà popolare cattolica come san Simonino, il caso forse piú famoso di omicidio rituale, insieme con quello di Damasco, di cui fu vittima il già citato padre Tommaso da Calangianus. È bene precisare che l'indagine si sviluppa per un arco limitato di tempo, dal caso di Norwich (1144) a quello appunto di Trento (1475) ed ignora quindi tutto l'arco di tempo successivo, che giunge sino ai giorni nostri o quasi, se è vero che all'indomani della fine della guerra e dopo Auschwitz, a Kielce, 42 ebrei furono uccisi dalla folla ed oltre cento furono i feriti gravi, per l'uccisione di un bambino di nove anni, Henryk Błaszczyk (TARADEL R., L'omicidio rituale, Editori Riuniti, Roma, 2002, 298) e che in Polonia l'accusa pare sia sopravvissuta fino al 1964.
Il libro è costato al professor Toaff sette anni di ricerche e due anni accademici di lezioni agli studenti dell'Università ortodossa di Bar-Ilan in Israele, è stato inoltre rivisto da numerosi esperti e infine dopo due anni di ulteriore valutazione è stato consegnato alle stampe. Esso è corredato da circa cento pagine di note su trecentocinquanta di testo. «Pasque di sangue non è un libro scritto in un mese e mezzo - afferma Toaff -. Sono 400 pagine, costituite per un terzo da documenti in nota, costate sette anni di lavoro. I rabbini l'hanno stroncato con un giro di telefonate. Ero e sono consapevole della delicatezza dell'argomento: per questo ho tenuto fermo il libro due anni. Ho chiesto l'aiuto di studiosi, che hanno potuto consultare il mio archivio in Italia. Mi sono rivolto a colleghi e allievi in Israele. Ho mandato capitoli interi da rileggere a esperti stranieri e italiani. Ho preferito non riferire nel libro alcuni casi, in cui non era perfettamente certo che le confessioni trovassero conferma nei documenti. Ma le reazioni prescindono dalle carte, dalla ricerca, dalla verità. Da anni dirigo una rivista di cultura ebraica; i finanziatori mi hanno appena telefonato per dirmi che o mi dimetto o la rivista chiude. Sto pagando un prezzo molto alto per aver violato un tabú. Sarebbe troppo se, per colpa di altri, a questo prezzo si aggiungessero la stima e l'affetto di mio padre [l'ex rabbino capo di Roma, Elio Toaff]» (cfr. Il dolore di Ariel Toaff: mio padre usato contro di me, in Il Corriere della Sera, 8 febbraio 2007).
Ma l'opera di Toaff non è una novità assoluta. Fu Bernard Lazare, che nel libro L'Antisemitismo - sua storia e cause (LAZARE B., L'antisemitismo sua storia e cause, Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia, 2000) anticipava di oltre un secolo in poche sintetiche righe il contenuto di «Pasque di sangue». Nel libro, senza generalizzare l'accusa, egli ammetteva che alcuni casi si erano certamente verificati. Lazare non era un ebreo convertito, come altri che sostennero la veridicità dell'accusa (come, ad esempio, Cesare Algranati all'inizio del Novecento) e non era uno studioso qualsiasi: Lazare fu uno degli intellettuali che ai tempi dell'«Affaire Dreyfuss» (1894-1906) si schierò, insieme con altri intellettuali dell'epoca, quali Emile Zola, con l'ufficiale di stirpe ebraica, accusato di alto tradimento. Il suo libro ha però un pregio straordinario: la sua storia dell'antisemitismo è stata scritta nel lontano 1884, molto prima quindi della Shoah. E si vede. Non risente di quella cappa di imbarazzo, timore e conformismo che rende difficile parlare di storia ebraica: un compito che ogni coscienza onesta ha il dovere di affrontare con la massima trasparenza e sincerità.
Il mito della peste, i ghetti e le espulsioni
Con l'arrivo della peste in Europa nacque il secondo mito antigiudaico secondo il quale sarebbero stati gli ebrei a diffondere le malattie. Fin dal 1347 il percorso della peste fu accompagnato dalle sollevazioni popolari contro gli ebrei. La Chiesa, con Clemente VI (1342-1352), condannò con molta forza ma invano questa falsa credenza. Nonostante le condanne e le spiegazioni, le violenze popolari contro gli ebrei continuarono ad accompagnare la comparsa delle epidemie. Le continue tensioni fra le popolazioni e gli ebrei portarono infine al dramma delle espulsioni.
Cosí gli ebrei vennero espulsi dall'Inghilterra nel 1290 per iniziativa del re Edoardo I e dalla Francia per decreto emanato dal re Carlo VI nel 1394. Gli ebrei di Spagna furono invece costretti a convertirsi in massa al cristianesimo, e ben presto l'Inquisizione spagnola, istituita nel 1478, perseguí quelli bollati come marranos (in spagnolo "porci") perché accusati di continuare a professare segretamente la propria religione, nonostante l'accettazione formale della fede cristiana. Espulsi anche dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1497, gli ebrei trovarono rifugio in Olanda, a Roma, a Costantinopoli, nell'Europa orientale e soprattutto in Polonia, dove il loro numero ammontava nel 1648 a circa 500.000 individui. Qui essi vissero raccolti in comunità che godettero di una certa autonomia culturale e religiosa prima di divenire oggetto, fra il 1648 e il 1658, della violenta persecuzione scatenata dai seguaci di Bogdan Khmelnytsky, il leader dei cosacchi ucraini e della quale si tratterà in seguito.
In molti casi, a partire dal 1400, in Spagna e poi in Germania e a Venezia nel 1516, le espulsioni vennero sostituite dalla ghettizzazione. Il ghetto era un quartiere riservato agli ebrei dove essi erano obbligati a risiedere. Le mura del ghetto e i cancelli, chiusi dopo il tramonto, rappresentavano per gli ebrei una sanzione ma anche una forma di protezione, infatti, isolavano il quartiere dalle pressioni e dagli influssi del mondo esterno. L'istituzione del ghetto perciò fu intesa anche come una difesa della loro autonomia e della loro identità. A Mantova e a Verona, per esempio, l'anniversario della creazione del ghetto veniva celebrato dagli ebrei con feste e preghiere di ringraziamento. Nel 1215, con il concilio Lateranense IV (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, 2a ed. bilingue a cura di. G. Alberigo et al., EDB, Bologna 1991, 226-271), per evitare illeciti contatti sessuali tra ebrei e cristiani, venne introdotto il segno distintivo per gli ebrei, "come fu disposto d'altronde anche da Mosè" affermarono i padri conciliari (cfr. cost. 68 che cita Lv 19,19; Dt 22,5.11): un provvedimento in uso anche nei paesi islamici, sia pure con modalità diverse. Tale provvedimento fu largamente disatteso in Europa tranne che in Francia e in Inghilterra. Il concilio inoltre stabilí pene per il delitto di usura (cost. 67), precluse agli ebrei le cariche pubbliche (cost. 69) e vietò i riti e gli usi giudaici ai convertiti (cost. 70), poiché: "è minor male non conoscere la via del Signore, che abbandonarla dopo averla conosciuta".
Lo storico Paul Johnson nota che gli ebrei sostennero non di rado i movimenti che cercavano di turbare l'unità della Chiesa come il movimento albigese e quello hussita, il Rinascimento e la Riforma. Egli sostiene che essi furono spesso intellettualmente sovversivi (cfr. CAMMILLERI R., Storia dell'Inquisizione, Newton, Roma, 1997, 51). Anche dal punto di vista economico non mancarono motivi di attrito. Il prestito ad interesse, vietato in quel tempo ai cristiani e perciò esercitato dagli ebrei, era spesso un motivo di risentimento popolare. In un'economia essenzialmente agricola bastavano due annate sfavorevoli per mettere interi villaggi alla mercé dei creditori. Secondo alcuni storici fu anche il divieto di possedere terreni che indusse gli ebrei a questo rapporto privilegiato con il denaro. La storica Anna Foa fa notare che l'allontanamento dalla terra fu imposto agli ebrei solo alla fine del Medioevo e riguardava soltanto la proprietà del latifondo, non il possesso di piccoli appezzamenti di terreno (FOA A., Ebrei in Europa dalla peste nera all'emancipazione, Laterza, Bari 1999). Il divieto del latifondo era volto ad impedire agli ebrei di possedere schiavi cristiani perché la coltivazione del latifondo prevedeva l'impiego del lavoro servile.
