SULLA QUESTIONE DELL’INFALLIBILITÀ PONTIFICIA
[Articolo inserito per gentile concessione dell’Autore]
Il Papa si può sbagliare nell’insegnarci una verità di fede? Alcuni restringono l’infallibilità pontificia a circostanze cosí eccezionali e solenni, che in assenza di esse, ritengono che il Papa si può sbagliare nell’insegnarci la dottrina della fede. Ed anzi sostengono che in certi casi si è sbagliato o ha insegnato il falso, o qualcosa di contrario alla fede.
Si tratta soprattutto di certi tradizionalisti, i quali accusano Papa Francesco di essersi messo in contrasto con la Tradizione. Ora però, se per “Tradizione” essi intendono la Sacra Tradizione, che è fonte della divina Rivelazione, ossia della verità di fede, la domanda se il Papa può andare o è andato nei suoi insegnamenti contro la Tradizione è molto seria. Infatti ciò equivale a chiedersi se il Papa sia caduto nell’eresia.
Il Papa indubbiamente può affrontare questioni teologiche o questioni concernenti la fede, a proposito delle quali il Magistero della Chiesa non si è pronunciato. Nessuno gli proibisce di esprimere su di esse, come teologo o dottore privato, un parere, che può essere in contrasto con quello di altri teologi o Santi o Dottori della Chiesa, o anche col parere di altri Papi, i quali pure si siano espressi come dottori privati.
In questo caso egli non esercita il Magistero pontificio, per cui non è impossibile che si sbagli o che pronunci un parere quanto meno discutibile o incerto. Su questo piano il Papa può esser lecitamente contraddetto o confutato o criticato da altri teologi e il buon cattolico è libero di scegliere il parere che preferisce, senz’alcun timore di mancare di rispetto per il Magistero pontificio che, in tal caso, non è in gioco.
Cosí per esempio Benedetto XVI ha scritto tre libri su Gesú Cristo. Ci domandiamo quale argomento di fede maggiore di questo avrebbe potuto affrontare. Eppure egli stesso nell’introduzione dice con chiarezza che egli non impegna il suo ufficio petrino, ma parla semplicemente come teologo o come fedele, per cui giunge addirittura ad invitare il lettore ad entrare in discussione con lui, ove non fosse d’accordo. In questo modo di trattare una materia di fede il Papa chiaramente può sbagliare, ma non come Papa, bensí come dottore o studioso privato o semplice fedele.
Quindi perché il Papa come dottore privato possa sbagliarsi in materia opinabile non necessariamente connessa con la fede, basta che si tratti di un punto circa il quale la verità non appare ancora con chiarezza alla Chiesa stessa, a ben maggior ragione ai teologi. Il Papa invece non sbaglia, se si tratta di verità di fede o necessariamente connessa con la fede, verità già nota, “definita” o non “definita”, ossia, come vedremo, non necessariamente solennemente definita o dichiarata come tale. Basta che sia semplicemente riconoscibile come verità di fede o connessa con la fede già nota.
Nel patrimonio ricchissimo della sapienza cattolica esistono cosí verità di fede assolutamente vere ed indiscutibili, insegnando le quali il Papa non può sbagliare; e opinioni teologiche, circa le quali il Papa può sbagliare. È molto importante distinguere i due ordini di pronunciamenti dottrinali, per non ritenere fallibile il Papa quando non lo è, e ritenerlo infallibile quando invece può sbagliarsi.
L’infallibilità pontificia non è ristretta, come alcuni pensano, a quelle condizioni speciali e solenni che sono citate nella famosa definizione della Costituzione dogmatica “Pastor aeternus” del Concilio Vaticano I. Il dogma conciliare infatti elenca le suddette condizioni, ma non dice che il Papa è infallibile solo a quelle condizioni. Per questo il Concilio non esclude che egli possa essere infallibile anche in altre circostanze piú ordinarie.
La cosa fondamentale infatti da tener presente per il dovuto rispetto del carisma di Pietro è che il Papa, quando si esprime sulle verità di fede o connesse alla fede, in ogni caso non mente né ci inganna, ma dice il vero e ci istruisce. Si chiami o non si chiami questa sua prerogativa col termine “infallibilità”, ha poca o nessuna importanza.
La questione essenziale è se il Papa ci dice o non ci dice la verità, ci comunica o non ci comunica la verità di Cristo. La questione non è tanto quella dell’infallibilità, ma quella della verità. Il limitarsi a fare una questione di infallibilità o fallibilità mettendola in primo piano rispetto a quella della verità, comporta il rischio non aleatorio di ritenere che quando il Papa non tratta di temi di fede ex cathedra possa sbagliarsi.
Storicamente, come è noto, la questione dell’infallibilità è legata alla famosa definizione dogmatica del Concilio Vaticano I. Ma di fatto è successo che tale questione che tocca il modo e non il contenuto dell’insegnamento pontificio, ha finito per assorbire eccessivamente l’attenzione a danno di quella che dobbiamo prestare al contenuto dell’enunciato o dell’insegnamento o della proposizione di fede.
