La resurrezione del corpo

La teologia del corpo nel pensiero di Giovanni Paolo II - V [*]

P. Giovanni Cavalcoli, O.P.

 

[Articolo inserito per gentile concessione dell’Autore]

 

 

 

 

 

Il mistero della risurrezione

La Sacra Scrittura - come insegna il Santo Padre - ci fornisce un «trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo» (E4). Esso è dato da tre passi o gruppi di passi biblici, nei quali Cristo fa riferimento:

I. «al principio», cioè allo stato di natura «integra» o edenica (Mt 19,3-9; Mc 10,2-12). Per questo il Papa si è richiamato anche ai primi capitoli del Genesi;

II. alla situazione dell’«uomo storico» o della natura decaduta, che costituisce lo stato presente dell’«uomo della concupiscenza» (Mt 5,27-32);

III. allo stato della finale reintegrazione della natura o della «risurrezione» (Mt 22,24-30; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40). I primi due articoli di questa serie sono stati prevalentemente dedicati al primo punto; gli altri due, al secondo punto; questo articolo è dedicato al terzo punto.

Le affermazioni evangeliche dei tre summenzionati passi sinottici «hanno - come rileva il Pontefice - un significato-chiave per la teologia del corpo» (E13), e piú in generale «la verità sulla risurrezione ebbe un significato-chiave per la formazione di tutta l’antropologia teologica, che potrebbe essere considerata semplicemente quale ‘antropologia della risurrezione’» (E16). Non è dunque possibile comprendere pienamente il pensiero di Papa Wojtyla sulla «teologia del corpo», senza una presentazione del commento che egli fa, in modo particolare, ai passi evangelici che abbiamo citato.

Come spiega il Papa, «la risurrezione, secondo le parole di Cristo riportate dai Sinottici, significa non soltanto il recupero della corporeità e il ristabilimento della vita umana nella sua integrità, mediante l’unione del corpo con l’anima, ma anche uno stato del tutto nuovo della vita umana stessa» (E14). Dopo queste parole, il Pontefice passa a sviluppare la tesi, cui abbiamo già accennato, della persistenza della distinzione sessuale nella risurrezione. Ci fermeremo in modo particolare, piú avanti, su tale tesi, che costituisce - a nostro giudizio - uno degli elementi piú originali dell’insegnamento pontificio sull’argomento da noi scelto in questi articoli. Sembra bene, tuttavia, preliminarmente, fermarsi a commentare il brano testé citato concernente il significato cristiano della risurrezione. Ciò infatti ci servirà per confutare un’interpretazione recente, che contrasta con l’insegnamento che ci è presentato dal Papa.

Il concetto della risurrezione è strettamente collegato con quello della morte: a seconda di come si concepisce il morire, avremo un determinato concetto del risorgere, giacché la risurrezione, nel suo significato piú stretto, non è altro che la ricostituzione o restaurazione di ciò che la morte ha distrutto; per cui anche il modo stesso del risorgere deve necessariamente corrispondere al modo col quale avviene la morte. Si capisce allora che ad un concetto errato del morire, non può che corrispondere un’idea errata della risurrezione.

Per comprendere allora il modo col quale il Santo Padre, con tutta la Tradizione cristiana, concepisce la risurrezione, partiremo da una breve riflessione su quello che ci sembra il modo esatto di considerare il morire dell’uomo. Sarebbe facile, peraltro, osservare a questo punto come a sua volta anche il morire dell’uomo non potrebbe essere rettamente inteso, se non partendo da un concetto valido della natura umana, dato che la morte non è altro che una distruzione o una «negazione» di detta «natura». È evidente, però, che se dovessimo arrivare a presupposti cosí lontani, il discorso diventerebbe eccessivamente prolisso; per cui ci sembra sufficiente fermarci alla considerazione del processo necrologico, tanto piú che non sarà difficile, parlandone, fare appunto riferimento alla costituzione ontologica dell’uomo.

