Dalla speranza di un mondo nuovo alla strumentalizzazione
politica; dai totalitarismi all'utopia della libertà
assoluta; dalla militanza alla crisi religiosa e politica di un sistema
e di una generazione: una storia che
perdura ancora oggi fra crisi di valori e vuoto esistenziale
«Apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago
rosso, con sette teste
e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un
terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra»
(Ap 12,3-4)
«Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato
possibile da quando i
comunisti falsificano Marx e i cattolici Cristo» (Nicolás Gómez
Dávila)
Il termine cattocomunismo nasce dal dibattito politico che in Italia offrí terreno fertile alla fusione ambigua tra cattolicesimo e comunismo e si protrasse dal 1955 al 1970. Il contatto con il mondo cattolico fu intensamente voluto e ricercato dal comunismo e fu creata la formula del "catto-comunismo", con la quale si pubblicizzavano ed esaltavano i punti in comune con le frange cattoliche piú attente alle tematiche sociali. Furono perciò coronate da grande enfasi ciascuna e tutte le piccole e grandi occasioni di convergenza ideale che si potevano in qualche modo stabilire. Solo successivamente però (cioè negli anni settanta) il termine "cattocomunismo" cominciò ad entrare nell'uso. Tale confluenza in parte è spiegabile anche con il fatto che il cristianesimo è la religione dalla quale il marxismo ha mutuato piú valori e punti di riferimento, benché siano stati stravolti e disattesi. Religione cristiana e comunismo in realtà sono antitetici a causa di una visione puramente materialistica di Karl Marx, il quale vide la religione come uno strumento per opprimere e controllare le masse (il ben noto oppio dei popoli).
L'atteggiamento cristiano verso la ricchezza ha fornito argomenti apparenti a favore di alcune tesi marxiste, non bisogna dimenticare, infatti, che quella cattolica è l'unica religione per la quale la ricchezza può costituire un rischio per la vita spirituale. È ben noto il passo evangelico in cui si ammonisce che: «è piú facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19,24). Molti ordini religiosi hanno fatto della povertà addirittura un segno distintivo, basti pensare, ad esempio, agli ordini francescani, che tanta importanza hanno rivestito nella Chiesa, ma anche a tante altre congregazioni piú o meno note. In altre religioni invece (per esempio tra gli ebrei, i calvinisti e i mussulmani) la ricchezza è considerata il segno concreto e certo della benevolenza divina che premia l'uomo per la sua laboriosità e rettitudine. Da una scelta ideologizzata della povertà e da una contestazione radicalista del mondo nacquero anche alcune eresie come quella catara, albigese e valdese.
È sempre in un contesto cattolico che l'economia seppe congiungere in modo singolare il capitale con l'attenzione al sociale, basti pensare alla fondazione dei famosi Monti di Pietà. Il Banco di Napoli, per esempio, fu tra i piú antichi istituti di credito europei e trasse origine dai banchi pubblici napoletani e dai Monti di pietà sorti nel XVI e nel XVII secolo. V'è insomma una tradizione lunga e gloriosa di attenzione cattolica al sociale che ha impregnato le radici culturali dell'Europa e dell'intero mondo occidentale dalla quale, piaccia o no, sia il capitalismo sia il comunismo hanno tratto ideali e valori, sia pure in misura parziale e fra mille e dolorose contraddizioni.
La deriva ideologica
Nel clima arroventato della contestazione e nella deriva seguita ai grandi conflitti del Novecento il mondo sociale cattolico subí l'influsso delle ideologie socialiste e comuniste che agli occhi di alcuni cominciarono ad apparire come una scelta piú radicale e piú concreta a favore delle classi emarginate dal moderno sistema politico-economico.
Accadde cosí che in Italia alcune frange cattoliche si misero a capofila della contestazione del '68. Furono cattolici, per esempio, i primi due atenei occupati nell'anno accademico '67-68: Trento e Milano. Cattolici, o perlomeno di formazione cattolica, furono tutti i primi leader della contestazione sessantottina italiana: Renato Curcio, Marco Boato, Mauro Rostagno, Nello Casalini, Francesco Schianchi, Luciano Pero, Mario Capanna.
Furono cattoliche le origini della rivista «Lavoro Politico», nata nel '62 a Verona su iniziativa di Walter Peruzzi, che divenne il punto di riferimento per la contestazione trentina. Ma fra i libri piú letti nel 1968, durante le occupazioni, ci fu Lettera a una professoressa, pubblicato da un prete, don Lorenzo Milani, scritto insieme agli alunni della scuola di Barbiana di Vicchio Mugello, in provincia di Firenze.