Che un Papa enunci una verità di fede dal balcone di S. Pietro o alla televisione, nell’aula di un Concilio o davanti ai giornalisti, in S. Maria Maggiore o in aereo, in un’udienza privata o in un’udienza generale, a un congresso teologico o ad un gruppo di amici, in un discorso a tavola o in un’enciclica, dichiarando o non dichiarando che vuol definire, tutto ciò è di interesse relativo, anche se non privo di importanza: bisogna invece badare soprattutto a cosa dice, cosa insegna, di che cosa parla: se si tratta di dottrina della fede, non si deve temere di dire che egli è infallibile, perché non significa altro che è verace. Diversamente, sarebbe fallibile e dunque potrebbe ingannarci, cosa che non possiamo ammette senza mancare di rispetto al carisma di Pietro.
Papa Pio IX proclama il dogma dell'Immacolata Concezione (8 dicembre 1854)
Questo non toglie importanza alle circostanze, alle forme, alle modalità e ai gradi dell’insegnamento. E chiaro che la forma solenne e la formula definitoria danno maggior certezza, implicando la stessa fede teologale, ma la certezza nei gradi inferiori c’è già nel momento in cui il Papa ci insegna il Vangelo o il Catechismo o la dottrina della Chiesa e della Tradizione.
Certo la forma solenne e definitoria è necessaria per un nuovo dogma, giacché si suppone che sino a quel momento la dottrina fosse discussa. In tal caso indubbiamente per dar certezza definitiva, il Papa abitualmente fa chiare precisazioni richiamandosi all’autorità di Pietro come maestro universale della Chiesa o al fatto che si tratta di verità contenute nella divina Rivelazione.
L’assoluta affidabilità degli insegnamenti pontifici in materia di fede in qualunque circostanza, anche senza le condizioni della definizione solenne, supponendo che egli si esprima liberamente (1), è stata chiarita di recente in un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede (2), dove si elencano tre gradi di autorevolezza degli insegnamenti dottrinali pontifici, tutti ugualmente veraci e quindi in tal senso definitivi, irreformabili ed infallibili.
Tra di essi solo il primo grado possiede le condizioni stabilite dal Concilio Vaticano I, mentre gli altri gradi, pur mancando di quelle condizioni, non per questo espongono una dottrina che può essere sbagliata. Per questo, come insegna lo stesso documento, si tratta sempre di insegnamenti definitivi ed irreformabili.
Questo documento si può quindi considerare un’integrazione all’insegnamento del Vaticano I ed è necessario per comprendere in pienezza l’autorità dell’insegnamento dottrinale-dogmatico pontificio (de fide et moribus) (3), senza concentrare troppo l’attenzione sul primo grado (questione dell’”infallibilità”) a scapito degli altri due.
Vale la pena di riprodurre qui e commentare, anche a costo di dilungarmi, i punti salienti riguardanti questi due gradi inferiori, in modo tale che il lettore si renda conto personalmente del loro valore, e cosí sia in grado di considerare col dovuto rispetto, nei differenti gradi di autorità, gli insegnamenti del Papa, pur nella santa libertà di poterli criticare, nel caso che egli come dottore privato o semplice fedele esprima delle opinioni discutibili o addirittura errate.
Mentre il primo livello di autorevolezza non fa che ripetere la dottrina del Vaticano I, è interessante vedere il valore dei due gradi inferiori.
Il secondo grado è espresso in questi termini:
«5. Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo» (4).
E il documento spiega:
“L’oggetto che viene insegnato con questa formula comprende tutte quelle dottrine attinenti al campo dogmatico o morale, che sono necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede, sebbene non siano state proposte dal magistero della Chiesa come formalmente rivelate. …
Ogni credente, pertanto, è tenuto a prestare a queste verità il suo assenso fermo e definitivo, fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa, e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del magistero in queste materie. Chi le negasse, assumerebbe una posizione di rifiuto di verità della dottrina cattolica e pertanto non sarebbe piú in piena comunione con la Chiesa cattolica...
7. Le verità relative a questo secondo comma possono essere di natura diversa e rivestono quindi un carattere differente per il loro rapportarsi alla rivelazione. Esistono, infatti, verità che sono necessariamente connesse con la rivelazione in forza di un rapporto storico; mentre altre verità evidenziano una connessione logica, la quale esprime una tappa nella maturazione della conoscenza, che la Chiesa è chiamata a compiere, della stessa rivelazione. 18 Il fatto che queste dottrine non siano proposte come formalmente rivelate, in quanto aggiungono al dato di fede elementi non rivelati o non ancora riconosciuti espressamente come tali, nulla toglie al loro carattere definitivo, che è richiesto almeno dal legame intrinseco con la verità rivelata. Inoltre non si può escludere che ad un certo punto dello sviluppo dogmatico, l’intelligenza tanto delle realtà quanto delle parole del deposito della fede possa progredire nella vita della Chiesa e il magistero giunga a proclamare alcune di queste dottrine anche come dogmi di fede divina e cattolica.