Data la loro posizione critica gli ebrei, per secoli, ebbero nel papato l'unica tutela contro arbitri e violenze che altrimenti sarebbero state di gran lunga piú gravi e per questo motivo vi ricorsero spesso chiedendo aiuto e protezione. Alla fine del VI secolo, per esempio, gli ebrei di Marsiglia lamentarono che il vescovo aveva tentato di convertirli con la forza: Papa Gregorio Magno (590-604) condannò tale prassi. Quando le sinagoghe palermitane e cagliaritane vennero trasformate in chiese egli condannò i vescovi a risarcire gli ebrei della perdita subita. Nel 1236 l'ebreo convertito Nicholas Donin indirizzò a papa Gregorio IX (1227-1241) un memoriale contro il Talmud per quelle parti in cui esso contiene imprecazioni contro Cristo. Il Papa impartí l'ordine di confiscare i libri e di sottoporli ad esame: la confisca fu eseguita solo in Francia. L'intervento non era orientato alla soppressione del libro ma alla censura, cioè all'eliminazione delle parti considerate blasfeme. Papa Innocenzo IV (1243-1254), invocato dagli ebrei, intervenne a loro favore invitando Luigi IX a preservare i loro testi religiosi (FOA A., Ebrei in Europa dalla peste nera all'emancipazione, Laterza, Bari 1999, 31).
All'inizio del secolo XI si diffusero anche le accuse di tradimento a carico degli ebrei: corse voce che essi complottassero con i mussulmani. Anche la paura della fine del mondo nell'anno 1.000 ebbe la sua parte: la figura dell'anticristo venne messa in relazione con gli ebrei. Con la prima crociata si verificò un'esplosione di antisemitismo. San Bernardo di Chiaravalle corse ai ripari dichiarando esplicitamente: «Chiunque metterà le mani su un ebreo per ucciderlo farà un peccato tanto enorme come se oltraggiasse la persona stessa di Gesú» (cfr. AA. VV., Gli ebrei nella cristianità, in 100 punti caldi della storia della Chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1986, 149). Parimenti anche alcune autorità locali - una fra tutte l'arcivescovo di Magonza - disposero che la crociata di chi uccideva un ebreo fosse invalida, cioè che non avesse alcuna virtú espiatrice (cfr. LORTZ J., Storia della Chiesa, I, Paoline, Roma 1980, 628, 630-631). Misure indubbiamente provvidenziali ma talvolta insufficienti.
L'Inquisizione spagnola e l'ebraismo
Gli ebrei si rifugiarono nella penisola iberica già dopo la caduta dell'impero Romano. L'invasione dei visigoti, da poco convertiti al cristianesimo, li spinse tra i mussulmani del sud. Gli ebrei rimasti con i visigoti accettarono il cristianesimo, tuttavia non pochi continuarono in segreto ad osservare la religione ebraica. Nel 711 i mussulmani invasori della Spagna si mostrarono un po' piú tolleranti dei visigoti, tuttavia sotto il loro dominio gli ebrei dovevano pagare una tassa e portare un segno distintivo, inoltre era loro vietato montare a cavallo e portare armi. Gli ebrei a poco a poco ripiegarono nel commercio affermandosi anche nelle finanze e nelle amministrazioni. Quando la penisola iberica fu riconquistata dai cristiani, gli ebrei, continuarono a ricoprire i medesimi incarichi concorrendo alla creazione delle strutture amministrative e finanziarie dello stato spagnolo e acquistando un potere che non aveva uguali negli altri stati europei. Le comunità ebraiche aragonesi e castigliane godevano perfino di piena autonomia giudiziaria sia in materia civile, sia in materia criminale. Nel 1390, con la morte di Giovanni I di Castiglia, a Siviglia scoppiarono tumulti popolari contro gli ebrei che si estesero a tutta la Castiglia e alla Catalogna.
Le alte gerarchie ecclesiastiche e le autorità civili tentarono di frenare le violenze popolari ma non riuscirono a garantire l'ordine pubblico. Molti responsabili delle violenze contro gli ebrei vennero arrestati e condannati ma il popolo insorse liberando i prigionieri e attaccando le case dei notabili. Questa situazione di guerra civile gettò nella crisi un regno giovane come quello della Spagna dove su un totale di appena 6 milioni di abitanti c'erano non meno di centomila ebrei e oltre trecentomila mussulmani: forse nessun altro paese all'epoca aveva minoranze cosí consistenti. Quando nacque, l'Inquisizione spagnola, strumento politico largamente indipendente dall'autorità pontificia, perseguí una piccola percentuale di falsi convertiti ma certificò che tutti gli altri conversos - la grande maggioranza - erano veri spagnoli e veri cattolici e che nessuno aveva il diritto di usar loro violenza. Da quando ci fu l'Inquisizione i tumulti anti-ebraici vennero via via scemando nel tempo. Da sottolineare poi il fatto che essa fu anche amministrata da ebrei convertiti come Tomàs de Torquemada e il suo successore Diego Deza (cfr. INTROVIGNE M., L'Inquisizione fra miti e interpretazioni, intervista con lo storico Jean Dumont, in Cristianità 131 (1986), 11-13).
Manifestazione ebraica contro il sionismo
I prodromi dell'antisemitismo moderno
Il termine "antisemitismo" nacque intorno al 1879 per designare l'ideologia persecutoria nei confronti degli ebrei. Verso la fine del XIX secolo in Europa si verificò un ritorno del pregiudizio antisemita, ma stavolta su fondamenti diversi. Ai motivi religiosi si sostituirono quelli politici ed economici. Questo cambiamento era in qualche misura legato alla diffusione del nazionalismo e alla rivoluzione industriale; infatti, sia per la loro particolarità linguistica (l'uso del jüdische Deucht o yiddish in Europa centrale) e religiosa (la religione ebraica era praticata da una comunità che ignorava le frontiere), sia per la supposta preferenza per il liberalismo economico, gli ebrei furono accusati di indebolire l'unità nazionale. Anche lo sviluppo del capitalismo, in cui gli ebrei ebbero un importante ruolo finanziario, contribuí alla diffusione di stereotipi che alimentarono il pregiudizio antisemita. In Francia, Germania e Russia, contemporaneamente alla diffusione di ideologie nazionalistiche e anticapitalistiche, si diffuse, in misura molto maggiore che negli altri stati europei, un forte risentimento nei confronti degli ebrei.
Ma fu soprattutto in Germania e Austria che si sviluppò l'antisemitismo moderno. Una prima campagna antisemita lanciata in seguito alla grave crisi economica colpí i due paesi verso il 1870. Nel 1880 Eugène Dühring pubblicò un saggio violentemente antisemita (-,Die Judenfrage als Frage der Rassenschädlichkeit für Existenz, Sitte und Kultur der Völker, 4th ed., Berlin: Reuther und Reichard, 1892). In Austria il Partito cristiano-sociale vinse le elezioni per il borgomastro della città di Vienna con un programma dichiaratamente antisemita. Gli argomenti utilizzati dall'antisemitismo tedesco erano fondamentalmente due: il primo, che riprendeva le tesi sviluppate in Francia da Gobineau, affermava la superiorità della razza ariana e metteva in guardia dal pericolo di una sua corruzione resa possibile dai matrimoni con individui di razza ebraica; il secondo sosteneva la pericolosità del liberalismo, considerato da una parte dell'élite tedesca come una dottrina squisitamente ebraica. La diffusione dei sentimenti antisemiti fu utilizzata senza tanti scrupoli dal cancelliere Otto von Bismarck contro le opposizioni democratiche e marxiste: indicando gli ebrei come i fomentatori delle lotte sociali, egli sperava di contrastare l'affermazione del movimento socialista.
In Francia l'antisemitismo ebbe uno sviluppo analogo: scoppiato in seguito al fallimento di una banca (attribuito al complotto di una supposta banca ebraica), si alimentò di sentimenti nazionalisti, anticapitalisti e teorie pseudo-scientifiche sulla razza e culminò nel 1894 nell'affare Dreyfuss, l'ufficiale ebreo dell'esercito francese imprigionato con l'accusa di tradimento. Tuttavia in Francia, la forte mobilitazione in difesa di Dreyfuss (nel 1898 Emile Zola pubblicò il famoso J'accuse) e la successiva liberazione, segnarono, dopo anni di drammatica tensione fra i democratici e la destra nazionalista, la fine dell'antisemitismo come argomento di propaganda politica.
L'antisemitismo nell'Europa orientale
A differenza di quanto avvenne nell'Europa occidentale, in quella orientale il processo di emancipazione degli ebrei ebbe meno successo. Emblematico per molti versi fu il caso polacco che merita perciò di essere approfondito. Nel 1634 la Polonia era lo Stato piú vasto d'Europa, esteso dal Baltico fin quasi al Mar Nero, dalla Slesia tedesca a quella che oggi è nota come Ucraina, circa 200 chilometri oltre il fiume Dnepr. Il 60% della popolazione non era polacca e nemmeno cattolica ma ampiamente ortodossa. In questi territori conquistati, oggi parte di Ucraina e Bielorussia, fino alla Crimea, la nobiltà polacca acquisí proprietà immense, veri e propri latifondi affidati a contadini poveri e mal retribuiti. Nel 1633 il parlamento polacco dominato dai nobili, il Sejm, affidò l'amministrazione diretta di tali territori alle classi sociali inferiori. Molti territori finirono perciò in affitto agli ebrei, con contratti a breve termine, in cambio di un canone fisso e anticipato. Era il sistema detto dell'arenda; nella lingua dei contadini polacchi, arendarz (esattore) ed ebreo divennero via via sinonimi. Con il passare del tempo l'80% dei capifamiglia ebrei nelle campagne, e il 15% nelle città, erano impiegati come arendarz. Il Kahal ebraico in seguito peggiorò la situazione aggiudicando i contratti d'arenda alle famiglie piú facoltose, che poi li subappaltarono a quelle piú povere e perciò meno disponibili nei confronti dei contadini.
