La professione di fede nella Risurrezione di Cristo Gesú costituisce per i cristiani l'espressione che conferma la verità di quel principio, che sembrerebbe essere solo un bel sogno: "L'amore è forte come la morte" (Cant. 8,6). Nell'Antico Testamento, questa massima è incastonata in un inno esaltante la forza dell'eros. Ciò tuttavia non significa affatto che noi siamo autorizzati a relegarla sbrigativamente in un canto, quasi fosse un'enfatica esagerazione innodica. Nelle sconfinate esigenze dell'eros, infatti, nelle sue apparenti esagerazioni e smodate brame, viene in realtà alla ribalta un problema fondamentale, diremmo anzi "il" problema fondamentale dell'esistenza umana, in quanto vi si manifestano la natura e l'intrinseca paradossalità dell'amore: l'amore esige infinità, indistruttibilità; esso "è" addirittura quasi un urlo lanciato dall'uomo per reclamare l'infinito.
Ma contemporaneamente si rileva come questo suo grido sia irrealizzabile, come esso aneli all'infinito ma sia incapace di ottenerlo; si constata come esso aspiri sí all'eternità, ma si trovi in realtà imprigionato in un mondo di morte, incatenato nella sua solitudine e nei suoi impulsi distruttivi. Ora, da questo si può capire che cosa significhi la 'risurrezione'. Essa "è" la superiorità effettiva dell'amore sulla morte. Essa è però al contempo anche la chiara dimostrazione dell'unica cosa capace di creare l'immortalità: il sussistere in un altro, che continua ancora ad esistere anche quando io mi sono dissolto. L'uomo è quell'essere che non vive eternamente, ma è necessariamente votato alla morte. Per lui, che non ha in sé un principio di sussistenza, umanamente parlando il sopravvivere risulterà possibile soltanto continuando ad esistere in un altro. Gli asserti della Scrittura che affermano lo stretto nesso d'interdipendenza vigente fra peccato e morte, vanno intesi appunto rifacendosi a questa realtà di fatto. Ora infatti appare chiaro che il tentativo fatto dall'uomo per giungere "ad essere come Dio", il suo conato d'autarchia mediante il quale pretenderebbe di sussistere esclusivamente per conto suo, finisce logicamente per comportare la sua morte, in quanto come essere solo a sé stante non potrà mai esistere.
Allorché l'uomo, disconoscendo i suoi propri limiti, pretende di vivere unicamente per conto suo, in maniera completamente 'autarchica' - e la genuina essenza del peccato sta proprio qui -, non fa che buttarsi volontariamente in braccio alla morte. L'uomo naturalmente capisce molto bene che la sua vita da sola non si regge, per cui si trova obbligato a sforzarsi di sopravvivere negli altri, cercando di restare perennemente nella sfera dei viventi in loro e tramite loro. Per conseguire tale intento, sono state tentate soprattutto due vie. In primo luogo quella di sopravvivere nei propri figli: ecco perché, nei popoli primitivi, il celibato e la mancanza di figli vengono sempre considerati come la peggiore delle maledizioni; essi equivalgono infatti ad un disperato naufragio, ad una morte senza scampo. Viceversa, il maggior numero possibile di figli offre la migliore garanzia possibile di sopravvivenza, la piú vivida speranza d'immortalità, e quindi la piú ambita benedizione che l'uomo possa attendersi.
Una seconda via si apre davanti all'uomo, allorché egli scopre di sopravvivere nei figli soltanto in maniera assai imperfetta; egli desidera allora di lasciar superstite una parte ben piú consistente di se stesso. Si rifugia quindi nell'idea della celebrità, che dovrebbe renderlo veramente immortale, portandolo a sopravvivere lungo tutti i tempi nella memoria della gente. Ma anche questo secondo tentativo, messo in opera dall'uomo per crearsi un'immortalità mediante l'essere in altri, fallisce non meno miseramente del primo: ciò che di lui permane non è il suo vero essere, bensí solo una sua eco, una sua ombra. Sicché in sostanza l'immortalità di propria fabbricazione è solo un Ade, uno Sceol: piú un non-essere, che un essere. L'insufficienza di ambedue queste vie sta nel fatto che l'altro, il quale dovrebbe conservare il mio essere anche dopo che io sarò morto, in effetti non è in grado di mantenere in vita questo stesso essere, bensí solo una sua risonanza; e ancor piú nel fatto che anche lo stesso soggetto al quale ho per cosí dire affidato la mia sopravvivenza, non sussisterà per sempre, ma finirà invece per scomparire a sua volta.