 

 

Muore l’uomo, ma non tutto l’uomo

Esiste oggi, in campo esegetico e teologico, una tesi che, in nome di una concezione monistica dell’uomo e di una malintesa opposizione al «dualismo greco», tende praticamente a negare il dogma dell’immortalità dell’anima umana, razionale e spirituale. È la tesi, secondo la quale, con la morte, tutto l’uomo muore. Troviamo tale teoria nel Rahner, secondo il quale «la totalità della nostra esistenza e della nostra storia ci viene portata via e sottratta d’un sol colpo appunto attraverso quella che chiamiamo morte» [1]. Altrove egli afferma infatti che la dottrina dell’Antico Testamento «non guarda propriamente al di là della morte, per affermare contenutisticamente qualcosa su un “al di là” in quanto tale, bensí alla morte in se stessa per vederla in quella radicalità con cui essa pone fine alla vita dell’uomo intero» [2]. Se la morte concerne «tutto» l’uomo, anche la risurrezione, allora, non potrà che riguardare l’uomo tutto intero. Da qui tesi di Rahner, secondo cui il momento della risurrezione del corpo non è temporalmente separato dal momento della morte dell’individuo, cioè non concerne il «futuro», ma la storia presente e - per coloro che sono già morti - è addirittura un fatto del passato, dato che la «risurrezione» avverrebbe subito dopo la morte: «L’unico compimento totale dell’uomo quanto al ‘corpo’ e quanto all”anima’ subentra immediatamente con la morte, e la ‘risurrezione della carne’ e il ‘giudizio universale’ avvengono ‘lungo’ il corso della storia temporale del mondo, e due cose coincidono con la somma dei giudizi particolari dei singoli uomini» (Teol. dell’esp. dello Spirito, 558). Tutto l’uomo, anima e corpo, muore; ma, immediatamente dopo, tutto l’uomo, anima e corpo, risorge.

Non sarà difficile dimostrare come una simile interpretazione della morte e della risurrezione è in netto contrasto col pensiero del Papa e con l’autentica dottrina cattolica. Per questo, anche se si tratta di una tesi recente e che gode di una certa diffusione, vedremo come il Santo Padre non ne tiene conto e come anzi dal suo pensiero si possa e si debba ricavare la critica a quella tesi.

Se, come dice il Pontefice nel brano citato (E14), la risurrezione comporta «il ricupero della corporeità e il ristabilimento della vita umana nella sua integrità, mediante l’unione del corpo con l’anima», ciò suppone evidentemente la dottrina tradizionale secondo la quale la morte dell’uomo consiste nel processo per il quale l’anima «si separa» dal corpo, inquantoché, cessando di animare o informare la materia del corpo, essa «sopravvive» o continua a sussistere, mentre il corpo si dissolve.

La tesi di Rahner, tuttavia, ha una parvenza di verità, che, come in ogni errore, è ciò che attrae e nello stesso tempo inganna l’intelletto, naturalmente fatto per la verità. Sarà bene allora riconoscere l’elemento di verità, liberandolo però nello stesso tempo dal modo con cui, nella tesi rahneriana, esso ingenera l’equivoco.

Non c’è dubbio che l’idea stessa della morte implica un passaggio dall’esistenza alla non-esistenza dell’individuo. Di un individuo che è morto, si può ben dire, col linguaggio comune, che «non c’è piú». Certamente, col morire, io perdo quell’essere che mi viene da Dio e che solo Lui può darmi. Io, come individuo, non esisto piú. Ora, l’atto dell’esistere, è certamente un atto semplice; è chiaro che quando esso cessa, cessa tutto. Una cosa o c’è o non c’è. La cosa, come tale, può essere scomponibile - ed in tal senso una parte può sussistere ed un’altra può deperire -; ma l’atto mediante il quale quella cosa «c’è» è un atto semplice: non si vede di che cosa dovrebbe essere composto. Per cui o c’è «tutto» o non c’è.