L'oggetto dell'arenda (affitto di beni o diritti immobiliari) era costituito dai terreni agricoli, ma anche dai mulini e dai pedaggi su strade e ponti, incluso il diritto di esazione da ogni tipo di monopolio. E poiché il contratto era a breve termine e poteva non essere rinnovato, i locatari avevano tutto l'interesse ad ottenere quanti piú proventi possibile nel poco tempo loro concesso. L'istituto iniquo dell'arenda e il modo in cui venne gestito fu la causa profonda della secolare miseria dell'agricoltura polacca. Gli esattori, viste le condizioni economiche, non avevano alcun interesse a mantenere in buono stato le fattorie, le attrezzature e a non sfruttare oltre i limiti consentiti i terreni e i lavoratori. Spesso il grano veniva sottratto all'uso alimentare per destinarlo alla distillazione, ben piú lucrosa.
Fu cosí che con il tempo, fra i contadini polacchi, si svilupparono sentimenti antisemiti sempre piú forti. Non altrettanto invece fra gli irresponsabili nobili polacchi. Scrisse Graetz (1817-1891), nella sua monumentale Storia degli ebrei (GRAETZ H., Volkstümliche Geschichte der Juden, 3 voll., Leipsic, 1888): «L'ebreo in qualche misura controbilanciava i difetti nazionali: l'incostanza impulsiva, la leggerezza, la prodigalità della nobiltà polacca trovavano il loro contrappeso nella prudenza, sagacia economica e cautela ebraica. Per il nobile polacco l'ebreo era piú che un finanziere; era il suo consigliere prudente, quello che lo cavava dai debiti, il suo tutto in tutto... un'alleanza utilitaristica unica fu formata tra il latifondista polacco e l'elite finanziaria giudaica». Nel 1572, a Knyszyn Bialistok, morí re Sigismondo, con lui si estinse la dinastia degli Jagelloni. L'età d'oro della Polonia volgeva al termine e sul paradisus judaeorum cominciarono ad addensarsi nubi sempre piú minacciose.
Fra le etnie che l'espansionismo imperiale polacco aveva incorporato c'era anche quella dei cosacchi. Anche ad essi fu esteso il regime dell'arenda, un sistema - come già visto - del tutto sgradito. Presto fra di essi emerse un personaggio, Bogdan Khmelnytsky, la cui protesta ebbe una larga eco. In poco tempo Khmelnytsky si trovò a guidare una rivolta di cosacchi e di tartari che il 16 maggio 1648 riuscí a sconfiggere l'armata polacca. Da allora la rivolta giunse fino al cuore della Polonia con un'ondata di saccheggi, stupri e massacri che colpí in modo particolare gli ebrei e che durò fino al 1658. Si stima che ne siano stati uccisi non meno di 100.000. Le armate polacche - in ritirata - furono la sola difesa degli ebrei. Quando l'armata cosacca giunse in Galizia, a Lwow, Khmelnytsky chiese la consegna degli ebrei rifugiatisi nella città. I polacchi, nonostante le gravi difficoltà, non consegnarono alcun ebreo, resistettero, e cosí salvarono quelli che erano rimasti a Lwow. Quello degli ebrei in Polonia fu un tragico epilogo di una ancor più tragica storia.
Non diverso fu l'epilogo della storia ebraica in Russia dove, ancora nel XIX secolo, venivano adottate misure restrittive volte ad impedire agli ebrei l'acquisizione di proprietà terriere e a limitare loro l'accesso all'istruzione superiore. La persecuzione culminò nel 1881 in una serie di massacri collettivi, noti come pogrom, che coinvolsero centinaia di villaggi e città dopo l'attentato che costò la vita allo zar, Alessandro II Romanov, ad opera di un membro del gruppo rivoluzionario Narodnaja volja (Volontà del popolo). Uno dei massacri piú feroci si verificò nel 1906, all'indomani del fallimento della prima Rivoluzione russa. Gli storici convengono sul fatto che i pogrom furono il risultato di una deliberata politica del governo, che preferí volgere al fanatismo religioso il malcontento delle masse russe. A tal fine si ricorse persino a un nuovo tipo di propaganda, che consisteva nella fabbricazione e nella pubblicazione di documenti falsi. I cosiddetti Protocolli dei savi di Sion, ad esempio, avevano la pretesa di rivelare i particolari di una cospirazione internazionale ebraica per dominare il mondo. Queste pubblicazioni risalenti al 1905 e contenenti informazioni false furono usate anche durante i pogrom successivi alla Rivoluzione del 1917, in cui vi furono centinaia di migliaia di vittime. Non meno gravida di tragedie fu la storia degli ebrei in altri paesi dell'Europa orientale come la Slovacchia degli anni Quaranta del Novecento. Al riguardo merita una menzione particolare l'articolo del gesuita Fiorenzo Cavalli (cfr. -, La Santa Sede contro le deportazioni degli Ebrei della Slovacchia durante la seconda guerra mondiale, in CivCatt, 112/III (1961), 3-18).
L'antisemitismo nazista neopagano
L'antisemitismo, che nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale fu sempre diffuso, ancorché non organizzato, esplose nella Germania degli anni Trenta del Novecento sotto il regime nazista guidato da Adolf Hitler. Con il nazismo la discriminazione e la persecuzione degli ebrei divennero un vero e proprio obiettivo politico sistematicamente perseguito. Iniziata già nel 1933 con il boicottaggio dei negozi, la persecuzione contro gli ebrei continuò prima con la promulgazione delle leggi di Norimberga del 1935 e con la drammatica "notte dei cristalli", tragico evento che prese il nome dalle vetrate infrante dai nazisti nei quartieri ebraici di diverse località della Germania, nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938, che inaugurò la fase piú violenta delle persecuzioni antisemite del regime instaurato da Hitler. Ne forní il pretesto l'assassinio, avvenuto a Parigi il 6 novembre dello stesso anno, del diplomatico tedesco Ernst von Rath da parte di un giovane esule ebreo, Hirsch Grynszpan, sconvolto dalla deportazione dei suoi genitori ad opera dei nazisti in Polonia. Per ritorsione Hitler scatenò una campagna punitiva coordinata tra Gioventú hitleriana e Schutzstaffeln (le tristemente note SS) che in ventiquattro ore devastò migliaia tra sinagoghe, negozi, uffici e abitazioni di ebrei, facendo quasi duecento vittime, e avviando ai campi di concentramento 26.000 persone. Le deportazioni culminarono poi nella cosiddetta "soluzione finale", lo sterminio di tutti gli ebrei dei territori occupati dai tedeschi tra il 1939 e il 1945. Fu proprio nel gennaio 1939 che Adolf Hitler manifestò chiaramente le sue intenzioni con una durezza inaudita:
«In questo giorno, che forse non sarà memorabile solo per i Tedeschi, vorrei aggiungere questo: nella mia vita, nel corso della mia lotta per il potere, spesso sono stato profeta, e spesso sono stato sbeffeggiato, in primo luogo dal popolo ebreo, che ha accolto con risa le mie profezie, vale a dire che un giorno avrei assunto il comando dello Stato e, facendo ciò, del popolo intero, e che tra le altre questioni avrei risolto il problema ebraico. Credo che nel frattempo la risata della iena giudaica della Germania le si sia spenta in gola. Oggi sarò di nuovo profeta: se la finanza ebraica internazionale d'Europa e fuori d'Europa dovesse arrivare, ancora una volta, a far precipitare i popoli in una guerra mondiale, allora il risultato non sarà la bolscevizzazione del mondo, e dunque la vittoria del giudaismo, ma, al contrario, la distruzione della razza giudea in Europa».
Ancora nel discorso dell'8 novembre 1942, tenutosi a Berlino, Hitler ribadí:
«Vi ricorderete ancora della seduta al Reichstag in cui io affermai: qualora l'ebraismo si illuda di poter provocare una guerra mondiale per annientare le razze europee, il risultato non sarà l'annientamento delle razze europee, bensí l'annientamento dell'ebraismo in Europa. Voi mi avete sempre deriso per queste mie profezie. Ma di quelli che allora ridevano, oggi moltissimi non ridono piú. Coloro che oggi ridono ancora, forse tra qualche tempo non rideranno piú. Questa ondata si propagherà dall'Europa a tutto il mondo. Dell'ebraismo internazionale verrà riconosciuto tutto il demoniaco pericolo. Vi provvederemo noi nazionalsocialisti»!
