LO STILE DEL COMANDO

 

La dimensione spirituale e l'attenzione all'uomo

(2006)

 

 

 

 

Considerare l'uomo

Queste poche righe non vogliono offrire una riflessione sull'arte del comando quanto piuttosto sull'attenzione all'uomo e alla sua dimensione spirituale, mai abbastanza meditata. È importante che colui che comanda abbia e sviluppi sempre piú tale sensibilità. Spesso, anche nel mondo militare, si cede all'illusione efficientista di un materialismo che guarda alla "produttività", relegando ai margini tutto ciò che non è immediatamente tangibile. La tentazione purtroppo sarà sempre più frequente ed è contro tale ristrettezza di vedute che bisogna avere il coraggio di lottare. Ma cosa si intende per "attenzione all'uomo" e alla sua "dimensione spirituale"?

Sono due gli elementi che occorre evidenziare e che potremmo indicare nella loro totalità anche come fattore umano:

1) Attenzione all'uomo visto sempre come fine e mai come mezzo, nella sua dignità intrinseca e nella sua conseguente struttura relazionale.

2) Attenzione alla dimensione spirituale.

La dimensione spirituale, postulata dal primo elemento, viene tuttavia specificata per sottolinearne l'importanza. Essa significa considerazione per quanto di piú profondo e di piú vero c'è nell'uomo, per il suo elemento piú decisivo, la sua capacità di oltrepassare ogni limite. Essa postula l'attenzione alla sua esigenza di relazionarsi con l'assoluto e che si concretizza nella religiosità e nelle varie forme di spiritualità. L'uomo è l'unico essere capace di trascendere se stesso e i limiti impostigli dalla materia in un anelito verso l'assoluto che è insopprimibile e che esige di essere riconosciuto.

 

 

Qualità etico-morali del comandante

È vitale comprendere che nell'arte del comando, in pace come in guerra, è necessario tenere conto del fattore umano. Sbaglierebbe gravemente, perfino in campo squisitamente tattico-strategico, il comandante che perdesse di vista la sua importanza. Tutto ciò, lungi dal fare di lui uno psicologo o un "cappellano", ciò che stravolgerebbe la sua opera e quella del personale a ciò specificamente deputato, richiede un equilibrio attento fra ruoli che sono diversi ma in certo qual modo complementari. Un vero comandante deve essere un custode attento della sua identità e del suo ruolo, della gerarchia e della linea di comando; un cultore irreprensibile dell'ordine e della disciplina. Solo con questa limpidezza a tutta prova egli potrà guadagnare veramente il cuore dei suoi uomini. Tuttavia ciò sarebbe ancora insufficiente qualora egli non tenesse conto di ogni uomo, incluso l'avversario, nel caso venga a trovarsi in un contesto operativo. Non basta un grado per poter affidare a qualcuno il comando degli uomini: occorre un carisma particolare che non a tutti è dato e che nessuna scuola o accademia può trasmettere. Il carisma è un dono personale dato per l'edificazione del bene comune: esso può solo essere riconosciuto e coltivato, mai lo si potrà dare a chi non ne è già in qualche misura dotato. Ecco perché pochi possono diventare veri comandanti di uomini.

 

 

Esercizio di saggezza

La storia di tutti i tempi insegna che il disprezzo e la conseguente sottovalutazione del nemico hanno sempre condotto ad esiti infausti ogni campagna bellica. Nel bene e nel male, in pace e in guerra, il protagonista primario è sempre l'uomo, con le sue qualità e i suoi limiti. Senza l'elemento umano a poco serviranno potenza di mezzi e tecnologia, soprattutto in un conflitto asimmetrico dove è possibile relativizzare volume e potenza di fuoco, contrastando validamente anche il dispositivo militare piú poderoso e sofisticato. Perdere di vista l'elemento umano equivale, presto o tardi, ad esporsi stupidamente alla sconfitta. Una parola che trae origine dal latino stupidus, verbo stupere (ossia stupirsi, sbalordirsi, meravigliarsi) e sta ad indicare l'atteggiamento di colui che resta come inibito, bloccato - stupefatto appunto - dinanzi all'imprevisto.