Ma un ente concreto finito, quale è l’individuo umano, non si risolve nel suo esistere: esso possiede un’essenza o «natura», che ne è realmente distinta. La composizione viene dall’essenza. Il morire non riguarda solo l’esistenza, ma anche l’essenza. Rahner, troppo preso dal suo esistenzialismo, non considera che il morire dell’uomo concerne anche l’ordine dell’essenza. Oppure si potrebbe dire che egli riduce l’essenza dell’uomo all’ordine esistenziale. Ora, poiché, come si è rilevato, l’atto di esistere è un «tutto» non scomponibile (o c’è o non c’è), si comprende perché per Rahner, col morire, è «tutto» l’uomo che muore. Egli non considera l’aspetto sintetico o compositivo dell’essere umano, cioè quella che è propriamente l’essenza o natura umana. Anche l’essenza e non solo l’esistere fa parte della realtà. La natura umana - come insegna la fede cattolica e ribadisce il Santo Padre (Cf. E14, 16, 17, 35; G11, 34) - risulta dalla composizione unitaria di due realtà, realmente distinguibili, tanto appunto da separarsi all’atto della morte: l’anima spirituale e la materia corporea.

Ora, il morire non è soltanto un cessare di essere (piano dell’esistenza), ma è anche scomposizione, disgregazione o dissoluzione dell’individuo nei suoi elementi o fattori materiali, i quali, nel momento in cui essi non vengono piú organizzati, unificati ed informati dall’anima, ritornano sotto il dominio della loro propria forma elementare (chimico-fisica) e se prima della morte componevano assieme un’unica sostanza (l’individuo vivente), ora, dopo la morte, ciascuno di essi torna sotto la propria forma sostanziale (chimico-fisica) e da un’unica sostanza (il vivente) si passa ad un insieme di sostanze (il cadavere).

Il morire non può essere concepito - come fa Rahner soltanto in termini di annullamento. Col morire, certamente, l’atto di esistere dell’individuo passa dal piano della realtà a quello della semplice possibilità o pensabilità. Tuttavia, del soggetto concreto, in quanto composto da elementi essenziali, non si può dire che non resti nulla. «Non omnis moriar» (non morirò tutto), aveva già detto il grande poeta Orazio (Carm., III,30,6). Ora vogliamo porre la sapienza della Scrittura al di sotto di quella dei pagani che seppero vincere la tentazione del materialismo? Orazio pensava e sperava di «sopravvivere» nella fama dei posteri. La Scrittura, letta non da Rahner, ma dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa - ribaditi da Giovanni Paolo II -, ci insegna molto di piú: è un qualcosa di sostanziale che sopravvive alla dissoluzione del corpo: è l’anima razionale e spirituale, «forma sostanziale» del corpo umano. Abbiamo già accennato in un precedente articolo a questa dottrina cattolica sull’anima umana, riportando i piú significativi insegnamenti dei Concili che hanno trattato la questione.

Dell’individuo umano che muore, resta dunque vivente l’anima da una parte, e resta il cadavere dall’altra; due entità entrambe realissime ed esistenti, anche se poste su due piani di realtà o di esistenza assai diversi tra loro: assai misterioso, quello dell’«anima separata»; empiricamente verificabile, quello del corpo senza vita.

Muore tutto il corpo umano; ma non muore tutto l’uomo. Perdendo la sua forma umana, nulla, nel corpo, può sopravvivere di formalmente umano, se non una sembianza che si sbiadisce sempre piú mano a mano che avanza il processo di corruzione del cadavere. Il corpo umano è certamente l’uomo stesso. Tuttavia, al momento della morte, i due concetti non coincidono piú, perché vengono illuminati da due differenti punti di vista: mentre il corpo perde la sua forma umana; l’uomo perde il suo corpo. Quale, allora il risultato? Non può che essere a sua volta differente: mentre, nel corpo umano, di «umano» non resta nulla; qualcosa resta o sopravvive, dell’uomo: ciò appunto che fa si che il suo corpo sia umano, la «forma umana», l’anima spirituale. L’aspetto di verità, dunque, della tesi rahneriana, sta:

1. nel riferimento all’atto di esistere;

2. nella considerazione dell’uomo come corpo umano, quello che il Papa - come abbiamo visto nel primo articolo - ha chiamato l’«uomo-corpo» (A,19, 26, 27).

L’insufficienza della tesi sta invece nella illegittima riduzione - di stampo esistenzialistico-materialistico - dell’essere umano alla pura dimensione dell’esistere materiale concreto, che certamente fa parte dell’essere umano, ma che è ben lontano dall’esaurirne la realtà e la specificità. Ed il tentativo ancor piú sorprendente ed illegittimo è la pretesa di avallare quella tesi con l’autorità della Sacra Scrittura, la quale invece presenta, tra i punti piú elevati del suo insegnamento sapienziale - per concorde riconoscimento di tutta l’autentica tradizione cristiana - il concetto che, con la morte, non tutto l’uomo muore, ma «qualcosa» di umano - di sostanzialmente umano - sopravvive: è ciò che il Magistero infallibile della Chiesa, valendosi dell’apporto della sapienza greca, ha definito essere l’«anima spirituale, forma sostanziale del corpo».