Manifestazione di piazza a Milano (1969)
Il caso don Milani
Quando Lettera a una professoressa cominciò a diffondersi fra le università occupate e ad assurgere al rango di testo ispiratore della contestazione studentesca, don Milani ormai non c'era piú. Don Milani, infatti, si spense il 26 giugno 1967 e diventò subito un mito delle sinistre, che se ne impossessarono tratteggiandolo come «prete scomodo», «prete ribelle» e soprattutto come «profeta». Della spiritualità che don Milani aveva - ebreo non credente entrato improvvisamente in seminario con tutto il radicalismo del convertito - alle sinistre importava ben poco. Ciò che invece attraeva e prestava il fianco a non poche strumentalizzazioni erano le critiche che egli rivolgeva alla gerarchia ecclesiastica. Tutto ciò che don Milani diceva e scriveva veniva tempestivamente sfruttato fino a dare adito ad una commistione imbarazzante. Ad onor del vero bisogna dire che lo stesso don Milani favorí queste strumentalizzazioni politiche. Nel 1965 papa Paolo VI, nell'inviare un aiuto economico alla scuola di Barbiana, gli fece notare diplomaticamente l'inopportunità di scrivere articoli sulla rivista "Rinascita" appartenente all'allora Partito Comunista Italiano.
Don Milani giunse a Barbiana nel 1954, dopo essere stato trasferito fra non poche polemiche da San Donato di Calenzano. All'allora Arcivescovo di Firenze, il cardinale Florit e alla sua Curia riservò critiche alquanto pesanti. Perfino il patriarca di Venezia, Cardinal Angelo Giusepe Roncalli, diventato poi papa Giovanni XXIII, reagí con apprensione e severità ai suoi atteggiamenti. Fu cosí che da questo prete contestatore, affascinato dall'altra grande "fede" di quell'epoca - il comunismo - ebbe origine nel 1968 il manifesto della rivolta studentesca: Lettera a una professoressa. In esso don Milani contestava il ruolo dei docenti e la loro autorità, chiedeva l'abolizione della bocciatura, denunciava insomma l'intera struttura scolastica fin dalle sue fondamenta. Perfino un intellettuale laico come Pier Paolo Pasolini rimase perplesso. È anche a motivo di questo insolito connubio fra don Milani e il comunismo se ancora oggi le bandiere rosse, simbolo di un'ideologia che può "vantare" almeno 80 milioni di morti in meno di un secolo, sfilano nelle manifestazioni per la pace.
Il caso della "Parrocchia dell'Isolotto"
In quell'epoca difficile e carica di tensione ci fu un altro caso destinato ad alimentare tensioni e proteste fra i cattolici e fu quello di un altro prete: don Enzo Mazzi. Don Mazzi, proveniente da una famiglia operaia, era il parroco dell'Isolotto, uno dei quartieri piú poveri di Firenze, un quartiere di operai, di meridionali e di profughi dell'Istria. Nel 1954 il grande cardinal Elia Dalla Costa ve lo inviò nominandolo parroco. Don Mazzi costruí pressoché dal nulla la nuova parrocchia riuscendo a coagulare intorno a sé una comunità vivace e numericamente rilevante.
I problemi cominciarono il 22 settembre 1968, quando nella chiesa parrocchiale dell'Isolotto venne fatto circolare un volantino in cui si esprimeva solidarietà nei confronti di coloro che, otto giorni prima, avevano occupato il Duomo di Parma. Il volantino, condiviso da don Mazzi, era indirizzato anche al Santo Padre e al Vescovo di Parma. L'occupazione fu decisa in segno di protesta contro l'accettazione, da parte del Vescovo di Parma, di un contributo offerto da una banca per la costruzione di una nuova chiesa cittadina. Nel volantino si affermava che la Chiesa non poteva accettare quel contributo e doveva fare una scelta discriminante fra i poveri i padroni. Il testo inoltre sosteneva demagogicamente che la Chiesa non aveva a cuore i poveri, gli oppressi e gli ultimi ma che il Papa, i vescovi, spesso anche i sacerdoti e i suoi esponenti laici, erano ricolmi di onori, di potere, di privilegi, di cultura e di ricchezze.