Tutto questo ci porta a fare il prossimo passo avanti nel nostro assunto. Abbiamo sinora detto che l'uomo non possiede in sé alcuna forza di sussistenza, per cui può continuar ad esistere solo in qualcun altro; ma anche in questo altro egli sopravvive sempre e solo in maniera ombratile, e per di piú mai nemmeno stabile e definitiva, in quanto anche l'altro è destinato a sparire dalla circolazione. Ora se le cose stanno cosí, resta soltanto "uno" che sia veramente in grado di offrire una solida base di sussistenza: colui che 'è', colui che non va soggetto al divenire e al tramontare, ma resta invece tetragono ed inconcusso pur in mezzo al divenire e al trascorrere; si tratta del Dio dei viventi, che non si limita a conservare solo un'ombra ed un'eco del mio essere, di quel Dio i cui pensieri non sono soltanto delle mere copie delle realtà esistenti. Io stesso invece sono un suo pensiero, un pensiero che mi pone in essere per cosí dire ancor piú originariamente di quello che sono in me stesso; il suo pensiero infatti non è l'ombra derivata, bensí l'energia fontale del mio essere. In lui, io posso continuar a vivere non soltanto come ombra, ma davvero in maniera ancor piú realisticamente identica a me stesso di quanto non mi riesca di vivere tentando di restarmene convulsivamente aggrappato a me stesso.
Prima di tornare all'assunto della Risurrezione, cerchiamo ancora di esaminare la stessa cosa osservandola da un dato leggermente diverso. A tal fine, possiamo nuovamente riagganciarci al binomio amore-morte, argomentando cosí: solo quando per un soggetto il valore dell'amore supera quello della stessa vita, ossia quando uno è disposto a collocare la vita in secondo piano dietro l'amore e per far posto all'amore, solo allora - ripeto - l'amore può risultare davvero piú forte e piú alto della morte. Per esser superiore alla morte infatti, l'amore deve innanzitutto contare piú della semplice vita. Ora, quando l'amore potesse davvero esser tale non solo in linea volitiva, ma anche in realtà, vorrebbe dire che la potenza dell'amore avrebbe avuto il sopravvento anche sulla sfera meramente biologica, assoggettandola al suo servizio. Per dirla con la terminologia di Teilhard de Chardin, qualora accadesse davvero questo, si riscontrerebbe verificata la decisiva 'complessità', vale a dire attuato il ciclo complessivo: anche la sfera biologica risulterebbe compresa e inclusa nella potenza dell'amore. Allora esso verrebbe a superare anche il suo limite - la morte -, creando l'unità laddove la morte crea la separazione.
Qualora la forza dell'amore per un altro fosse cosí intensa, da poter mantenere viva non soltanto la sua memoria, cioè l'ombra del suo 'io', ma anche la sua soggettività personale, si sarebbe raggiunto un nuovo stadio di vita, il quale si lascerebbe alle spalle la zona delle mutazioni ed evoluzioni biologiche, comportando automaticamente il balzo su un piano completamente diverso, in cui l'amore non sarebbe piú soggetto al 'bios', ma lo ingaggerebbe invece al suo servizio. Allora, un tale ultimo stadio di 'mutazione evolutiva' non rappresenterebbe ormai piú un gradino biologico, ma comporterebbe invece l'evasione dalla dispotica tirannia della vita biologica, che è al contempo signoria incontrastata della morte; esso darebbe accesso a quella sfera che la Bibbia greca chiama 'zoè', ossia vita imperitura, la quale si è ormai disimpegnata completamente dalla dittatura della morte. In tal caso, lo stadio ultimo d'evoluzione di cui il mondo abbisogna per raggiungere il suo traguardo, non si troverebbe piú nell'ambito della sfera biologica, ma verrebbe invece offerto dallo spirito, dalla libertà, dall'amore. Esso quindi non sarebbe piú un'evoluzione, bensí una decisione e un dono insieme.