 

 

«Saranno come angeli nei cieli» (Mc 12,25).

Il mistero cristiano della risurrezione non si esaurisce nella reintegrazione o ricostituzione della natura umana - della quale abbiamo parlato in precedenza né, tanto meno, è limitato al fenomeno - sia pur sempre miracoloso - della rianimazione di un cadavere che torna alle condizioni della vita presente e mortale (pensiamo ad esempio ai miracoli di Cristo e dei Santi). Il Santo Padre, nel brano citato (E14), afferma invece come tale mistero comporti anche «uno stato del tutto nuovo della vita umana stessa» (ibid.). Di che si tratta? Si tratta, sostanzialmente, di due cose:

1. la risurrezione «futura» o escatologica comporta l’immortalità del corpo, a differenza, quindi, dalle «risurrezioni» prodotte miracolosamente nella vita presente, per le quali il corpo resta mortale:

2. la risurrezione finale comporta inoltre il fatto che il corpo risorto partecipa, in qualche modo, della stessa «gloria» della visione beatifica dell’Essenza divina. È questo un punto delicato, che si cercherà di chiarire.

Il primo punto è espresso dalla prospettiva di divenire simili agli «angeli nei cieli» (Mc 12,25); il secondo invece corrisponde alla pienezza della figliolanza divina (Cf. Lc 20,36). Il che equivale a dire, come afferma il Pontefice, che «lo stato dell’uomo nell’altro mondo’ sarà non soltanto uno stato di perfetta spiritualizzazione, ma anche di fondamentale ‘divinizzazione’della sua umanità» (E19).

La «spiritualizzazione» dell’uomo, caratteristica della risurrezione finale, non comporta una «trasformazione della natura dell’uomo in quella angelica, cioè puramente spirituale» (E15). Se Dio ha creato l’uomo, secondo il detto del Salmista - osserva il Papa - di poco inferiore agli angeli (Cf. Sal 8,6; E17), la somiglianza a questi esseri celesti diverrà ancora maggiore, «non attraverso una disincarnazione dell’uomo, ma mediante un altro genere (si potrebbe anche dire: un altro grado) di spiritualizzazione della sua natura somatica - cioè mediante un altro «sistema di forze» all’interno dell’uomo. La risurrezione significa una nuova sottomissione del corpo allo spirito» (E16).

La «spiritualizzazione» significa che lo spirito «permeerà pienamente il corpo, e che le forze dello spirito permeeranno le energie del corpo» (E18). Ciò corrisponderà peraltro alla piena perfezione dell’essere umano, la quale «non può consistere in una reciproca opposizione dello spirito e del corpo, ma in una profonda armonia tra loro, nella salvaguardia del primato dello spirito» (E19).

Quanto invece alla «divinizzazione» dell’uomo, propria della risurrezione finale, il Papa afferma che essa sarà «incomparabilmente superiore a quella raggiungibile nella vita terrena» (E19) mediante la grazia. «La partecipazione alla natura divina, la partecipazione alla vita interiore di Dio stesso, penetrazione e permeazione di ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò che già essenzialmente divino, raggiungerà allora il suo vertice. Questa nuova spiritualizzazione sarà quindi frutto del comunicarsi di Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima, ma a tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo. Parliamo qui della ‘soggettività’ (e non solo della ‘natura’), perché quella divinizzazione va intesa non soltanto come uno ‘stato interiore’ dell’uomo (cioè: del soggetto), capace di vedere Dio a faccia a faccia ma anche come una nuova formazione di tutta la soggettività personale dell’uomo a misura dell’unione con Dio nel suo mistero trinitario e dell’intimità con lui nella perfetta comunione delle persone» (E19-20).