L'arcivescovo di Firenze scrisse a don Mazzi chiedendogli di ritrattare la lettera-volantino dandogli un mese di tempo per riflettere. A don Mazzi si contestava anche e soprattutto un catechismo da lui pubblicato, dal titolo Incontro a Gesú, caratterizzato da diverse deviazioni dottrinali. Tutto si rivelò inutile, sia la mediazione del Vaticano, sia gli appelli all'obbedienza rivoltigli dagli altri confratelli. Don Mazzi non ritrattò e non corresse nulla e perciò fu rimosso dalla parrocchia. Furono piú di un centinaio, nella sola diocesi fiorentina, i preti che firmarono un polemico appello di solidarietà nei suoi confronti. Don Mazzi continuò ad "officiare" all'Isolotto, non piú in chiesa ma all'aperto, sul sagrato, circondato dai suoi vecchi fedeli in un assemblearismo tipico dell'epoca, fortemente ideologizzato, secondo il quale evidentemente non c'era una Verità da ascoltare e - ancor piú - una Persona da seguire, Cristo, ma una dottrina da creare autonomamente attraverso il dibattito. È un'epoca in cui trionfano dibattiti, manifestazioni di piazza, contestazioni e pretese di assoluta libertà. Ma libertà da cosa? E soprattutto. libertà per cosa?
La contestazione fu una conseguenza della naturale propensione del mondo cattolico a cercare la giustizia e ad eliminare le disuguaglianze tra gli uomini? Oppure fu la conseguenza di una grande, terribile, crisi di fede? Fu certamente una crisi collettiva, quella che investí buona parte della Chiesa negli anni del post-Concilio, nel momento in cui la secolarizzazione stava diventando un fenomeno di massa. Dal 1965, ossia dalla fine del Concilio Vaticano II, il numero dei sacerdoti si era dimezzato e le vocazioni si erano ridotte ad un decimo. È pur vero che in un mondo solo da poco affacciatosi alla modernità e al benessere molte erano ancora le "vocazioni sociologiche": molti avevano scelto la strada del sacerdozio a motivo del prestigio e dell'ascesa sociale che esso garantiva, piú che per una vera vocazione. Tutto veniva contestato e rimesso in discussione: il ruolo dei laici, il valore del sacerdozio, l'abito clericale, la liturgia, ma prima ancora i cardini essenziali della fede.
Ciò che non ottenne il vecchio statalismo massonico ottocentesco, imposto all'Italia dalle baionette e dalle mazzette sabaude, lo ottenne il secolarismo sessantottino portato dalle sinistre: la "protestantizzazione" teorica e pratica di ampie masse cattoliche, quando non la loro radicale ateizzazione. Poco importava la fede nella Trinità, nella risurrezione o nella vita eterna, ciò che contava era darsi da fare per il povero, per l'handicappato, per l'operaio, dimenticando che inevitabilmente l'ortoprassi non può reggere a lungo senza l'ortodossia. Fu cosí che la fede cattolica venne svuotata del suo contenuto originale e svilita a pura prassi ideologico-sociale. Sono significative le parole di don Enzo Mazzi che in un'intervista affermò che se per la teologia il battesimo è lo strumento per togliere il peccato originale e per donare la grazia, per la contestazione significa, piú che togliere il peccato individuale, togliere un peccato sociale restituendo al bambino i beni e i diritti fondamentali. Ma questo, a dire il vero, non è compito anzitutto dello Stato? Il disordine era tale che si confondevano Stato e Chiesa in una commistione di ruoli tanto perniciosa quanto vana.
Apporre sic et simpliciter un timbro cattolico alla contestazione tuttavia non sarebbe corretto. Non furono tanto i cattolici, quanto i fuoriusciti, condizionati dalla confusione post-conciliare, a dare un'impronta al Sessantotto e a rimanerne a loro volta condizionati e travolti. Fu proprio adottando uno dei piú famosi slogan dell'epoca - «Qui e ora» - che tanti cattolici rinunciarono alla dimensione dell'eternità e proiettarono la speranza cristiana nell'adesso e nella contingenza. Fu cosí che molti arrivarono all'abbraccio con l'ideologia marxista partorendo il cattocomunismo.
Il cattocomunismo
Il cattolicesimo del dissenso e il cattocomunismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro, almeno nell'Italia e nel mondo occidentale degli anni Settanta. Il cattolico del dissenso contestava la gerarchia e il magistero e al tempo stesso credeva fosse possibile - anzi doveroso - conciliarsi, almeno in politica, con la dottrina comunista, ritenuta ormai l'unica in grado di offrire risposte concrete alle speranze dell'umanità.
Furono molte in quegli anni le aberrazioni commesse anche da alcuni vertici ecclesiali. Basti pensare all'esperimento del Messale ufficiale della Conferenza episcopale francese - poi emendato per intervento della Santa Sede - che inserí Karl Marx fra le figure di cui i cattolici dovevano fare memoria.