Va bene, si dirà, ma tutto ciò cosa c'entra con la fede nella risurrezione di Gesú? Veniamo subito al dunque. Sinora abbiamo esaminato il problema della possibile immortalità dell'uomo guardandolo da due dati, che attualmente si presentano come aspetti d'un unico e identico dato di fatto. Abbiamo detto che, siccome l'uomo non possiede in sé alcun principio di stabile consistenza, la sua sopravvivenza potrà realizzarsi unicamente quando egli riesca a continuar a vivere in un altro. E a proposito di questo 'altro', abbiamo anche detto come soltanto l'amore, il quale accoglie l'amato in se stesso assorbendolo in sé, sia in grado di render possibile tale sussistere nell'altro. Orbene: a mio modesto modo di vedere, questi due aspetti integrantisi a vicenda si riflettono nelle due formule neo-testamentarie che ribadiscono appunto la risurrezione del Signore: "Gesú è risorto", e "Dio (Padre) ha risuscitato Gesú". Entrambe le formulazioni s'incontrano e si armonizzano nel fatto che l'amore totale portato da Gesú agli uomini, dal quale egli è stato condotto sulla croce, raggiunge lo stadio perfetto nella sua totale traslazione sul Padre, divenendo cosí piú forte della morte, in quanto si tramuta istantaneamente in un totale assorbimento in lui.
Tenendo presente questo, ci risulta possibile fare un altro passo innanzi. Possiamo ora affermare che l'amore genera sempre una specie d'immortalità; già persino nei suoi stadi pre-umani esso marcia in questa direzione, almeno come mezzo per la conservazione della specie. Tale sua capacità di dar origine ad una immortalità non è qualcosa di accessorio, qualcosa che esso adempie come una funzione qualsiasi fra tante altre; è invece proprio la sua peculiarità, la dote essenziale che manifesta la sua vera natura. Questa affermazione è convertibile, e ci viene a dire che l'immortalità proviene "sempre" dall'amore, mai quindi dall'autarchia di colui che si considera autosufficiente. Possiamo persino spingere la nostra audacia fino ad asserire che questo principio, inteso nel giusto senso, si applica anche a Dio stesso, cosí come lo vede la fede cristiana. Anche Dio infatti è un'assoluta sussistenza e consistenza tetragona ad ogni tramonto, perché è armonica coordinazione di tre persone, è un loro trasfondersi nel mutuo amore, è atto sostanziale del loro amore assoluto eppure integralmente 'relativo', in quanto vive soltanto nel flusso inesauribile dei loro rapporti vicendevoli. Come già dicevamo in precedenza, veramente divina non è l'autarchia, che non conosce nessun altro all'infuori del soggetto stesso; è appunto per questo, che abbiamo individuato la rivoluzione dell'immagine cristiana del mondo e di Dio rispetto all'antichità nel fatto che il cristianesimo c'insegna a concepire l''Assoluto' come assoluta 'relatività', come 'relatio subsistens'.
Ma torniamo al nostro assunto. L'amore genera l'immortalità, e l'immortalità scaturisce unicamente dall'amore. Questo principio che ci accingiamo ora a sviscerare, comporta poi inoltre che colui il quale ha amato per tutti, ha anche fondato l'immortalità per tutti. È precisamente questo il senso dell'affermazione biblica, secondo cui la "sua" risurrezione è la "nostra" vita. E riallacciandosi a questo fatto, ci diviene comprensibile anche l'argomentazione, di primo acchito cosí estranea ed ostica al nostro sentimento, sviluppata da s. Paolo nella sua prima Lettera ai Corinti: se egli e risorto, anche noi risorgeremo, perché l'amore è piú forte della morte; se invece egli non è risorto, non risorgeremo neppure noi, perché allora è chiaro che la morte ha l'ultima parola e basta (cfr. 1 Cor. 15,16). Dato che si tratta d'un asserto d'importanza centrale, cerchiamo d'interpretarlo dandone un'altra versione ancora: o l'amore è piú potente dalla morte, oppure non lo è. Se in lui esso è davvero divenuto forte cosí, lo è divenuto proprio in veste d'amore verso gli altri. Ciò per altro vuol ovviamente dire che il nostro amore soggettivo, lasciato unicamente a se stesso, non riesce a vincere la morte, ma sarebbe invece costretto per sua stessa costituzione a restare un appello inesaudito. Ciò significa a sua volta che soltanto il suo amore, il quale viene ad identificarsi con la potenza vitale ed amorosa di Dio stesso, è in grado di gettare le basi della nostra immortalità. Tuttavia, resta pur sempre assodato che la "modalità" della nostra immortalità verrà a dipendere dal nostro modo di amare.