L'imprevisto dell'elemento umano nella sua dimensione piú profonda. Può un comandante di uomini perderlo di vista? Si può essere colti alla sprovvista da una nuova arma, da una nuova tattica o strategia ma non certo dall'elemento umano e da ciò che piú lo qualifica. Essere colti alla sprovvista da ciò che dovrebbe essere tenuto sempre presente è segno di stoltezza. Essa connota il comandante che si ritiene capace di gestire ogni imprevisto con tanta piú sicumera quanto piú grandi sono la sua approssimazione culturale e morale. E così che egli, tanto ossequioso dei suoi superiori quanto intransigente con i suoi inferiori, tenderà a sollecitare il favore dei suoi soldati mirando al ribasso etico. E se pure esigerà ordine e disciplina sarà poi tentato di temperarne il rigore concedendo qua e là spazi di prevaricazione e di licenziosità: è cosí che negli eserciti antichi e moderni gli stupri di massa e i saccheggi entrarono a far parte delle tattiche di occupazione. Se tale mentalità è deprecabile in guerra ed è meritevole dei piú severi rigori del diritto bellico cosa dire quando essa alligna larvatamente anche in tempi e contesti di pace? È cosí, che questo tipo di comandante trasforma i suoi uomini in malviventi, quando non in potenziali criminali di guerra.

È illusorio credere che ordine e disciplina possano essere realmente interiorizzati senza il rigore etico e morale. La Scrittura ci rammenta che: «Il paziente val piú di un eroe, chi domina se stesso val piú di chi conquista una città» (Pr 16,32). Prima di comandare agli altri bisogna imparare a comandare a se stessi: senza questo impegno costante ogni altra cosa è vana, ogni scuola e ogni accademia non sarà altro che sfoggio di velleità. Perciò è doveroso chiedersi se gli istituti di formazione siano all'altezza della reale statura che si richiede ad un ufficiale in comando; è doveroso chiedersi se i giovani allievi si siano affrancati dai patetici miti del superuomo; è doveroso chiedersi se essi siano uomini capaci di collaborare, di maturare anche in una sincera emulazione, oppure se siano carrieristi raccomandati, pronti ad opporsi l'un l'altro, pur di avanzare in grado e prestigio. Gli attuali sistemi formativi e di avanzamento, incluso il sistema delle note caratteristiche, quale tipo di uomo e di comandante selezionano? Quanto viene curata la dimensione interiore del futuro ufficiale? Quanto viene favorita e perseguita la sua autentica maturazione umana, insieme a quella culturale, spirituale e affettiva? Il giovane accademista spensierato, l'ufficiale solito ai postriboli, non avrà mai la statura e l'ossatura interiore di un vero comandante di uomini; non avrà mai quella maturità, esperta nel soffrire, di chi ha fatto scelte e rinunce coraggiose, scolpendo giorno per giorno nella sua carne, come il metallo sulla pietra, i suoi tratti piú veri di uomo e di ufficiale. Per un uomo superficiale il comando sarà facilmente questione di orgoglio e vanità; per un vero uomo il comando è un dovere a cui accostarsi con diligenza e gravità. Sono queste le reali proporzioni, l'incolmabile differenza, fra un vero capo ed un insignificante quadro dell'apparato militare, la medesima differenza che passa fra la levitas e la gravitas.

Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta (1961) distinse gli uomini in cinque categorie diverse: gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i pigghianculo e... i quaquaraqua; la domanda è: quali uomini (e quali ufficiali) stiamo formando? Ai posteri l'ardua sentenza.

 

 

 Soldato posa accanto a proiettile austriaco da 420 mm.

La disumanità della Grande guerra risalta anche nelle proporzioni delle sue armi.
Un soldato italiano posa per una foto accanto ad un proiettile di artiglieria da 420 mm.

 

 

 

 

Alcuni cenni storici

Purtroppo piú grande è il potere dello strumento bellico a disposizione piú si è esposti al pericolo della presunzione. È facile credere che in guerra tutto possa essere lecito e possa essere risolto senza alcuno scrupolo con la forza bruta. Per questo Stalin si chiedeva quante divisioni avesse il Papa. La storia aborrí Stalin ed il suo culto della personalità e - ad onta delle squallide sentenze dell'opportunista Machiavelli - vide il Papa affermarsi piú che mai, benché profeta disarmato. Anche per questo le armate naziste, che nella Campagna di Russia impiegarono la sola forza bruta, persero. Altrettanto fecero le armate americane in Vietnam, eppure persero. Allo stesso modo fecero le armate sovietiche in Afghanistan, eppure persero. Troppo spesso, nonostante le lezioni della storia, ci si ostina a ripetere i medesimi errori.

Nella Seconda guerra mondiale molti politici e generali alleati capirono che è piú saggio trattare con onore il nemico piuttosto che schiacciarne la dignità. Nei primi del Novecento un'insaziabile sete di vendetta e di profitto aveva fatto cadere la Germania, sconfitta nella Grande guerra, nella miseria piú estrema: quell'umiliazione fu il miglior terreno di coltura del nazismo e della devastazione globale che ne sarebbe seguita. Qualsiasi politico e stratega accorto sa bene che la guerra è cosa di un momento e che la forza va impiegata solo in extremis, poiché alla fine la parola torna sempre alle esigenze vitali ed insopprimibili degli scambi culturali e del commercio. Era questa - già nel lontano Settecento - la raccomandazione del generale Cornwallis, vice-comandante delle forze britanniche, ai suoi uomini impegnati a reprimere la rivolta nelle colonie americane (1776-1783).