In Italia il primo testo base del cattocomunismo fu Marxismo e cristianesimo, scritto nel 1966 da don Giulio Girardi, salesiano e docente universitario. Girardi sosteneva che marxismo e cristianesimo fossero entrambi riconducibili allo stesso ideale umanitario di libertà e che fosse necessaria una lotta comune per il rovesciamento della società capitalistica. Per questa lotta, sosteneva il Girardi, il marxismo offriva importanti "strumenti scientifici". Nel 1969 don Girardi fu allontanato dall'Università Salesiana. In seguito si fece assumere dalla Federazione Lavoratori Metalmeccanici abbandonando la vita religiosa e sacerdotale.
Un ruolo importante, nel cattolicesimo del dissenso, lo hanno giocato anche il padre scolopio Ernesto Balducci e altri personaggi di spicco come Mario Gozzini e Raniero La Valle, che a metà degli anni Settanta vennero eletti in Parlamento, come indipendenti di sinistra, nelle liste del Partito Comunista Italiano. Non erano certo personaggi del tutto emarginati dalla gerarchia ecclesiastica se ebbero un certo ruolo anche nella fondazione del quotidiano cattolico «Avvenire». Forse la sterzata a sinistra piú significativa della Chiesa, la si ebbe a Torino durante gli anni in cui il cardinale Michele Pellegrino ne fu arcivescovo, dal 1965 al 1977. Fu allora che la diocesi torinese offrí ospitalità a molti di coloro che si erano scontrati con la gerarchia a causa della loro propensione per il comunismo, come lo stesso don Girardi. Fu allora che vennero rimossi i cappellani dalla FIAT abolendo i pellegrinaggi a Lourdes, che da anni mobilitavano migliaia di operai. Fu allora che vennero bloccati importanti processi di beatificazione quali quelli di Francesco Faà di Bruno (Patrono del Corpo tecnico dell'Esercito Italiano) e di Piergiorgio Frassati, che solo parecchi anni dopo giungeranno agli onori degli altari con papa Giovanni Paolo II.
Nella metà degli anni Settanta il Cardinal Pellegrino scrisse quello che venne ritenuto il documento piú importante del cattocomunismo italiano, la lettera pastorale Camminare insieme, che non a caso fu stampata e diffusa dall'allora giunta di sinistra di Torino. Il cardinal Pellegrino (noto anche come padre Pellegrino, come amava farsi chiamare) si dimise in anticipo nel 1977 e Paolo VI, che pure l'aveva voluto, ne accettò le dimissioni. Fosse o no dipeso dalle sue scelte pastorali la diocesi torinese era passata da una fioritura di santità ad una situazione di crisi drammatica. L'apertura al comunismo non solo non aveva provocato conversioni nelle fabbriche - dove, anzi, molti operai protestarono per la rimozione dei cappellani - ma aveva invece danneggiato il patrimonio torinese autenticamente cattolico e sociale di san Giovanni Bosco e di san Leonardo Murialdo. Fu allora che Torino cominciò ad essere una delle città con il piú basso indice di pratica religiosa.
La caduta della pratica religiosa nella diocesi torinese dimostra, in fondo, che i tentativi artificiosi di "modernizzare" il cristianesimo leggendolo in chiave marxista non riuscirono mai a conquistare il popolo, spogliandolo invece di quanto aveva di piú prezioso e accontentando solo un pugno di pochi e sterili intellettuali pretenziosi. Il cattocomunismo non seppe scaldare il cuore della gente, semmai ebbe solo l'effetto di spaccare in due clero e laicato in inutili e sterili contrapposizioni, frutto di un pesante e astruso intellettualismo tanto avulso dalla realtà quotidiana della gente quanto asserito portatore di democrazia e libertà. In verità non di democrazia e libertà si fece portatore quanto di demagogia e libertinismo. Le sue conseguenze pratiche furono una pastorale dell'incontro e della comunione senza Dio, una catechesi senza memoria, una liturgia arida e senza affettività, una fede senza mistero, in una dinamica ecclesiale rinchiusa in un orizzonte angusto divenuto ormai solo terreno. Fu questa la sua principale eredità: il grande vuoto di valori che spianerà la strada agli anni bui del terrorismo ideologico e al triste fenomeno della tossicodipendenza.
Piccoli segni di grandi errori: l'abito talare per la partita di calcio, ossia come ridicolizzare l'abito e svilire lo sport.