Caratteristica del corpo, nella futura risurrezione, sarà quella di risentire, sia pure a suo modo, della glorificazione della anima illuminata dalla visione beatifica e diretta dell’Essenza unica del Dio trinitario. Questa tesi, che si trova già in S. Agostino [3], è ripresa e chiarita da S. Tommaso [4], il quale spiega come la «spiritualizzazione» escatologica del corpo risorto lo lascia sempre nella sua natura sostanzialmente materiale, incapace, come tale, di percepire la realtà spirituale - e tanto piú quella soprannaturale-divina -; e tuttavia, grazie alla perfettissima unità psicosomatica dalla quale sarà caratterizzato l’essere umano nelle condizioni celesti-escatologiche, la visione beatifica - in se stessa spirituale - avrà uno speciale riflesso (per noi quaggiú assai misterioso) nelle stesse potenze sensitive, sí da affinarle e renderle consone allo spirito in una maniera elevatissima, sconosciuta all’uomo che vive nella condizione terrena.

Il Santo Padre illumina i temi della spiritualizzazione e divinizzazione escatologiche del corpo con un richiamo al c. XV della I Lettera ai Corinzi, dove appunto S. Paolo delinea, con varie espressioni, le condizioni dell’uomo della risurrezione, il quale è «uomo celeste» (I Cor 15,49, E38), «corpo incorruttibile, glorioso, pieno di forza» (I Cor 15,42-43; E41), «corpo spirituale» (I Cor 15,44).

«La glorificazione del corpo, - continua poi il Papa - quale frutto escatologico della sua spiritualizzazione divinizzante, rivelerà il valore definitivo di ciò che dal principio doveva essere un segno distintivo della persona creata nel mondo visibile, come pure un mezzo del reciproco comunicarsi tra le persone e un’autentica espressione della verità e dell’amore, per cui si costruisce la communio personarum. Quel perenne significato del corpo umano, a cui l’esistenza di ogni uomo, gravato dall’eredità della concupiscenza, ha necessariamente arrecato una serie di limitazioni, lotte e sofferenze, allora si svelerà di nuovo, e si svelerà in tale semplicità e splendore insieme, che ogni partecipante dell’’altro mondo’ ritroverà nel suo corpo glorificato la fonte della libertà del dono. La perfetta ‘libertà dei figli di Dio’ (Cf. Rm 8,14) alimenterà con quel dono anche ciascuna delle comunioni che costituiranno la grande comunità della comunione dei santi» (E29-30).

La risurrezione finale sarà in qualche modo un «ritorno alle origini», anche se nello stesso tempo ne sarà un superamento. E questo «ritorno» avverrà in quanto il filo che congiunge il «principio» (condizione edenica) alla «fine» (condizione escatologico-beatifica), questo filo - per quanto tenue ed assottigliato dal peccato - non si è spezzato. Questo «filo» è dato dalle condizioni della natura decaduta («uomo storico»), la quale, per quanto ferita e indebolita dal peccato e dalla concupiscenza, tuttavia non è completamente distrutta, ma conserva qualche vestigio delle origini, del «principio», per cui essa può e deve essere germe e precorrimento della «fine» o della perfezione escatologica. Le «risurrezioni» che avvengono nella vita presente sono un inizio ed una «caparra» della risurrezione futura.

 

 

La teoria di Rahner contro lo «stato intermedio»

Come abbiamo già accennato, Rahner propone una teoria della risurrezione, secondo la quale essa non avviene al termine della storia presente, ma durante il suo stesso corso, cioè immediatamente dopo la morte dell’individuo, sicché egli vuol «far coincidere l’aspetto collettivo dell’escatologia nella risurrezione dei morti con la beatificazione escatologica individuale, senza questo ‘intermedio’ nella cosa stessa, cioè senza un intermedio temporale» [5]. Egli cioè nega che si debba ammettere un intervallo di tempo o «stato intermedio» tra la morte dell’individuo e la sua risurrezione: essa invece, secondo lui, avviene immediatamente dopo la morte.