Su questo argomento, dovremo tornare ancora quando sarà il momento di parlare del giudizio. Dai rilievi sinora fatti, fluisce un'altra cosa ancora. Va da sé che la vita del risorto non sarà piú il semplice 'bios', ossia la forma biologica della nostra vita attuale infra-storica e quindi votata alla morte, bensí la 'zoè', ossia una vita nuova, diversa, stabile e definitiva; una vita che ha ormai superato la sfera mortale della vicenda biologica, sfera che qui si trova scavalcata definitivamente da una potenza superiore. Infatti, gli stessi racconti neo-testamentari della risurrezione ci fanno vedere chiaramente come la vita del Risorto non si svolga ormai piú nell'ambito della vicenda biologica, ma fuori e sopra di essa. È però altrettanto ovvio e scontato che questa nuova vita si è attestata e doveva necessariamente attestarsi "nella" storia, perché esiste proprio "in funzione" di essa, tanto è vero che la predicazione cristiana in fondo altro non è se non la trasmissione di tale testimonianza, tutta intenta a ribadire che l'amore è riuscito a sfondare la staccionata della morte, cambiando cosí radicalmente la situazione in cui ognuno di noi versa. Partendo da queste nozioni basilari, non risulta piú poi tanto difficile trovare la giusta 'ermeneutica' da adottare nell'intricata questione del come spiegare i testi biblici concernenti la risurrezione, cosí da mettere in chiaro in quale senso vadano esattamente intesi.
Ovviamente, non possiamo qui intavolare una particolareggiata discussione sui relativi problemi insorgenti, che oggi si presentano piú difficili di quanto mai non siano stati in passato, soprattutto perché vi si continuano a mescolare in un viluppo sempre piú inestricabile affermazioni storiche e filosofiche - per lo piú insufficientemente ponderate -; e inoltre anche perché non di rado l'esegesi si costruisce una filosofia tutta sua, la quale all'estraneo deve per forza dar l'impressione d'una estremamente raffinata esaltazione del reperto biblico. In merito ai particolari, qui molte cose rimarranno sempre assai discutibili; tuttavia, va pur ammessa una linea fondamentale di demarcazione fra interpretazione che sappia mantenersi tale, e adattamenti spiccatamente arbitrari. In primo luogo è chiarissimo che Cristo, nella risurrezione, non ha ripreso la sua vita terrena antecedente, come ci vien detto ad es. del ragazzo di Naim e di Lazzaro. Egli è risorto invece a quella vita stabile e definitiva, che non sottostà piú alle leggi chimiche e biologiche, e quindi risulta ormai sottratta all'eventualità della morte, posta anzi per sempre al riparo nell'eternità accordata dall'amore. Ecco perché gli incontri avvenuti con lui sono 'apparizioni'; ecco perché colui assieme al quale ancora due giorni prima si era seduti a mensa, non viene piú nemmeno riconosciuto dai suoi migliori amici, e anche una volta riconosciuto rimane estraneo ad essi, cosicché solo quando "egli" stesso concede la facoltà di vederlo "vien" davvero visto; in effetti, solo allorché egli ci apre gli occhi e il nostro cuore si lascia aprire, può risultar percettibile in mezzo al nostro mondo di morte il volto dell'eterno amore vincitore della morte, e in esso il mondo nuovo, completamente diverso dall'attuale: il mondo del futuro.
Per la stessa ragione, torna tanto difficile, per non dire addirittura impossibile, anche agli stessi vangeli il descrivere gli incontri col risorto; quando ne parlano, non fanno che balbettare, e sembrano persino contraddirsi mentre ce li presentano. In realtà invece, sono sorprendentemente unanimi nella dialettica delle loro affermazioni, nel ribadire la contemporaneità del suo toccare e non toccare, del loro riconoscere e non riconoscere, nell'insistere sulla perfetta identità fra il crocifisso e il risorto, ma anche sulla radicale trasformazione avvenuta in lui. Si riconosce il Signore quasi senza riconoscerlo; lo si tocca, eppure egli è l'intangibile; egli è lo stesso, eppure è tutto diverso da prima. Come si è detto, questa dialettica è sempre la stessa: cambiano solo i mezzi stilistici con cui viene messa a fuoco. Esaminiamo ad esempio l'episodio dei discepoli di Emmaus, nel quale ci siamo già brevemente imbattuti, sviscerandolo un pochino meglio sotto questo aspetto.