Una disciplina talvolta disumana e la mancanza di equilibrio nella formazione umana del clero contribuirono ad
aggravare pesantemente la grande defezione degli anni '60
Dalla parrocchia alla sezione di partito
Il tentativo di far incontrare cristianesimo e marxismo ebbe, ovviamente, effetti pratici nell'impegno e nelle scelte politiche dei cattolici con conseguenze anche estreme. Fu cosí che gran parte del mondo cattolico fu attirato, in quegli anni, dalla sinistra. Il cattocomunismo ingrossò le file dei marxisti mentre molto difficilmente fece nuovi cattolici praticanti. Non pochi furono quelli che si fecero ammaliare dal comunismo, fino a scavalcare a sinistra i vecchi compagni di una volta. Basti pensare alla sorte che ebbe in Italia la CISL, sindacato tradizionalmente cattolico, quando si uní ai due sindacati di sinistra, la CGIL e la UIL. Mai la CISL prese posizioni tali da porsi in contrasto con la CGIL e la UIL al fine di ribadire la sua identità cattolica. Che dire poi dell'analogo rischio corso dalle ACLI e in certi periodi perfino dall'Azione Cattolica? Basti pensare che essa, la piú importante organizzazione laicale del mondo cattolico, che tanta importanza aveva avuto nei decenni precedenti per quanto riguarda l'impegno politico e sociale dei credenti, passò dai tre milioni di iscritti del 1960 a un milione e 657.000 iscritti nel 1970, e infine a soli 635.000 iscritti nel 1975!
Ma il caso piú eclatante di impegno politico a sinistra è forse proprio quello delle ACLI, le Associazioni cristiane dei lavoratori. Nate nel 1945 su iniziativa di Pio XII per controbilanciare l'influenza dei comunisti nelle fabbriche, le ACLI avevano un compito anzitutto formativo e ricreativo. Nel 1959 potevano contare su un milione e mezzo di aderenti e il loro giornale, Azione sociale, era uno dei piú diffusi periodici italiani. Negli anni Sessanta, gli aclisti divennero ufficialmente una corrente della Democrazia Cristiana, chiamata Rinnovamento. Fu al congresso di Torino del 1969 che le ACLI proclamarono la fine del "collateralismo" con la Democrazia Cristiana e ruppero ogni legame con essa. Nel 1970 fecero l'opzione socialista confluendo in parte nell'MPL (Movimento politico dei lavoratori), una formazione che divenne il punto di raccolta, in politica, dei cattolici del dissenso ma che ebbe però vita breve, non riuscendo ad ottenere il tanto sperato consenso elettorale.
La Conferenza Episcopale Italiana negò alle ACLI il diritto di proclamarsi movimento cattolico e nella primavera del 1971 la Santa Sede le sconfessò ufficialmente. Il risultato fu una scissione dalla quale nacque il Movimento cristiano dei lavoratori (MCL). Le ACLI rimaste confermarono nel febbraio del 1972 (nel congresso di Cagliari) la scelta di classe, chiedendo la fine del sistema capitalistico, l'autogestione e la proprietà socialista dei mezzi di produzione. Nel 1974, al referendum sul divorzio, la maggioranza delle ACLI si schierò a favore della "libertà di scelta" disobbedendo al richiamo della gerarchia ecclesiastica.
In quegli anni nacque anche un altro movimento di cattolici di sinistra, quello dei CPS, Cristiani per il socialismo. In realtà esso nacque in Cile nel 1971, come gruppo d'appoggio al governo di Salvador Allende. In Italia approdò nel 1973 raccogliendo le adesioni della sinistra aclista e della CISL. Uno dei suoi leader fu dom Giovanni Franzoni.
Mao: una delle figure mitiche nel mondo giovanile degli anni '60.
La storia rivelerà tutta l'inconsistenza di questo e di molti altri "miti"
Il caso dom Franzoni
Dom Giovanni Franzoni, monaco benedettino, era all'epoca abate della basilica di San Paolo fuori le Mura, in Roma, e reggeva ad instar episcopi (a modo di vescovo) la relativa diocesi. Dom Franzoni si pronunciò piú volte contro la proprietà privata e si schierò, all'epoca del referendum, a favore della legge sul divorzio. Nel 1974 venne sospeso a divinis. Dom Franzoni continuò per anni a rimproverare alla Chiesa di essere il supporto del sistema capitalistico e di ispirarsi a modelli di potere oppressivo, contrapponendovi l'immagine di una chiesa carismatica, impegnata nella lotta di classe di ispirazione marxista. Venne cosí a concepire una Chiesa a sfondo prevalentemente sociale, con caratteristiche spiritualistiche, astratte e soggette al relativismo morale e religioso, secondo il mutare dei tempi. Alla fine venne dimesso dallo stato clericale il 2 agosto 1976, dopo essersi pronunciato addirittura a favore della legalizzazione dell'aborto aderendo pubblicamente all'ideologia comunista.