Alla fine della Seconda guerra mondiale i due terzi dell'intera popolazione ebraica residente in Europa erano stati uccisi nei campi di sterminio. Anche in Italia, nel 1938, vennero promulgate delle leggi razziali, sul modello di quelle tedesche, che privarono i 40.000 ebrei italiani dei diritti civili e politici e ne condannarono molti alla deportazione nei campi di concentramento tedeschi. Cosí, appena sessantacinque anni fa, gli ebrei furono cacciati dall'Europa da numerosi regimi totalitari proprio quando la maggioranza di essi era completamente convinta che la sua condizione di emancipazione fosse finalmente maturata in un'assimilazione a tutti i livelli. Fu la politica nazifascista a smentrli più duramente. Cosí successe che la Germania, che era allora la nuova patria ebraica, cambiò totalmente atteggiamento. Nel giro di pochi anni si trasformò nel peggior nemico che gli ebrei avessero mai conosciuto. Ma la Germania nazista non fu un caso isolato, infatti, se l'industria dell'omicidio fu amministrata soprattutto dai nazisti, la maggior parte delle nazioni europee collaborò piú o meno volontariamente alle politiche di deportazione. Che piaccia o no furono molti gli europei che in quegli anni collaborarono in qualche modo per trasformare l'Europa in una "zona libera dagli ebrei". Furono molti di piú tuttavia quelli che collaborarono per salvarli, spesso rischiando gravemente la loro stessa vita.
Il lager di Auschwitz
L'affermazione del sionismo
Dopo la Seconda guerra mondiale, con l'appoggio delle Nazioni Unite, gli ebrei hanno avuto una grande opportunità per mutare le loro vicende in una storia di pace e di progresso. Nel 1947 gli inglesi chiesero l'intervento della neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, che stabilí un piano per la divisione della Palestina in due stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo, mentre Gerusalemme sarebbe diventata zona internazionale controllata direttamente dall'ONU. Il 14 maggio 1948, a Tel Aviv, un governo provvisorio proclamò la nascita dello stato d'Israele "aperto all'immigrazione di ebrei provenienti da tutte le parti del mondo". Il giorno seguente gli eserciti di Egitto, Transgiordania (l'attuale Giordania), Siria, Libano e Iraq si unirono alle popolazioni palestinesi e alla guerriglia araba che lottavano contro le forze ebraiche sin dal novembre del 1947, dando avvio alla prima guerra arabo-israeliana. Gli arabi, tuttavia, non riuscirono ad evitare la formazione del nuovo Stato e la guerra si concluse nel 1949 con quattro armistizi disposti dall'ONU tra Israele ed Egitto, Libano, Giordania e Siria. Il conflitto si concluse favorevolmente per Israele ma alterò profondamente gli equilibri della regione.
Gli accordi estesero il territorio israeliano al di là dei confini stabiliti inizialmente dall'ONU (da circa 15.500 a 20.700 km2), comprendendo anche la parte nuova di Gerusalemme, che fu eretta a capitale; la striscia di Gaza, sul confine tra Israele ed Egitto, venne affidata a quest'ultimo, mentre la Cisgiordania e la parte antica di Gerusalemme furono annesse dalla Giordania. Degli oltre 800.000 arabi che abitavano in Palestina nel 1949, ne rimasero solamente 170.000; i rimanenti si rifugiarono nei paesi confinanti. Nel 1949 si tennero le prime elezioni per la Knesset (il parlamento israeliano) e Chaim Weizmann, eminente leader sionista, divenne il primo presidente del Paese. Gli storici, ma soprattutto i moralizzatori, asseriscono che la conoscenza del passato aiuti l'umanità a comprendere il presente e a garantire il futuro; purtroppo spesso non è cosí. Israele avrebbe potuto rileggere la storia dell'ebraismo e imparare, come tutti i popoli, dai suoi stessi errori, l'impressione invece è che non lo abbia fatto. Ciò a cui si è assistito infatti è il frequente ricorso al passato prossimo e remoto per rivendicare sempre piú sostegno e leadership. Cosí la politica del nuovo Stato rischia di aggiungere nuova sofferenza a quella che ha già caratterizzato ampiamente la sua storia. Il cosiddetto atteggiamento sionista del "Mai piú" rischia di sfociare in una logica che in ultima analisi è autodistruttiva e spinge il mondo verso una conflittualità sempre piú estesa. Una conflittualità che non è affatto insolita nella storia di Israele.
Amos Elon, autore di uno dei maggiori compendi sull'ebraismo in Germania, fornisce un capitolo alquanto sconcertante di bellicismo patriottico ebraico nella Seconda guerra mondiale. «Per Buber - scrive Amos Elon - la guerra era un 'trampolino sacro' una meravigliosa purificazione attraverso la violenza, si beava nella sua pura bellezza morale». Ciò che sconcerta è che Buber non era solo. Per esempio, durante le prime settimane di guerra anche Freud cedette all'esaltazione generale: «Non vedeva l'ora di vedere le truppe tedesche marciare trionfanti su Parigi» (AMOS ELON, The Pity Of It All, Penguin Books 2004, 318). La storia attesta che l'esaltazione bellicista non sarebbe durata molto a lungo. Alla vigilia della guerra lo stesso Chaim Weizmann (Motol 1874 - Rehovot 1952) accolto dall'ambasciatore britannico a Berlino disse che «...gli intellettuali ebrei sono evidentemente i piú arroganti e bellicosi di tutti i tedeschi» (AMOS ELON, The Pity Of It All, Penguin Books 2004, 318). L'attuale politica israeliana nel vicino Oriente potrebbe gettare molta luce su un crescente antisemitismo che non può non destare preoccupazione. Ma il mondo occidentale non comprende il dramma ebraico piú vero e piú profondo, preferisce guardare altrove piuttosto che impegnarsi a comprendere la vera natura di Israele. Questa ignoranza, il rifiuto di guardare alla verità e la completa mancanza di riflessione critica assicurano sí la tolleranza, quando non l'aperto appoggio verso un sistema ideologico controverso, ma accrescono a dismisura un'incognita storica, quella nazional-sionista, ossia quella dell'ultima ideologia nazionalista ottocentesca della quale non si sono ancora manifestati tutti gli esiti.
Purtroppo anche fra i cristiani si manifesta spesso la medesima ignoranza; la medesima confusione fra l'Israele della fede e quello della storia, in una sorta di impostura pseudo-religiosa che sfocia poi nel cosiddetto "sionismo cristiano". L'ebraismo odierno, sorto di recente, molto tempo "dopo Cristo", non può certo rivendicare alcuna paternità nei confronti del cristianesimo, nei confronti del quale anzi è in parte debitore, soprattutto dal punto di vista culturale. Molti degli ebrei moderni sono figli di un occidente cristiano, anche se ampiamente secolarizzato, e non si ispirano alla Bibbia, anzi, non di rado non sono neanche praticanti. Come tanti occidentali dei paesi benestanti essi hanno abbandonato Dio tanto tempo fa, ma stranamente continuano a circoncidere i loro figli maschi, mutilano il giovane corpo dei loro figli per seguire un rituale di sangue tribale primitivo, permettendo che un rabbino, un Mohel, ferisca ritualmente il loro bambino appena nato succhiandone il sangue dal pene. L'ebreo laico moderno è riuscito ad assimilare molto del mondo occidentale, ma non è riuscito a fondersi del tutto con il resto dell'umanità dalla quale ha del resto l'imperativo di distinguersi, come attestò anni fa il rabbino Schneerson, capo del Lubavitcher, citando un passo talmudico secondo il quale la differenza tra un ebreo e un non-ebreo si comprende alla luce della nota sentenza: "differenziamoci" (cfr. SHAHAK ISRAEL, Jewish fundamentalism in Israel, Londra, 1999). Il problema è che è pressoché impossibile essere "radicalmente diversi" senza una "terra diversa".
Una storia alternativa negata
Nel tentativo di erigere una nuova patria il sionismo ha fatto gravi ed innumerevoli errori. Invece di favorire le relazioni pacifiche con i nuovi vicini esso ha sostenuto una condotta politico-militare a dir poco intransigente. Da quasi sessant'anni Israele infligge e riceve sofferenze dai suoi vicini piú stretti e centinaia di migliaia di palestinesi vivono in campi rifugiati in condizioni spesso disumane, discriminati dai nuovi coloni. Nel 1948, solo tre anni dopo la liberazione di Auschwitz, il sionismo ha subito un'evoluzione da filosofia nazionalista piú o meno idealista a politica strategica e militare (nazionalsionismo) dimostrando al di là di ogni dubbio di aver interiorizzato molte delle passate strategie politico-militari. Già nel 1948 i legislatori israeliani stabilirono leggi razziali quanto meno preoccupanti e mai passate al vaglio di una adeguata riflessione internazionale. Anche oggi Israele, in modo molto simile ai suoi ascendenti aschenaziti non ama mescolarsi con i popoli gentili, con i goyim.