8. Per quanto riguarda la natura dell’assenso dovuto alle verità proposte dalla Chiesa come divinamente rivelate (1° comma) o da ritenersi in modo definitivo (2° comma), è importante sottolineare che non vi è differenza circa il carattere pieno e irrevocabile dell’assenso, dovuto ai rispettivi insegnamenti. La differenza si riferisce alla virtú soprannaturale della fede: nel caso delle verità del 1° comma l’assenso è fondato direttamente sulla fede nell’autorità della Parola di Dio (dottrine de fide credenda);nel caso delle verità del 2° comma, esso è fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del magistero (dottrine de fide tenenda).
9. Il magistero della Chiesa, comunque, insegna una dottrina da credere come divinamente rivelata (1° comma) o da ritenere in maniera definitiva (2° comma), con un atto definitorio oppure non definitorio. Nel caso di un atto definitorio, viene definita solennemente una verità con un pronunciamento «ex cathedra» da parte del Romano Pontefice o con l’intervento di un concilio ecumenico.
Nel caso di un atto non definitorio, viene insegnata infallibilmente una dottrina dal magistero ordinario e universale dei Vescovi sparsi per il mondo in comunione con il Successore di Pietro. Tale dottrina può essere confermata o riaffermata dal Romano Pontefice, anche senza ricorrere ad una definizione solenne, dichiarando esplicitamente che essa appartiene all’insegnamento del magistero ordinario e universale come verità divinamente rivelata (1° comma) o come verità della dottrina cattolica (2° comma). Di conseguenza, quando su una dottrina non esiste un giudizio nella forma solenne di una definizione, ma questa dottrina, appartenente al patrimonio del depositum fidei, è insegnata dal magistero ordinario e universale - che include necessariamente quello del Papa - , essa allora è da intendersi come proposta infallibilmente. La dichiarazione di conferma o riaffermazione da parte del Romano Pontefice in questo caso non è un nuovo atto di dogmatizzazione, ma l’attestazione formale di una verità già posseduta e infallibilmente trasmessa dalla Chiesa.
10. La terza proposizione della Professio fidei afferma: «Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo».
A questo comma appartengono tutti quegli insegnamenti - in materia di fede o morale - presentati come veri o almeno come sicuri, anche se non sono stati definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero ordinario e universale. Tali insegnamenti sono comunque espressione autentica del magistero ordinario del Romano Pontefice o del Collegio dei Vescovi e richiedono, pertanto, l’ossequio religioso della volontà e dell’intelletto. Sono proposti per raggiungere un’intelligenza piú profonda della rivelazione, ovvero per richiamare la conformità di un insegnamento con le verità di fede, oppure infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità o contro opinioni pericolose che possono portare all’errore.
La proposizione contraria a tali dottrine può essere qualificata rispettivamente come erronea oppure, nel caso degli insegnamenti di ordine prudenziale, come temeraria o pericolosa e quindi “tuto doceri non potest”».
Come esempi di dottrine appartenenti al terzo comma si possono indicare in generale gli insegnamenti proposti dal magistero autentico ordinario in modo non definitivo, che richiedono un grado di adesione differenziato, secondo la mente e la volontà manifestata, la quale si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore della espressione verbale”.
Benché il documento consideri come soggetto docente la “Chiesa”, è chiaro che queste note valgono anche e soprattutto per il Magistero pontificio, di colui che in nome di Cristo guida la Chiesa nella conoscenza e nella proclamazione del Vangelo. Nel contempo è possibile notare che tutti e tre i gradi toccano la materia di fede.
E dunque qui non c’è questione di infallibile e fallibile, di vero e falso, ma il Papa ad ognuno di questi gradi, insegna la verità con l’assistenza di Colui che ha detto a Pietro: “Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno, e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).
Fontanellato, 5 novembre 2013
P. Giovanni Cavalcoli, OP
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(1) Un Papa che non fosse padrone di se stesso per vari motivi, potrebbe dire cose che non direbbe se si trovasse in condizioni psichiche di normale libertà e serenità. È qui che sorgono le questioni relative all’ortodossia dei Papi Onorio e Liberio, che peraltro sono state definitivamente chiarite dagli storici.
(2) Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Ad tuendam fidem del 29 giugno 1998 contenente la formula da usarsi per la professione di fede e il giuramento di fedeltà nell’assumere un officio da esercitarsi a nome della Chiesa con Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della “Professio fidei” (Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis in suscipiendo officio nomine Ecclesiae exercendo una cum nota doctrinali adnexa), AAS 90 (1998) 542-551.
(3) Gli insegnamenti morali di fede sono un prolungamento della dogmatica (Magistero morale della Chiesa), e sono infallibili; mentre le disposizioni morali particolari e contingenti entrano nell’ambito della pastorale, i cui insegnamenti, insieme a quelli disciplinari e giuridici, non sono garantiti dall’infallibilità.
(4) Vedi nota 2.
I testi originali sono reperibili anche nel sito Web dedicato allo studio del pensiero filosofico e teologico del Servo di Dio Padre Tomas Maria Tyn, O.P.
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