Gli anni della confusione ecclesiale
La contestazione non toccava purtroppo le sole scelte politiche. Per la Chiesa quelli furono anni di confusione generale. Le basi stesse della fede, come già detto, vennero messe in discussione: fiorirono catechismi, come il Catechismo olandese, che solo pochi anni prima sarebbero stati considerati decisamente eretici, e la stessa liturgia fu rivoluzionata anche - e soprattutto - a livello di base, in un ribaltone di cui la Messa con le chitarre e l'Eucaristia "con cibi alternativi" furono solo alcuni degli aspetti fra i piú fantasiosi.
La confusione era dovuta in buona parte ai teologi del dissenso, ad alcuni biblisti, esegeti, liturgisti e pastoralisti, sia vescovi che sacerdoti, che tentarono di adattare il Vangelo ad una visione ingenuamente ottimistica della modernità e a tutto ciò che in quel momento contraddistingueva il mondo in una continua rincorsa alle tesi d'avanguardia, espressione di un cristianesimo "illuminato". Fu un'epoca di drammatici pasticci teologici, che avvicinarono molte persone alle posizioni di certe chiese protestanti e che hanno portato a scelte socialmente devastanti come quelle del divorzio e dell'aborto. Quello di quegli anni fu un gigantesco abbaglio, fu come un triste innamoramento - quello fra cattolicesimo e comunismo - passato il quale si poté constatare tutta la bruttezza del partner che ci si illudeva di poter amare per sempre.
Di fronte alla novità di un'epoca che irrompeva, anche una parte della gerarchia ecclesiastica vacillò rimettendo tutto in discussione, facendo autocritiche spesso inopportune, inseguendo una modernità tanto luccicante quanto intrinsecamente povera e disperata. Nel 1978 Emanuele Samek Lodovici ha scritto: «Che cosa fece il cattolicesimo ufficiale? Inventò la crisi del proprio schema, la crisi della propria cultura; si sentí coinvolto in una dissacrazione, quella inizialmente scatenata dalla contestazione, nei confronti della quale non aveva nessuna ragione per credersi oggetto. Forse che la tecnologia forsennata, la mercificazione dell'amore, la cultura professorale, la distruzione dei piccoli mestieri, la criminalità, l'abbrutimento pubblicitario, l'infame devastazione della natura, erano un portato o una conseguenza del cristianesimo? [...] Nella Chiesa si credette che le urla dei contestatori fossero la vox populi e si trasferí la crisi del pensiero laico all'interno del proprio mondo, e quel mondo entrò effettivamente in crisi. [...] Si scambiò la mancanza di rigore nel riproporre integralmente la dottrina cristiana sulla società, come un atteggiamento di "moderazione", come un atteggiamento "positivo"; si giustificò il fatto di non dire tutta la verità con il rifiuto che l'interlocutore prestava ad essa. [...] Non si ebbe il coraggio di essere fino in fondo se stessi».
Se la Chiesa avesse saputo resistere forse, invece che essere travolta dal Sessantotto, sarebbe stata riscoperta nella sua saggezza e nella sua dimensione profetica. Quella concezione di modernità che affascinò la Chiesa e non pochi padri conciliari, talvolta con un entusiasmo da neofita, oggi non esiste piú: tutto lo charme de l'année 2000 è finito da un pezzo. Ecco perché nel "saper aspettare" che ha sempre caratterizzato la Chiesa è nascosta una profonda saggezza. Oggi, l'uomo moderno, non vive piú nel mito liberista e comunista del progresso otto-novecentesco, non aspira piú alla megalopoli ma alla conservazione della natura, non sogna piú i grattacieli ma il tessuto urbano a dimensione umana. Paradossalmente lo stesso Sessantotto fu, almeno in parte, il tentativo di recuperare dei valori perduti. Quei valori - ma anche quella Tradizione - che la Chiesa aveva sempre tenacemente difeso e che in quegli anni aveva stranamente perso di vista.
La vera resistenza
Uno dei fenomeni piú significativi di resistenza a questo sfacelo epocale fu la nascita di Comunione e Liberazione (CL), sorta nel 1970 ad opera di don Luigi Giussani. In un momento in cui molti cattolici abbandonavano la fede o teorizzavano il suo nascondimento, CL coagulò attorno a sé quei cattolici che vollero continuare ad essere presenti nella società senza rinunciare - anzi proclamandolo - al magistero autentico della Chiesa. Anche in questo caso non mancarono contraddizioni e tentennamenti perché il rovesciamento operato dall'ideologia marxista, in una sorta di preteso messianismo, faceva sí che le sue prospettive fossero recepite come la sola speranza che l'umanità potesse avere. Tutto il resto, vale a dire tutto ciò che non nasceva da essa, non aveva valore e non poteva aver luogo, specialmente il cristianesimo. Un giorno un gruppetto di tre o quattro universitari cattolici insorse con un volantino davvero rivoluzionario e anticonformista. Erano in tre o quattro soltanto ma non furono picchiati a sangue. Quel volantino era intitolato «Comunione e liberazione». Fu solo l'inizio incerto di un risveglio che in un secondo momento avrebbe portato ad una rinascita delle coscienze.