L'Israele contemporaneo appare come una reviviscenza dell'antico ghetto ebraico europeo. Tuttavia il ghetto israeliano è un netto miglioramento rispetto al vecchio shtetl dell'Europa orientale. Nel moderno stato ebraico, sono i goyim ad essere rinchiusi dietro ai muri in posti che non sembrano essere molto diversi dai campi di concentramento. A difesa dell'inclinazione ebraica del dopoguerra verso il sionismo si potrebbe invocare l'olocausto. Ebbene, dopo essere stati traumatizzati dal peso dell'odio razziale, gli ebrei di tutto il mondo hanno concordato in maniera collettiva il proposito del 'Mai piú'. 'Mai piú' gli ebrei dovevano essere portati al massacro. Mentre Emanuel Levinas, il filosofo ebreo del dopoguerra, credeva che dopo Auschwitz gli ebrei sarebbero stati fermi in prima linea in qualsiasi battaglia contro la crudeltà, la discriminazione, il razzismo e altri mali della civiltà moderna, pare invece che sia accaduto l'esatto contrario: lo stato ebraico è afflitto come e piú degli altri da tutti i mali della storia moderna, nessuno escluso.
Effettivamente fu un'illusione credere che la nuova entità nazionale avrebbe evitato dolore e sofferenze al suo popolo. È un'illusione credere che una volta distrutti i nemici si possa poi vivere finalmente in pace. La violenza che tormenta il vicino Oriente è anche la conseguenza della folle logica di una legge del taglione alla quale sia Israele sia il mondo islamico si ispirano, dimenticando che essa porta in sé la sua condanna, reclamando sempre nuovo sangue in una spirale senza fine. Israele esige giustamente che nessun ebreo venga piú rapito, che nessun bambino salti in aria nella propria casa o altrove, che nessun padre debba lasciare la sua famiglia per andare in guerra, ma dimentica che dall'altra parte vi è esattamente la stessa intransigente volontà di vita e di morte. Ha senso dunque coltivare un'ideologia nazionalista ed etnica non meno pericolosa di quella che investí la Germania del 1934? Di fronte alla scia di sangue che dal 1948 fino ad oggi ha costellato la storia di Israele viene da chiedersi se non sarebbe stata piú propizia una soluzione alternativa. Cosí afferma il rabbino Dovid Weiss, del Naturei Karta International, che a New York, il 26 gennaio 2001, durante una manifestazione ad Hammarskjold Plaza, nel contesto della "Metropolitan Muslim Federation Protest", ha dichiarato:
«Con l'aiuto del Creatore, possano le mie parole portare alla santificazione del Suo grande e glorioso nome. Sono venuto qui, oggi, per dire a tutti voi che partecipate a questa nobile assemblea, per dire a tutti i media qui riuniti e per proclamare al mondo che una bugia terribile, una grande bugia è stata rifilata all'umanità. Questa bugia è insidiosa e capace di creare grande danno se lasciata inalterata. Qual'è questa orribile bugia?
Essa viene sostenuta da alcuni uomini negli ultimi cento anni ed è stata condannata ripetutamente dai veri leaders della Torah. È la bugia che sostiene che giudaismo e sionismo siano un'unica identica cosa. Niente è piú lontano dalla realtà. Il giudaismo non è il sionismo ed i sionisti non rappresentano la fede ebraica. Il giudaismo è la fede della Torah. Il sionismo sconfessa sia la Torah che il Dio che l'ha ispirata. Il giudaismo insegna ai suoi fedeli la gentilezza e la bontà verso tutti gli uomini. Il sionismo, per la sua accezione, invoca e spinge verso la crudeltà nei confronti dei palestinesi. Il giudaismo insegna ai suoi fedeli a camminare con umiltà tra le nazioni. Il sionismo invoca e mette in pratica la guerra contro tutte le nazioni. Il giudaismo si preoccupa della sofferenza dei poveri e dei diseredati. Il sionismo, sadicamente, se ne approfitta. [...].
Noi siamo un popolo disperso. Ci è proibito ogni tentativo di conquistare la Terra Santa. Tentando di fare ciò, il Sionismo è condannato al fallimento. Ciò avverrà, se Dio vuole, velocemente e pacificamente nel nostro tempo [...]. La nostra posizione, basata sul rispetto per la Torah, è molto semplice. Noi chiediamo lo smantellamento pacifico dello stato d'Israele, senza violenza né spargimento di sangue. Siamo certi che questo potrà avvenire solo se e quando la popolazione ebraica di Israele comincerà a comprendere che i suoi attuali problemi sono il risultato del Sionismo. Aspettiamo il giorno in cui ebrei e palestinesi possano vivere insieme in pace in Palestina. Sfidiamo il Sionismo a presentare un'alternativa all'attuale empasse che non sia l'oppressione e la repressione continua. Sfidiamo il Sionismo a negare che il sentiero della vera pace non produrrà mutuo rispetto e mutua comprensione. Con l'aiuto di Dio, verrà il giorno in cui - dopo la fine dello stato etnico d'Israele - ebrei, cristiani e musulmani potranno nuovamente vivere insieme ed adorare Dio in pace».
Le ragioni profonde del sospetto antisemita
La questione ebraica, continuamente rilanciata, costituisce un disagio per molti credenti odierni, soprattutto per quelli che reputano che la storia passata sia intrisa di errori e pertanto sostanzialmente irrecuperabile. Ebbene, chiunque abbia il coraggio di confrontarsi con le fonti storiche, deve arrivare ad una conclusione sconcertante: in Italia, alla fine degli anni Trenta, i provvedimenti presi dal fascismo nei confronti degli ebrei coincidevano in parte con le aspettative e le richieste portate avanti sin dalla prima metà dell'Ottocento anche da ambienti cattolici ufficiali. In quegli anni molti sono andati alla ricerca di un rifiuto, di un gesto sdegnato dei credenti, per le misure discriminatorie antiebraiche che invece - salvo lodevoli eccezioni - non si imposero all'attenzione generale.
Coloro che, nella Chiesa, non approvarono esplicitamente le decisioni fasciste tacquero o ritennero giusto protestare, almeno per quel poco che il regime dittatoriale consentiva. Ci fu invece - e non va mai dimenticato - la decisa condanna di quei provvedimenti discriminatori sfocianti nel razzismo. Una condanna rinnovata sempre senza esitazione per un antisemitismo che - è bene sottolinearlo spesso - è figlio della modernità atea e non del cristianesimo. La Chiesa ha sempre condannato ogni violenza, esortando i suoi figli ad astenersi da ogni brutalità; una condanna che suonò come una ripulsa al programma fascista verso gli ebrei e che Benito Mussolini sintetizzò con lo slogan: «Separare, non perseguitare». Da notare che la cautela della Santa Sede rispetto alle leggi razziali italiane venne rilevata anche dallo storico Renzo De Felice nella sua Storia degli Ebrei italiani sotto il Fascismo (cfr. DE FELICE R., Storia degli Ebrei italiani sotto il Fascismo, Einaudi, Torino 1993, 477-478).
Ecco il problema dunque: occorre rifiutare una volta per tutte le rimozioni ipocrite e accettare, anche se scomoda, la verità di una contrarietà anche cattolica verso il mondo ebraico che tuttavia non accoglieva le istanze razziste dell'epoca. Occorre capire dunque come e perché parte della Chiesa, inclusi alcuni ambienti ufficiali, aveva accolto tale prospettiva. È significativo per molti versi un articolo comparso su La Civiltà Cattolica del 1890 a firma del gesuita p. Raffaele Ballerini. Nell'introduzione egli scrisse: «Stoltamente si vuol far passare che, per il cristiano, la questione giudaica nasca da odio di religione o di stirpe». Allo stesso tempo egli rifiuta il termine "antisemitismo", forgiato in quel XIX secolo, nato negli ambienti darwiniani e foriero di razzismo che, per chiunque segua il Vangelo, non può non essere denunciato e combattuto. Allo stesso modo p. Ballerini rifiutò gli stereotipi morali ed etici tradizionalmente affibbiati agli ebrei. Niente confische dunque o, peggio, la morte, ma nemmeno deportazioni o espulsioni, cose tutte che sarebbero difformi dal modo di sentire e di operare della Chiesa.
Cosí continua, dunque, p. Ballerini:
«L'unico e piú solido partito per liberare la cristianità dall'oppressione del giudaismo è nel tornare indietro e rifare la strada che si è sbagliata. Se non si rimettono gli ebrei al posto loro, con leggi umane e cristiane sí, ma di eccezione, che tolgan loro l'eguaglianza civile a cui non hanno diritto, che anzi è perniciosa non meno ad essi che ai cristiani, non si farà nulla o si farà ben poco. Data la loro presenza nei vari Paesi, e data la incommutabile lor natura di stranieri in ogni Paese, di nemici della gente di ogni Paese che li sopporta e di società separata sempre dalle società con le quali convive; data la morale del Talmud che seguono e dato il domma fondamentale della lor religione che li sprona ad impadronirsi, con qualsiasi mezzo, del bene di tutti i popoli, perché alla razza loro conferisce il possesso e l'imperio del mondo; dato che l'esperimento di molti secoli e quelli che facciamo ora han dimostrato e dimostrano che la parità dei diritti coi cristiani, concessa loro dagli Stati, ha per effetto o l'oppressione dei cristiani per mano loro o i loro eccidii per parte dei cristiani. Dato tutto questo, ne scende di conseguenza che il solo modo di accordare il soggiorno degli ebrei col diritto dei cristiani, è quello di regolarlo con leggi tali che al tempo stesso impediscano agli ebrei di offendere il bene dei cristiani ed ai cristiani di offendere quello degli ebrei».