Rahner formula parecchie obiezioni contro la dottrina tradizionale, che a lui pare insostenibile. Cercheremo di raccogliere qui le principali, rispondendo con argomenti in contrario ricavabili dall’insegnamento di Papa Wojtyla. La difficoltà piú seria opposta da Rahner ci sembra possa riassumersi nella domanda che egli si pone: «Come possiamo concepire il tempo e la temporalità di un’anima separata»? [6] Come possiamo pensare il fatto che essa debba ancora «‘attendere’ di riassumere la propria funzione nei confronti del corpo»? (Ibid.). È come se ci chiedessimo: come possiamo concepire una «temporalità» nell’al di là, se il tempo è legato alla materia, e l’anima separata si suppone appunto separata dal corpo?

Altra obiezione interessante è quella che il teologo fa contro l’identità del corpo risorto con quello della vita presente. Questa obiezione, infatti, gli serve per sostenere che il cadavere del defunto non è il corpo che deve risorgere, ma il corpo della «risurrezione» sarebbe un altro, invisibile alla nostra esperienza terrena, che Dio crea immediatamente dopo la morte del soggetto, collocandolo in quell’al di là che sfugge ai nostri occhi mortali. In tal modo, Rahner crede di poter rispondere a chi volesse negare la sua tesi della risurrezione immediata, facendo notare l’esistenza del cadavere dopo la morte.

Rispondiamo a queste obiezioni.

Come concepire un’«attesa temporale» nell’anima separata? O in altre parole: come si può legare la categoria temporale del «futuro» ad un fatto cosí misterioso e trascendente come la “risurrezione”, la quale sta evidentemente al di là di tutta la storia terrena, all’interno soltanto della quale sembra possa darsi il tempo, con le sue categorie fondamentali di “passato”, “presente” e “futuro”? Se l’anima separata si trova al di fuori della nostra dimensione empirica e terrena, come pub essa trovarsi in un atteggiamento che sembra essere proprio ed esclusivo di un’anima che vive nel mondo presente, quale il fatto di “attendere un avvenimento futuro”?

Io credo che questo non sia un problema propriamente filosofico, per cui tali obiezioni, di tipo razionale, possano essere sufficienti a mettere in dubbio la tesi della risurrezione come avvenimento “futuro”. Questa tesi, infatti, è un dato rivelato. LaScrittura e la S. Tradizione si esprimono in questi termini: esse parlano di una risurrezione futura. Il problema, allora per l’uomo di fede (e si suppone che il teologo sia un uomo di fede), non è quello di contestare o mettere in dubbio il dato con argomenti tratti dalla riflessione razionale. Non è questo, nel caso, il compito della ragione. Suo compito, invece, è quello di chiedersi come dobbiamo intendere questa “attesa” delle anime ed il fatto che la resurrezione “debba ancora avvenire”, cioè sia un fatto del “futuro”.

La difficoltà di Rahner nasce, secondo noi, dal fatto che egli esagera il distacco o la diversità tra la storia presente e la condizione escatologica, tanto da eliminare qualunque rapporto o qualunque analogia. Una delle preoccupazioni costanti, invece, delle riflessioni del Santo Padre, come abbiamo già visto e vedremo ancora, è quella sí di lumeggiare la separazione tra la condizione dell’”uomo storico” da una parte, e quelle, trascendenti, del “principio” e della “fine”, ma senza rotture e senza dualismi, che supporrebbero una sostanziale irrecuperabilità del corpo umano cosí come lo conosciamo nella vita presente mediante l’esperienza e la ragione. Secondo la fede cattolica, cosí come ce la presenta Papa Wojtyla, è questo corpo che posseggo qui ed ora, che deve risorgere, e non un altro; del quale “altro” ci si potrebbe poi chiedere: da che cosa risorge? Si tratterebbe della creazione di una specie di “doppione”, piuttosto che di una vera e propria risurrezione.