Una scivolata inevitabile
Dopo questa rapida carrellata sorge spontanea una domanda: il Sessantotto, almeno a livello ecclesiale, poteva essere evitato? La risposta a questa domanda non può che essere negativa, a causa di tutta una serie di fattori sociali e politici. Il mondo, negli anni '60, usciva veramente dal dopoguerra ed entrava in un'era di benessere economico senza precedenti nell'intera storia umana. Davanti a quelle generazioni si apriva un futuro di speranza quale non era mai stato concepito. Era un'epoca di esaltazione accesa per la modernità e per il progresso; un'epoca impregnata da un ottimismo tanto ingenuo quanto convinto: fu un'epoca in cui si toccò - anche fuor di metafora - la Luna. I testi conciliari, pur nella loro prudenza, sono impregnati da questo ottimismo, da questo senso rinnovato della dignità umana per il quale però la società, inclusa quella ecclesiale, non era, né poteva essere - ancora matura. La Chiesa stessa, dopo l'epoca di Pio XII, usciva da un modo di concepire l'autorità e l'obbedienza in modo pressoché assoluti, perinde ac cadaver, dove il dialogo era pressoché sconosciuto. Si viveva secondo uno stile di libertà, quale non era forse mai stato concepito prima, ma senza ancora saperlo gestire, proprio come accade dopo un lungo periodo di tirannia. E proprio dalla tirannia, infatti, quel mondo era appena uscito: la tirannia feroce di due guerre mondiali che avevano infranto il sogno dorato della belle époque; la tirannia del fascismo e del nazismo, con lo spauracchio emergente del comunismo; la tirannia della povertà e della fame che per parecchi anni - specie nel dopoguerra - aveva offerto solo miserie, lutti, sofferenze e umiliazioni senza fine.
Anche il cinema di questo periodo fu specchio fedele di quei cambiamenti che registrò talvolta attraverso una satira feroce, cogliendone tutti i lati negativi fatti di pregiudizi, di provincialismo, di ipocrisia e di opportunismo. Emblematici in questo senso sono gli spaccati della società italiana resi magistralmente, per esempio, da Pietro Germi in Divorzio all'italiana; da Steno in Un americano a Roma - ritratto dell'italiano tipico di quegli anni - da Dino Risi in Il sorpasso. Era umanamente possibile non cedere al fascino della novità, della libertà a piene mani su tutti i fronti e della contestazione? No, il '68 e i suoi sbandamenti furono inevitabili. In una società ormai votata solo al benessere e al consumismo la contestazione fu anche un anelito ai valori dello spirito, ma un anelito ben presto strumentalizzato da interessi politici ed economici enormi, superiori ad ogni umana possibilità. In un'epoca di forte bipolarismo, in cui tutto veniva fagocitato in una colossale logica di contrapposizione, anche la strumentalizzazione era pressoché inevitabile.
Manifestazione studentesca nel 1968: inizia la lottizzazione politica della scuola pubblica
Epilogo
I moti del 1968 non si esaurirono in se stessi, furono la premessa di quelli del 1977, benché questi ultimi non pare abbiano avuto diritto di cittadinanza nelle rievocazioni e nei libri di storia. Forse la differenza di attenzione è motivata dal fatto che il '68 fu un fenomeno mondiale mentre il '77 fu un fenomeno principalmente italiano, dunque meno rilevante. Ma forse c'è stato anche, da parte di molti, una sorta di tentativo di rimozione. Il movimento del 1977 non ha goduto - a parte le prese di posizione di certi intellettuali - della benevolenza e degli ammiccamenti che erano stati elargiti, nove anni prima, ai sessantottini: i protagonisti del '77 erano dei veri proletari e non figli della borghesia, come furono nella stragrande maggioranza, gli universitari del '68.
I contestatori del 1977 vennero rimossi anche perché la loro devastante violenza, in molti casi palesemente complice del peggiore estremismo, rappresentò un fantasma ingombrante per una sinistra che prima aveva predicato la lotta di classe e la rivoluzione, poi aveva detto che la rivoluzione non la si doveva fare piú, anche perché ormai la sinistra era entrata dentro il sistema e partecipava ai giochi di potere. Pur nelle loro differenze, le due proteste sono strettamente legate fra loro, anzi sono l'inizio e la fine del medesimo avvenimento.