Una sorta di legislazione di "legittima difesa", dunque, quella proposta da p. Ballerini, che non perseguiti ma separi, formula ripresa - come già rilevato - nel 1938 dallo stesso Mussolini. Si tratta di tesi sconcertanti per l'odierna mentalità, tuttavia, prima di abbandonarsi a facili commenti e gratuiti intenti polemici, sarà utile confrontarsi con l'odierna legislazione israeliana circa i diritti civili di un non ebreo in terra d'Israele. Ciò premesso, il p. Ballerini continua esponendo quello che era allora il pensiero cattolico preminente non smentito, quando non approvato, dalla stessa Santa Sede:
«...è questo ciò che, in guise piú o meno perfette, si fece pel passato e questo è ciò che gli ebrei da cent'anni in qua si sono studiati di disfare. Ma questo è ciò che, tosto o tardi, per amore o per forza, si avrà da rifare. E forse gli ebrei medesimi saran costretti di supplicare che si rifaccia».
Cosí il p. Ballerini giunge ad una predizione che non può non impressionare lo storico odierno:
«Perocchè, la strapotenza alla quale il diritto rivoluzionario li ha oggi sollevati, viene scavando loro sotto i piedi un abisso, pari nella profondità all'altezza cui sono assurti. Ed al primo scoppiare del turbine che essi, con questa loro strapotenza, vengono provocando, traboccheranno in un tale precipizio che sarà senz'esempio nelle istorie loro, com'è senza esempio la moderna audacia colla quale conculcano le nazioni che follemente li hanno esaltati [...] Questo secolo decimonono si chiuderà nell'Europa, lasciandola fra le strette di una questione tristissima, della quale nel successivo secolo ventesimo risentirà forse conseguenze sí calamitose che la indurranno a porvi un termine, con una risoluzione definitiva: alludiamo alla mai detta questione semitica, che piú rettamente va denominata giudaica».
Sono parole, queste della Civiltà Cattolica, che oggi si rileggono con disagio, tanto si è rovesciata in questi pochi decenni la prospettiva sociale ed ecclesiale. Sono parole che - se la storia non ne avesse dimostrato la tragica veridicità - verrebbe spontaneo rifiutare; la storia tuttavia può essere dimenticata o rimossa - a proprio rischio e pericolo - ma mai rifiutata: dal momento che essa è s'impone. Cosa c'era, insomma, alla base della diffidenza nei confronti degli ebrei? Da parte della Chiesa dinanzi al nazismo, per esempio, ci fu una severa condanna ufficiale, un deciso rifiuto del razzismo in senso biologico, insieme all'orrore per ogni violenza e ingiustizia; ci fu invece una certa comprensione per il fascismo e le sue leggi che furono presentate dal regime come una misura di "legittima difesa". Il motto "non perseguitare ma separare" fu sostenuto per decenni dall'ufficiosa Civiltà Cattolica tanto che, quando nel 1938 quelle leggi furono promulgate sui giornali, si sottolinearono la preveggenza e la fermezza dei gesuiti e, con loro, della gerarchia cattolica. In particolare, Il Regime Fascista di Roberto Farinacci pubblicò, il 30 agosto 1938, un articolo in cui si giustificava la legislazione razziale italiana servendosi degli articoli pubblicati dal p. Raffaele Ballerini sulla Civiltà Cattolica del 22 settembre, 4 novembre e 9 dicembre 1890 (cfr. DE ROSA G., La Civiltà Cattolica. 150 anni al servizio della Chiesa, 1850-1999, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1999, 93-95). Ciò che conforta è che all'atto pratico gran parte della comunità cattolica si mobilitò per salvare la vita agli ebrei quando furono minacciati di deportazione e di morte da parte dei tedeschi e dei loro collaborazionisti.
Di un certo interesse per la questione ebraica appare un severo articolo di Vittorio Messori comparso nella rivista "Il Timone" nel febbraio 2004 e intitolato: Cattolici: perché quella paura degli ebrei? Messori si rifà in particolare ai tre articoli sulla "questione giudaica" pubblicati nel 1890 dal padre Raffaele Ballerini e alle raccolte della Civiltà Cattolica dopo i provvedimenti fascisti del 1938, quando la rivista ammise qualche "acerbità di linguaggio" del loro estensore, ma confermò la sostanza dei suoi argomenti. Non si possono non rilevare poi anche le tesi del p. Martina S. J. redatte però in uno stile piú moderato (cfr. MARTINA G., «La Civiltà Cattolica» e la questione ebraica, in CivCatt, 151/II (2000), 263-268). In realtà quella del p. Martina è una recensione ad un libro di sicuro interesse per la questione ebraica (TARADEL R. - RAGGI B., La segregazione amichevole. «La Civiltà Cattolica» e la questione ebraica (1850-1945), Roma, Ed. Riuniti, 2000). Cosí scrive il Martina, traendone le conclusioni:
«Certo, il tono duramente negativo di Oreglia e di Ballerini nei confronti degli ebrei, il complesso delle loro accuse, la proposta di una segregazione razziale abbastanza estesa, oggi vanno risolutamente condannate, e il primo a insegnarcelo è proprio Giovanni Paolo II. Si deve però riconoscere che la posizione della rivista, prima e specialmente dopo il Concilio, ha avuto una larga e graduale evoluzione, analoga a quella della Chiesa in genere. Già Enrico Rosa nel 1934 criticava l'antisemitismo tipico del nazismo. Ben piú forte fu il cambiamento sotto Giovanni XXIII, con articoli pieni di rispetto di Agostino Bea. Ci sembra perciò un po' eccessivo il tono dell'introduzione, che parla di un'immagine attuale edulcorata di buonismo, che vede nella Chiesa un'immagine, sí, con forti ombre, rispetto però a una linea sostanzialmente buona. Il tono generale del documento da noi già pubblicato della Commissione teologica internazionale è diverso: "Lungo tutto il pellegrinaggio terreno, il grano buono resta sempre inestricabilmente mescolato con la zizzania, la santità si affianca all'infedeltà e al peccato". "[La Chiesa] condivide con i suoi contemporanei il rifiuto di ciò che la coscienza morale attuale riprova, senza proporsi come l'unica colpevole e responsabile dei mali del passato, ricercando [...] il dialogo nella reciproca comprensione"».
Piú interessante e puntuale pare rivelarsi invece il lavoro di p. Giovanni Sale nell'articolo Antisemitismo cattolico o antigiudaismo? Le accuse contro la Chiesa e la "Civiltà Cattolica", in CivCatt., 3647/II (2002), 419-431. Egli distingue anzitutto fra antigiudaismo religioso e antigiudaismo politico-sociale:
«Per comprendere l'atteggiamento della Gerarchia ecclesiastica e della Civiltà Cattolica sul problema ebraico è necessario premettere alcune considerazioni storiche. Da questo punto di vista va distinto un antigiudaismo religioso o dottrinale da un antigiudaismo per lo piú dettato da considerazioni di ordine socio-politico. Il primo era dovuto a motivazioni teologico-dottrinali: esso considerava l'ebreo, uomo senza patria, come un «dannato da Dio» a motivo del suo accecamento per non aver riconosciuto il Messia, e la sua condizione di esule era intesa e spiegata secondo particolari categorie religiose. In questo rientravano le gravi accuse di deicidio e di omicidio rituale. Alla divulgazione di tali idee contribuí in epoca moderna anche La Civiltà Cattolica con gli articoli del p. Giuseppe Oreglia di Santo Stefano e successivamente, sebbene in forma piú critica e moderata, dei pp. Raffaele Ballerini e Francesco Rondina. Tale mentalità antigiudaica, diffusa in ampi settori dell'opinione pubblica europea e non soltanto tra i cattolici, condannava l'ebreo a una condizione di emarginazione sociale. Frutto di tale atteggiamento furono in epoca passata i ghetti, che avevano lo scopo di tenere sotto controllo gli ebrei, sottoposti a una legislazione sociale apertamente discriminatoria (emanata si diceva piú per «cautela preventiva che per provvidenza punitiva»), ma anche quello di proteggerli contro possibili pogrom popolari. In ogni caso l'ebreo, pure accolto per motivi di carità cristiana, era tuttavia considerato parte estranea della società. L'antigiudaismo moderno nasce invece con la Rivoluzione francese e in particolare con l'emancipazione sociale e politica degli ebrei, sancita dai Governi liberali. Tale legislazione liberale, scriveva la nostra rivista, ha reso gli ebrei «baldanzosi e potenti, facendo loro sotto pretesto di uguaglianza una condizione sempre piú preponderante di prestigio, massime economico, nella società moderna» [ROSA E., Il pericolo giudaico e gli "Amici d'Israele", in Civ. Catt., II (1928), 341]. Altro motivo che spinse a lottare contro l'influsso che gli ebrei andavano acquistando a livello sociale, oltre alla loro preponderanza in campo economico e finanziario, fu il ruolo primario che molti di essi ebbero nella massoneria internazionale fortemente anticattolica e nei moderni movimenti rivoluzionari e non solo nella Russia di Lenin, ma anche negli Stati dell'Europa Occidentale. Tale modo di pensare era alimentato dal fatto che molti capi dei partiti comunisti europei erano ebrei: la gran parte dei membri del Consiglio dei commissari del popolo, per esempio, istituito da Lenin dopo la Rivoluzione russa del 1917 - cioè il Governo rivoluzionario del Paese - era costituito da ebrei [Cfr. Civ. Catt., IV (1922), 112-121]. Cosí la figura dell'ebreo, nell'immaginario collettivo cattolico, e non soltanto in esso, fu assimilata, da una parte, al capitalista che sfruttava la popolazione cristiana, dall'altra al rivoluzionario, che lottava per minare le basi della vita associata. All'ebreo inoltre, in un'epoca di nazionalismo esasperato, si rimproverava di non nutrire «amor patrio», sentendosi egli, si diceva, non cittadino dello Stato che lo accoglieva, ma semplicemente membro virtuale della «nazione ebraica», che non aveva a quel tempo nessuna terra da difendere. Molti esponenti della cultura cattolica accettavano per motivi sia religiosi, cioè di difesa dell'identità cristiana, sia patriottici e di tutela dell'ordine costituito queste idee, e La Civiltà Cattolica ebbe un ruolo non secondario nella loro divulgazione».