Purtroppo orgoglio e stupidità vanno spesso a braccetto e sono i nemici piú pericolosi di qualsiasi stratega. Il risultato in tutti i casi è lo stesso: la sottovalutazione dell'avversario. Se poi alla sottostima del nemico si aggiunge la disistima nei confronti dei propri uomini il risultato non può essere che disastroso. Accadde questo all'Italia sabauda, nella Prima guerra mondiale, quando subí il disastro di Caporetto (ottobre-novembre 1917), frutto in parte della disumana leadership del generale Cadorna (1850-1928). Non a caso il successore, il generale Diaz (1861-1928), inaugurò la sua linea di condotta stabilendo un rapporto piú umano con il soldato, cosí duramente sfruttato e vilipeso in una guerra atroce che, in verità, si sarebbe potuta evitare o quanto meno contenere. Il comandante che per affermarsi e imporre l'autorità ha bisogno di creare un clima intimidatorio, in realtà manifesta non la sua forza ma solo le proporzioni della sua debolezza ed incompetenza professionale. È pericoloso coltivare il divide et impera nel contesto militare, soprattutto sul campo di battaglia.

Nulla è piú crudele delle guerre costruite a tavolino dai giochi sordidi della politica e del profitto. Cosí il soldato, volente o no, combatte spesso una guerra sanguinosa che i suoi veri mandanti non vedranno mai da vicino, nemmeno dietro gli schermi protettivi degli apparati informativi e operativi di cui si avvalgono nella speranza di dominare il corso degli eventi. È proprio a tale livello che è piú facile dimenticare l'elemento umano precipitando sempre piú in una spirale d'orrore che la storia, pure recente, ha cosí bene evidenziato. Nei calcoli strategici si può inserire una serie immensa di variabili ma non si può mai ponderare fino in fondo il potenziale umano, la sua capacità combattiva, la sua disperazione, la sua volontà fredda e determinata di travolgere qualsiasi ostacolo. È questo spesso a fare la differenza.

 

 

 La carica di Balaklava

«La carica di Balaklava»
Circolo Ufficiali dei «Lancieri di Montebello» (8º) - Roma

 

 

 

 

«Armare i cuori»

Essere comandanti significa prima di tutto essere davvero uomini: nobili con i superiori, nobili con i subalterni. Certo, con il comandante si collabora, e al comandante si obbedisce, per il fatto che "è" il comandante, nondimeno un rapporto umano sincero e un atteggiamento collaborativo gioveranno sempre al morale degli uomini e alla condotta delle operazioni. A poco varranno tuttavia gli sforzi generosi dei combattenti se egli non sarà all'altezza dei compiti affidatigli. E per essere all'altezza, insieme all'equilibrio occorre anche il coraggio, dal provenzale coratge (e che si stima provenga dal latino popolare coraticum): è cosí, occorre metterci il cuore... un cuore grande o se si preferisce... una grande anima.

La storia insegna che chi lotta per la propria dignità si batte con un coraggio ed una determinazione immensamente superiori a quelle di chi lotta per la "ragion di Stato" o per la "ragion d'impero". La storia degli imperi è fatta di grandi vittorie e di graduali, inevitabili e irreversibili sfaceli. Gli imperi di solito cadono pezzo a pezzo, perdendo una battaglia dopo l'altra, anche perché in uno scontro frontale è spesso impossibile sfidarli. Cosí è stato dell'impero britannico e di molti altri. In tutti i casi l'elemento umano è sempre stato determinante. L'impero britannico in India non fu costretto alla resa da un potente esercito o da una grande armata rivoluzionaria ma da un uomo inerme, materialmente povero e all'apparenza insignificante, che rispondeva al nome di Mohandas Karamchand Gandhi, detto non a caso "Mahatma", ossia "la Grande anima". Furono proprio la sua spiritualità, il suo carisma, a fare dell'intera India un immenso "esercito non-violento" che costrinse l'orgogliosissimo impero britannico ad un ammaina-bandiera che segnò una svolta epocale.

La realtà è che per poter vincere bisogna armare i cuori, molto prima dei ranghi di qualsiasi esercito. Armare i cuori è un'espressione forte, di quelle che farebbero indignare intere schiere di pacifisti conformisti, se non fosse che... "armare" - nella dinamica spirituale - non corrisponde a "bellicizzare", ossia a "muovere materialmente alla guerra". L'apostolo Paolo, infatti, scrive ai cristiani di Efeso:

«Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef 6,13-17).