A tutta prima esso suscita l'impressione di aver dinnanzi una descrizione corposa e massiccia della risurrezione; dà la sensazione che non sia rimasta traccia di quell'alone misterioso e indescrivibile che troviamo invece sempre nelle esposizioni paoline. Tutto fa pensare che la tendenza alla narrazione colorita, alla concretezza leggendaria, sostenuta da un'apologetica mirante al tangibile, abbia avuto completamente il sopravvento, riportando di peso il Signore risorto nella storia terrena. Ma risulta subito in netta contraddizione con tale fatto già la di lui misteriosa comparsa, e non meno misteriosa sparizione. E ancor piú contraddittoria è la circostanza che egli qui rimanga irriconoscibile ad occhi pur assuefatti alla sua presenza. Non si è piú in grado di coglierlo come al tempo della sua vita terrena, sicché viene scoperto solo nell'ambito della fede; interpretando le Scritture egli infiamma il cuore dei due pellegrini, e spezzando il pane apre loro gli occhi. Qui abbiamo una chiara allusione ai due elementi basilari della liturgia cristiana primitiva, che si compone appunto di liturgia della parola (lettura e spiegazione della s. Scrittura) e di frazione eucaristica del pane. In tal modo, l'evangelista lascia capire che l'incontro col risorto viene a collocarsi su un piano completamente nuovo; utilizzando le 'cifre' dei dati liturgici, egli tenta di descrivere l'indescrivibile. Ci dà cosí una teologia della risurrezione e al contempo una teologia della liturgia: il risorto s'incontra nella Parola e nel sacramento; l'azione liturgica è la maniera in cui egli si rende a noi percettibile, riconoscibile come il Vivente. E argomentando in modo inverso: la liturgia si fonda sul mistero pasquale; essa va intesa come un avvento del Signore fra noi, che lo porta a farsi nostro compagno di viaggio, ad infiammarci gli ottusi cuori e ad aprirci gli occhi serrati.
Egli continua sempre a camminare con noi, trovandoci sempre scoraggiati ed intenti ad almanaccare; ma ha pur sempre il potere di ridarci la vista. Con tutto quanto siam venuti sin qui esponendo, abbiamo ovviamente detto soltanto una metà del dovuto; la testimonianza neo-testamentaria risulterebbe falsata, qualora volessimo arrestarci unicamente a questo. L'esperienza che si fa imbattendosi nel risorto è qualcosa di ben diverso dall'incontro con un uomo tuttora vivente in questa nostra storia; non può però certo venir fatta risalire a discorsi conviviali e a ricordi, che avrebbero finito per condensarsi nel pensiero che egli fosse ancora vivo e che la sua causa proseguisse vittoriosa. Con un'interpretazione del genere, l'evento viene sospinto nella direzione opposta e appiattito nella sfera meramente umana, e quindi privato della sua peculiarità. I resoconti lasciatici sulla risurrezione sono qualcosa di ben diverso e piú sostanzioso di semplici scene liturgiche travestite: mettono invece in risalto l'avvenimento base su cui poggia ogni liturgia cristiana. Essi attestano un fatto che non è sbocciato come un sogno fantastico dal cuore dei discepoli, ma è invece capitato loro dal di fuori, imponendosi ad essi "contro" i loro dubbi e infondendo loro una certezza: il Signore è veramente risorto.
Colui che giaceva nella tomba, non si trova piú là, ma vive nuovamente e realmente in persona. Egli poi a sua volta, che ormai si era trasferito nell'altro mondo di Dio, aveva però saputo mostrarsi potente al punto, da manifestare sino alla tangibilità come fosse proprio lui stesso che ora stava loro davanti, facendo vedere come in lui la potenza dell'amore si fosse palesata piú forte della potenza della morte. Orbene: solo ammettendo questo altrettanto seriamente quanto si è ammesso ciò che abbiamo detto in precedenza, ci si attiene fedelmente alla testimonianza del Nuovo Testamento; solo cosí si conserva ad essa il suo peso storico intramondano. Il troppo comodo tentativo di risparmiarsi da un lato la fede nel mistero della poderosa azione esercitata da Dio nel mondo, pretendendo al contempo la soddisfazione di rimanere pur sempre sul terreno del messaggio biblico, è un conato destinato ad andare a vuoto: non appaga infatti né l'onestà della ragione, né le esigenze della fede. Non è possibile avere la fede cristiana, e insieme la "religione ristretta nei limiti della mera ragione"; la scelta fra le due s'impone inderogabilmente. A chi crede però, risulterà man mano sempre piú chiaramente discernibile come lo stadio piú perfetto della ragione sia proprio la professione di fede in quell'amore che ha vinto la morte.
Cfr. RATZINGER J., Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, (Biblioteca di teologia contemporanea 5), Ed. Queriniana, Brescia 19714, 245-253.