Sull'antisemitismo razziale p. Sale afferma:
«...si sviluppò nei primi decenni del Novecento, anche se le sue radici ideologiche sono ottocentesche e in ogni caso, come è risaputo, non cristiane: esso trovò nelle dottrine razziste professate dal nazismo prima e dal fascismo poi (sebbene in forma piú attenuata) il suo culmine, nonché una ferma volontà di traduzione pratica da parte dei due regimi dittatoriali. Contrariamente a quanto viene affermato da alcuni studiosi contemporanei, il Magistero della Chiesa (e con esso La Civiltà Cattolica) non professarono mai l'antisemitismo razziale (...). Tra antisemitismo e antigiudaismo esiste in ogni caso una differenza sostanziale che non va sottovalutata. L'antigiudaismo rispondeva a un'esigenza di tutela dell'antica societas christiana - che di fatto da tempo non esisteva piú in Europa, ma che nella mente di molti uomini di Chiesa continuava ad essere ancora valida -, per cui erano considerate legittime legislazioni civili, approvate da Stati a maggioranza cattolica, che, facendo salvi i doveri di moderazione e di carità cristiana verso tutti, trattassero in modo differente cristiani ed ebrei. Questo è il senso di alcuni articoli scritti dalla Civiltà Cattolica negli anni Trenta in difesa di una legislazione statale che limitava in qualche modo i diritti civili degli ebrei, commisurandone il godimento ad alcune condizioni: ad esempio, fissando il numero chiuso per l'accesso ad alcune professioni liberali, ritenute vitali per la società».
Alle tesi del Kertzer circa l'antisemitismo di Papa Ratti (KERTZER D. I., I Papi contro gli ebrei. Il ruolo del Vaticano nell'ascesa dell'antisemitismo moderno, Milano, Rizzoli, 2002) il p. Sale replica richiamando l'importanza dell'enciclica Mit brennender Sorge (Lettera enciclica di S. S. Pio XI sulle condizioni della Chiesa cattolica nel Reich germanico, 14 marzo 1937, in AAS 29 (1937), 145-147) diretta ai vescovi tedeschi - redatta nella parte dottrinale dal card. Faulhaber, arcivescovo di Monaco, e in quella concernente le denunce sulle violazioni del Concordato dal card. Pacelli, a quel tempo Segretario di Stato - dove Pio XI condannò il nazionalismo esasperato e il culto della razza, nonché le aberrazioni del nazismo e le dottrine anticristiane da esso sostenute. Il Papa, inoltre, durante un'udienza concessa agli operatori belgi delle radio cattoliche, nel settembre 1938, con le lacrime agli occhi per l'emozione, pronunciò, in modo informale, alla fine del suo discorso la celebre frase: «L'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo tutti spiritualmente semiti».
«In conclusione, [afferma p. Sale] va detto chiaramente che la Chiesa non intende nascondersi dietro definizioni di comodo o strumentali, quale sarebbe, secondo alcuni studiosi, la distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo, per non riconoscere le proprie responsabilità nei confronti degli ebrei. Al contrario, essa non ha difficoltà ad affermare che l'antigiudaismo professato da molti cattolici durante i secoli ha fortemente contribuito alla discriminazione delle comunità ebraiche della diaspora - condannandole a una forma spesso disumana di segregazione e di aperta discriminazione sociale - e quindi a chiedere perdono per gli errori commessi dai suoi figli contro i loro «fratelli maggiori», come del resto Giovanni Paolo II ha già fatto a Gerusalemme davanti al Muro del Pianto. Ma gli storici non possono addossare alla Chiesa responsabilità di fatti (come l'antisemitismo razziale) che non ha commesso e che anzi ha combattuto e condannato».
Conclusione
Dopo questa sintesi storica e dottrinale molte domande restano comunque aperte. La Chiesa, in questa come in altre controversie, ha subito continuamente attacchi di ogni genere, talvolta a ragione, più spesso sulla base di argomentazioni del tutto gratuite e di parte. Cosa dire, per esempio, degli odierni e numerosi pamphlet anticristiani e della polemica iniqua su Pio XII e il nazismo? Si tratta spesso di posizioni ideologiche che rendono ardui sia un dialogo, sia una riflessione pacata. L'ebraismo deve interrogarsi a fondo sulla sua lunga storia e porsi il problema della riconciliazione e della pace sociale. È essenziale che sappia rendere ragione di quelle che sono state realmente le sue dinamiche di integrazione e di inserimento sociale. Quali poi le linee di azione assunte nelle politiche nazionali e internazionali? Quali i rapporti con le altre religioni? Mantenendo intangibile il discorso sui diritti umani, che il popolo ebraico condivide egualmente con tutti gli altri popoli, resta aperta la problematica dell'inserimento sociale e culturale che l'ebraismo condivide in parte con l'Islam. Se l'Islam lungi dall'essere un fenomeno puramente religioso è "religione e Stato" (al-Islâm dîn wa-dawla) anche l'ebraismo in certo qual modo lo è. In ultima analisi è proprio da questa inestricabile commistione fra religione, politica ed etnia che sorgono le ben note problematiche storiche.
L'ebreo moderno ha indubbiamente assimilato in modo cospicuo la cultura occidentale e le sue distinzioni filosofiche e giuridiche e ciò lo ha reso in certo qual modo parte integrante delle nostre società, sarebbe un errore tuttavia dimenticare la sua innegabile peculiarità. L'ebreo - lungi dal fargliene una connotazione negativa - è costituzionalmente "diverso fra i diversi". Tralasciando per un momento le valutazioni teologiche che rendono ragione della sua specificità, l'ebraismo deve porsi dinanzi al mondo manifestando ultimamente ciò che intende essere ed operare. Si potrebbe obiettare che ciò è vero anche per il cristianesimo - ed è senz'altro vero - sennonché il fenomeno cristiano non è legato ad alcuna patria e ad alcuna etnia ed è ciò che lo rende appunto "cattolico", ossia universale, ciò che l'ebraismo non è, né potrà mai essere. Questa è la densità della problematica insita nella quaestio iudaica. Se l'ebraismo non saprà dare una risposta a questa "grande domanda" sarà sempre esposto al rischio dell'incomprensione e la sua storia resterà sempre "sospesa" a questo grande interrogativo dagli esiti incerti. Il ruolo del cristianesimo in questa vicenda è sicuramente quello dell'attesa; non certo di un'attesa fatta di passività, ma di pre-comprensione, di considerazione per quel Mistero di salvezza che è all'opera in tutti i popoli e che solo può rendere pienamente e concretamente ragione della storia del popolo ebraico. Non si tratta di un'utopia, infatti, ma dell'unico principio che offra una strada percorribile, soprattutto se si riflette sul fatto che il problema ebraico non è mai stato risolto né dal diritto, né dalla politica e oggi, anzi, è piú aperto che mai. La Chiesa ha dunque il dovere dell'annuncio e della profezia; la sua missione primaria, oggi piú che mai, è quella di annunciare il Vangelo anzitutto all'ebraismo. Sarebbe davvero ben poca cosa limitarsi a compiangerne la Shoah ponendosi acriticamente nei confronti della sua storia passata e odierna. Nessuno piú della Chiesa può ricordare all'odierno Israele che egli non può bastare a se stesso, né può rendere ragione da sé della propria storia ma può e deve camminare insieme con e per gli altri popoli: «Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2,5). «Ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8).