D’altra parte, se esaminiamo il concetto stesso di “risurrezione”, ci accorgeremo che esso non è affatto estraneo all’idea di un processo temporale, ma anzi le è strettamente legato. Siccome è risurrezione di un qualcosa di materiale (il corpo), e il dinamismo della materia avviene nel tempo, a guardare bene le cose, non solo l’espressione “risurrezione futura” non ci sembrerà piú una contradictio in terminis, ma anzi un’espressione del tutto coerente, senza per questo perdere la carica di mistero che la caratterizza. Il Papa non affronta direttamente le obiezioni rahneriane; ma non è difficile ricavare dagli insegnamenti pontifici i principi per rispondervi: tali principi sono dati, come abbiamo detto, dalla frequenza con la quale il Pontefice insiste, per tutto il corso delle sue meditazioni, sulla fondamentale continuità (Cf. E13, 25, 26, 27, 29, 30) esistente tra il corpo umano dello stato d’innocenza, della condizione terrena e della risurrezione finale. Il concetto-chiave da tenere presente è che si tratta sempre, essenzialmente e sostanzialmente, del medesimo corpo informato dalla medesima anima, nonostante le vicende di innocenza, di peccato e di redenzione alle quali esso va soggetto, vicende che, per quanto incidano in profondità nell’uomo, tuttavia riguardano sempre e solo le condizioni di esistenza, senza mai alterare l’essenza del corpo e dell’anima. Ma anche qui il presupposto della metafisica esistenzialista, che riduce l’esistenziale allo strutturale, sembra giocare a Rahner un brutto scherzo.

La risurrezione è si un avvenimento - se vogliamo - “metastorico”; ma nello stesso tempo essa possiede saldi vincoli con la storia presente. Secondo l’insegnamento della dottrina cattolica, essa avviene alla conclusione della storia presente o - come si dice tradizionalmente - “alla fine del mondo”. Essa, da una parte, riassume e conclude l’evolversi del tempo ed il cammino progressivo della storia, e dall’altra inaugura i profetici “nuovi tempi” o il cammino dell’eternità. Si potrebbe forse dire che essa segna l’inizio di una “nuova storia”: la storia della vita, anziché della morte, come la storia di quaggiú. In tal senso, non deve far difficoltà vedere la risurrezione come un avvenimento “futuro”, anche se certamente essa non esaurisce la sua realtà nei limiti di quella categoria temporale, quasi che “dopo” di essa la storia presente continui come prima, con tutte le sue miserie e le sue tragedie. In tal senso, non esiste un “dopo” alla risurrezione futura, in modo simile al quale non esisteva un “prima” temporale all’atto col quale Dio ha creato il mondo. Se pensassimo cosí, cadremmo veramente nel “mitologico”, che anche Rahner si sforza giustamente - nelle sue intenzioni - di evitare.

Resta il problema di come l’anima separata possa “attendere” il futuro evento. In questo difficile problema, dobbiamo mantenere fermi due punti certi, e cercare quindi di conciliarli tra loro:

1. la risurrezione come avvenimento futuro;

2. le anime separate non vivono nella nostra dimensione storica.

Dobbiamo per questo ritenere che le anime dei defunti non abbiano una loro “storia” e che non abbiano alcun rapporto con la nostra storia? Questo non direi assolutamente, per vari motivi, tratti sia dalla Rivelazione: per esempio il Purgatorio; sia dalla Tradizione: la distinzione che si fa tra “giudizio particolare” e “giudizio universale”; sia dalla Liturgia: le preghiere per i defunti; sia dalla vita dei Santi: i rapporti da essi avuti con anime di defunti. Credo inoltre che la teologia e la filosofia possano elaborare, per questa tesi, dei buoni argomenti di convenienza, approfondendo il concetto del “tempo”, che non va inteso - a mio giudizio - soltanto legato alla materia, ma che può e deve avere un nesso assai stretto anche col dinamismo dello spirito umano, anche nelle condizioni di separazione dal corpo.

Purtroppo non c’è spazio qui per sviluppare tutti questi punti, che ci porterebbero fuori tema. Sia sufficiente fermarsi, in questa sede, sul principio della “continuità” sviluppato dal Santo Padre. Esso ci permette di rispondere anche all’altra obiezione importante di Rahner: l’impossibilità, che egli afferma, di una continuità del corpo terreno col corpo risorto, soprattutto in considerazione delle posizioni attuali della “filosofia della natura” [7]. Non è ben chiaro a quale filosofia della natura egli si riferisca: quella tomista, per esempio, non creerebbe alcuna seria difficoltà.

L’identità del corpo terreno con quello glorificato si salverebbe, secondo Rahner, solo qualora si potesse ammettere con certezza che “una qualche particella materiale” del primo verrebbe a ritrovarsi nel secondo. Ora, un fatto del genere contrasterebbe con la facile constatazione sia del “metabolismo radicale” che dell’evoluzione cosmica.