Del Sessantotto, i "settantasettini" hanno pagato gli errori piú evidenti: se prima c'era una scuola vecchia e imbalsamata, dopo, quella stessa scuola, era pressoché inconsistente, trasformata grazie alla logica sessantottina del "sei politico" e degli esami di gruppo in una fabbrica di disoccupati. Posti di fronte a una crisi economica piú grave di quella di nove anni prima, i giovani del 1977 faticavano a trovare lavoro, e si accorgevano che nemmeno impegnandosi a fondo in un'università ormai fatta a pezzi potevano sperare di emanciparsi. Ma c'è un altro motivo - piú profondo, anche se forse meno evidente - per cui i giovani del 1977, ne siano o no consapevoli, sono state le vere vittime dal Sessantotto. Del Sessantotto hanno infatti ereditato la sconfitta piú grave, e cioè il nulla con cui si cercò di colmare un tragico vuoto esistenziale. Ad una generazione che non si accontentava degli idoli consumistici offerti dal mondo borghese il Sessantotto aveva offerto altri idoli, non meno fallaci.
Il movimento del 1977 cercò, pateticamente, di accreditarsi come gioioso, ironico, creativo, traboccante di allegria, e si inventò la retorica delle feste quale arma contro l'alienazione. In realtà il giovane del '77 - nonostante la perdurante regia marxista-leninista - nei cortei non urlava contro lo Stato o contro il capitalismo, e neanche contro il compromesso storico, ma, piú tragicamente, contro la sua noia e la sua disperazione. La nuova etica, tanto ricercata dal '68, non era mai nata, ma poiché quella vecchia, dello studio, del lavoro, della famiglia e della militanza venne ancor piú rifiutata, restò solo l'etica della morte. Ma quando la vita non ha piú alcun valore si è disposti anche a giocarla. Questa è l'etica in negativo che coinvolge, in modo piú o meno grave, intere fasce di giovani.
Non è un caso se gli eroinomani sono passati, in Italia, dai diecimila del 1976 ai settantamila del 1978. Non è un caso se fu proprio in quel 1977 che nacquero, prima in Inghilterra e poi un po' ovunque, quei movimenti "punk", "dark", "skin" che, fra l'altro, con una singolare liturgia funerea, evidentissima già nell'abbigliamento e nei simboli, incarnano il disagio sprofondando nel piú totale nichilismo. Cosí anche il '77 si dissolverà, dopo di che, resterà solo la lotta armata di un manipolo di uomini che continueranno a credere nella rivoluzione. Ma nelle strade e nelle piazze, piú niente. I ventenni del 1968 diventeranno i quarantenni che poi cominceranno a gestire la piú spietata, la piú egoista e la piú edonista delle società. Una contraddizione? A dire il vero l'eredità del Sessantotto pare tutta contraddire le attese di chi fu protagonista di quella protesta. Il Sessantotto voleva spazzare via il capitalismo, voleva edificare un uomo nuovo ed una società piú giusta ed egualitaria. Con la rivoluzione sessuale voleva liberare l'amore nei rapporti fra l'uomo e la donna. Voleva portare alla felicità una gioventú, che si sentiva sgomenta di fronte alla prospettiva di una vita borghese predeterminata, rivendicando il diritto di ciascuno a fare ciò che vuole, purché non si danneggino gli altri.
Cosí per ottenere tutto questo ha divelto quei residui valori tradizionali che, forse, erano proprio l'ultimo freno allo scatenamento della parte peggiore del capitalismo. La liquidazione della religiosità, del trascendente e, non ultimo, di un certo senso di parsimonia e di rinuncia, hanno portato all'esplosione del consumismo piú sfrenato. Il crollo di quelli che venivano chiamati "tabú sessuali" ha portato ad un'espansione senza precedenti del mercato della pornografia e ad un'impennata senza precedenti delle violenze a sfondo sessuale, ad onta del rispetto della dignità della donna. La caduta di quel saggio senso di sobrietà che imponeva moderazione nella ricerca del piacere, ha indotto una generazione, alla ricerca disperata della felicità, a cadere nella crudele e mortale schiavitú della droga. Pare proprio insomma che ogni speranza del Sessantotto si sia rovesciata nel suo contrario.
Ma questo, a ben pensarci, è stato il destino di tutti i tentativi umani di stabilire cosa sia il bene e cosa sia il male e di costruire in terra il paradiso. Di questi tentativi la storia dell'umanità ne è piena, e sono sempre, misteriosamente ma implacabilmente, falliti.
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Il dissenso contro e nella Chiesa