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Documenti
"LA DICHIARAZIONE DI GERUSALEMME SUL SIONISMO CRISTIANO"
Dichiarazione del Patriarca e delle Autorità religiose in Gerusalemme
"Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9)
Il sionismo cristiano è un moderno movimento teologico e politico che adotta le posizioni ideologiche piú estreme del sionismo, sí da diventare dannoso ad una giusta pace in Palestina e Israele.
Il programma sionista cristiano contiene una visione del mondo in cui il Vangelo è identificato con l'ideologia di imperialismo, colonialismo e militarismo.
Nella sua forma estrema, pone l'accento su eventi apocalittici conducenti alla fine della storia piuttosto che sull'amore e la giustizia di Cristo vivente oggi.
Noi rigettiamo categoricamente le dottrine del sionismo cristiano come insegnamenti falsi che corrompono il messaggio biblico di amore, riconciliazione e giustizia.
Noi rigettiamo inoltre l'alleanza contemporanea tra i capi e le organizzazioni dei sionisti cristiani con elementi del governo di Israele e Stati Uniti che oggi impongono sulla Palestina i loro confini preventivi unilaterali e il loro dominio.
Ciò porta inevitabilmente a cicli di violenza senza fine che minano la sicurezza di tutti i popoli del Medio Oriente e del resto del mondo.
Noi rigettiamo gli insegnamenti del sionismo cristiano che giustificano e sostengono queste politiche, che fanno avanzare l'esclusivismo razziale e la guerra perpetua anziché il vangelo dell'amore universale, della redenzione e della riconciliazione insegnati da Gesú Cristo.
Anziché condannare il mondo alla distruzione di Armageddon noi chiamiamo ciascuno a liberarsi dalle ideologie del militarismo e dell'occupazione.
Piuttosto, che avvenga la guarigione delle nazioni!
Noi facciamo appello ai cristiani e alle Chiese in ogni continente di pregare per i popoli palestinese e israeliano, che entrambi soffrono come vittime di occupazione e militarismo.
Azioni di discriminazione stanno tramutando la Palestina in ghetti impoveriti circondati da insediamenti israeliani esclusivi.
La creazione degli insediamenti illegali e la costruzione del Muro di Separazione su terra palestinese confiscata mina la vivibilità dello Stato palestinese, e anche la pace e la sicurezza dell'intera regione.
Facciamo appello alle Chiese che tacciono di rompere il loro silenzio e parlare ad alta voce di riconciliazione con giustizia nella Terra Santa.
Per questo ci impegniamo ai seguenti principi come base per un'altra via:
- Noi affermiamo che tutti gli uomini sono creati ad immagine di Dio; e a loro volta sono chiamati ad onorare la dignità di ogni essere umano, e a rispettare i suoi diritti inalienabili.
- Noi affermiamo che israeliani e palestinesi possono vivere insieme in pace, giustizia e sicurezza.
- Noi affermiamo che i palestinesi, musulmani e cristiani, sono un solo popolo; rigettiamo ogni tentativo di spezzare la loro unità.
- Chiamiamo tutti a rifiutare la ristretta visione del mondo del sionismo cristiano e le altre ideologie che privilegiano un popolo a spese di altri.
- Ci affidiamo alla resistenza non-violenta come il mezzo piú efficace per porre fine all'occupazione illegale onde ottenere una pace giusta e duratura.
- Ammoniamo con urgenza che il sionismo cristiano e le sue alleanze stanno giustificando la colonizzazione, l'apartheid e l'imperialismo.
- Dio chiede che giustizia sia fatta. Nessuna pace durevole, né sicurezza o riconciliazione sono possibili se non fondate sulla giustizia; la domanda di giustizia non scomparirà. La lotta per la giustizia va perseguita con costanza e diligenza, ma senza violenza.
- «Ciò che il tuo Signore esige da te è agire con giustizia, amare la misericordia, e camminare con umiltà assieme al tuo Dio» (Michea 6,8).
- Questa è la nostra posizione. Noi siamo per la giustizia. non possiamo fare altrimenti, solo la giustizia garantisce una pace che porterà alla riconciliazione in una vita di sicurezza e prosperità per tutti i popoli della nostra Terra.
Ponendoci dalla parte della giustizia, noi ci apriamo all'opera di pace - e operare per la pace fa di noi figli di Dio. - «Dio ha riconciliato a sé il mondo in Cristo, e non ha contato i peccati degli uomini contro di Lui. Egli ha affidato a noi il messaggio di riconciliazione» (2Cor 5,19).
Sua Beatitudine Patriarca Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme.
Arcivescovo Saverios Malki Mourad, patriarcato siriano ortodosso di Gerusalemme.
Vescovo Riah Abu El-Assal, Chiesa episcopale [anglicana] di Gerusalemme e Medio Oriente.
Vescovo Munib Younan, Chiesa luterana evangelica in Giordania e Terra Santa.
22 agosto 2006
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"THE JERUSALEM DECLARATION ON CHRISTIAN ZIONISM"
Statement by the Patriarch and Local Heads of Churches In Jerusalem
"Blessed are the peacemakers for they shall be called the children of God" (Matthew 5:9)
Christian Zionism is a modern theological and political movement that embraces the most extreme ideological positions of Zionism, thereby becoming detrimental to a just peace within Palestine and Israel. The Christian Zionist programme provides a worldview where the Gospel is identified with the ideology of empire, colonialism and militarism. In its extreme form, it laces an emphasis on apocalyptic events leading to the end of history rather than living Christ's love and justice today.
We categorically reject Christian Zionist doctrines as false teaching that corrupts the biblical message of love, justice and reconciliation.
We further reject the contemporary alliance of Christian Zionist leaders and organizations with elements in the governments of Israel and the United States that are presently imposing their unilateral pre-emptive borders and domination over Palestine. This inevitably leads to unending cycles of violence that undermine the security of all peoples of the Middle East and the rest of the world.
We reject the teachings of Christian Zionism that facilitate and support these policies as they advance racial exclusivity and perpetual war rather than the gospel of universal love, redemption and reconciliation taught by Jesus Christ. Rather than condemn the world to the doom of Armageddon we call upon everyone to liberate themselves from the ideologies of militarism and occupation. Instead, let them pursue the healing of the nations!
We call upon Christians in Churches on every continent to pray for the Palestinian and Israeli people, both of whom are suffering as victims of occupation and militarism. These discriminative actions are turning Palestine into impoverished ghettos surrounded by exclusive Israeli settlements. The establishment of the illegal settlements and the construction of the Separation Wall on confiscated Palestinian land undermines the viability of a Palestinian state as well as peace and security in the entire region.
We call upon all Churches that remain silent, to break their silence and speak for reconciliation with justice in the Holy Land.
Therefore, we commit ourselves to the following principles as an alternative way:
- We affirm that all people are created in the image of God. In turn they are called to honor the dignity of every human being and to respect their inalienable rights.
- We affirm that Israelis and Palestinians are capable of living together within peace, justice and security.
- We affirm that Palestinians are one people, both Muslim and Christian. We reject all attempts to subvert and fragment their unity.
- We call upon all people to reject the narrow world view of Christian Zionism and other ideologies that privilege one people at the expense of others.
- We are committed to non-violent resistance as the most effective means to end the illegal occupation in order to attain a just and lasting peace.
- With urgency we warn that Christian Zionism and its alliances are justifying colonization, apartheid and empire-building.
- God demands that justice be done. No enduring peace, security or reconciliation is possible without the foundation of justice. The demands of justice will not disappear. The struggle for justice must be pursued diligently and persistently but non-violently.
- "What does the Lord require of you, to act justly, to love mercy, and to walk humbly with your God" (Micah 6:8).
- This is where we take our stand. We stand for justice. We can do no other. Justice alone guarantees a peace that will lead to reconciliation with a life of security and prosperity for all the peoples of our Land.
By standing on the side of justice, we open ourselves to the work of peace - and working for peace makes us children of God. - "God was reconciling the world to himself in Christ, not counting men's sins against them. And he has committed to us the message of reconciliation" (2Cor 5:19).
His Beatitude Patriarch Michel Sabbah, Latin Patriarchate, Jerusalem
Archbishop Swerios Malki Mourad, Syrian Orthodox Patriarchate, Jerusalem
Bishop Riah Abu El-Assal, Episcopal Church of Jerusalem and the Middle East
Bishop Munib Younan, Evangelical Lutheran Church in Jordan and the Holy Land
August 22, 2006
HaTikvah - Interpretazione inglese (O Come Emmanuel)
Melodia (1888) di Samuel Cohen (1870-1940)
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