Il cristiano, in verità, è un "atleta", un "combattente dello spirito", ecco dunque cosa significa "armare i cuori". Colui che ama Dio non teme nient'altro al di fuori di Dio stesso. Colui che non crede in nulla in ultima analisi finisce con il credere a tutto e con il temere tutto, diventando cosí succube delle peggiori menzogne della storia. Per questo nel paganesimo l'uomo si inchinò con timore e tremore dinanzi ai fenomeni naturali e alle bestie non avendo cognizione alcuna della vera natura divina e della sua vera dignità di uomo.

Armare i cuori significa restituire dignità all'uomo, farne un combattente dello spirito, conscio della sua nobiltà e dei valori per cui battersi. In verità, come scrisse Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: "Se Dio non esiste, tutto è permesso"! Per cosa dovrebbe combattere un vero ateo? In cosa dovrebbe credere un non-credente per poter combattere se perdendo il corpo, la sua uni-dimensionalità fisica, ha perso tutto, proprio tutto? In ultima analisi all'ateo resta un solo obiettivo per cui combattere: la libertà di poter fare tutto ciò che piú gli aggrada in un'esaltazione sempre maggiore di se stesso. Se tutto è relativo infatti, e tutto è frutto del caso, cosa resta di "assoluto" se non il proprio ego, il proprio volere contingente? Dinanzi all'ateismo solo due strade sono percorribili: l'esaltazione dell'io in un totalizzante culto della personalità oppure la degradazione nel piú abbietto servilismo al piú forte di turno. La storia dei grandi totalitarismi del Novecento ci ha mostrato molto bene sia l'una che l'altra cosa.

 

 

Il pensiero debole e il pericolo nichilista

La nostra cultura odierna sta scivolando sempre piú verso il relativismo e verso il nichilismo. Con l'aggravante che molti non lottano piú per costruire un futuro, come ha fatto la fede dei nostri padri, lottano per mantenere egoisticamente le posizioni acquisite, quando non per distruggere i valori, in una pretesa folle di libertà assoluta da ogni vincolo, anche morale, che non sarà scevra da conseguenze. Quali combattenti, quali "soldati del futuro" ci illudiamo di formare in un mondo siffatto? La profezia è facile: gli eserciti composti da simili uomini e comandati da politici-demagoghi e generali-manager privi di fede e morale sono votati alla sconfitta. In verità, non esiste disciplina senza una fede, non esiste esercito senza una disciplina. Le alternative possibili sono due: recuperare l'uomo e i valori perenni che rendono ragione della sua dignità oppure rassegnarsi al degrado e alla sconfitta. La storia dimostra che la massima potenza e l'alta tecnologia da sole sono insufficienti: non esiste vero controllo del territorio senza la presenza combattiva dell'uomo.

Le moderne tattiche offensive spesso non richiedono grandi doti umane, a parte le capacità tecniche. Dirigere un'arma "intelligente" a migliaia di chilometri di distanza dalla propria postazione, a bordo di una nave o all'interno di un bunker sotterraneo, o presidiare virtualmente un territorio operando con un satellite spia o con un drone killer non richiede doti particolari, al più una coscienza senza scrupoli. Conquistare palmo a palmo il territorio e controllarlo, restando esposti ad ogni genere di attacchi, richiede coraggio e grandi doti umane, non ultima la capacità di rapportarsi intelligentemente con il nemico. Ma per fare questo occorre la motivazione giusta, specie quando si opera in terra altrui. Quali motivazioni vogliamo e possiamo dare agli uomini della nostra epoca, ai giovani disfatti da ogni droga o rammolliti dalla logica della sensualità? Le menzogne non possono durare a lungo, occorre ritrovare urgentemente motivi e valori da offrire a uomini chiamati a rischiare la vita, giorno dopo giorno, in un mondo sempre piú bugiardo e sempre piú manipolato.

Uomini per i quali le parole della Scrittura non di rado assumono contorni cosí vividi da cambiare per sempre una vita: «...non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta...» (cfr. Eb 12,4). Combattenti per cui l'aldilà è spesso vicino come l'aldiquà. Uomini che hanno già messo in conto la possibilità della propria morte e la affrontano spogli di ogni peso superfluo, attenti al compagno d'armi che combatte al loro fianco, nella speranza che almeno la sua non sia l'ultima battaglia. È questo il rude ma sincero amore fra compagni d'arme, uniti dal fuoco, e non è possibile che esso non salga al cospetto di Dio. Anche per questi il Signore ha detto: «Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Di tanto deve essere degno un comandante, il cui duro mestiere è quello di mandare dei giovani in battaglia, incontro alla morte, sapendo bene che su di essi potrà contare, perché terranno la posizione fino all'ultimo respiro, fino all'estremo sacrificio. Ecco, di tanto deve essere degno un comandante.

 

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