Ora qui Rahner sembra dimenticare completamente che l’identità dei due corpi non va assolutamente ipotizzata come l’effetto di una qualche legge naturale di conservazione dei corpi, ma come puro e semplice effetto della potenza di Dio. Nessuno nega l’esistenza del metabolismo basale e dell’evoluzione cosmica, ma se - fino a prova contraria - la potenza del “Dio dei vivi” sa vincere i processi di corruzione della materia, non si vede chi o che cosa, nella natura, dovrebbe impedire all’onnipotenza divina di ricostituire la creatura materiale che è andata soggetta a corruzione.

L’anima umana, separandosi dal corpo, non perde la sua radicale capacità di informare quel dato corpo, secondo quelle date disposizioni informanti che Dio le ha dato. Al momento della risurrezione, l’anima umana riceve da Dio una tale potenza vivificante ed informante, che essa diventa capace di dominare una data porzione della materia cosmica (preesistente o appositamente creata da Dio), cosí da renderla soggetto di un corpo umano, il quale essendo informato dalla medesima anima che animò il corpo terreno, non può a sua volta non essere sostanzialmente il medesimo, sia pure in condizioni d’esistenza del tutto nuove e trascendenti.

Il dogma cristiano della “risurrezione dei (o dai) morti” significa allora che i morti, cioè i corpi dei defunti riprendono vita e - laddove tali corpi non esistono piú - l’anima, per la potenza di Dio, informa nuovamente una porzione di materia ricostruendosi il proprio corpo. Che poi questa porzione di materia sia la medesima di quella del corpo terreno, ciò non ha alcuna importanza o alcun interesse ai fini della conservazione dell’identità del corpo, perché tale identità non dipende, fondamentalmente, dal fatto che si sia conservata la medesima porzione di materia, ma dal fatto che una data porzione di materia (non importa quale) riceve la medesima informazione di quella ricevuta dal corpo terreno. La porzione di materia resta pressoché la medesima per i morti dei quali si è conservato il cadavere, perché saranno quei cadaveri a risorgere (come avviene nelle risurrezioni infraescatologiche). Per quanto riguarda gli altri morti, resterà sempre la cosa essenziale: che l’anima informerà un corpo sostanzialmente (anche se non materialmente) identico al precedente. Se la discontinuità materiale avviene già per il metabolismo basale e ciò non ci fa mettere in dubbio l’identità del nostro corpo, perché mettere in dubbio tale identità nell’eventuale discontinuità che si verificasse per noi al momento della risurrezione finale?

E Gesú, perché ha lasciato - come ci dice la fede - per tre giorni il suo corpo nel sepolcro, se non per condividere una condizione a noi tutti comune, e mostrarci che è precisamente da quella condizione di miseria e di abiezione, e non assumendo chissà quali corpi celesti, che noi, col nostro corpo, e non con un impossibile duplicato celeste, risorgiamo per una vita divina, immortale e gloriosa? Il caso della Vergine Santissima, checché ne dica Rahner [8], è e resta un privilegio unico della Madonna, come afferma Pio XII nello stesso documento nel quale egli proclama il dogma dell’assunzione.

Anche il fatto narrato dai Vangeli della scomparsa del corpo di Gesú dal sepolcro è chiaramente da essi inteso come segno che egli è risorto, non nel senso rahneriano che Dio abbia creato un duplicato celeste del corpo, ma nel senso che è lo stesso corpo che era nel sepolcro, che è risorto ed appare agli uomini.

 

 

  A sua immagine li formò

Il Signore creò l'uomo dalla terra e ad essa lo fa tornare di nuovo.
Egli assegnò agli uomini giorni contati e un tempo fissato, diede loro
il dominio di quanto è sulla terra. Secondo la sua natura li rivestì
di forza, e a sua immagine li formò (Sir 17,1-2)

 

 

 

 

 

L’uomo e la donna nella risurrezione

Secondo l’insegnamento del Santo Padre, il principio di “continuità” tra il corpo mortale ed il corpo risorto non si limita all’affermazione dell’identità corporea individuale senza ulteriori specificazioni. La “Rivelazione del corpo” e la conseguente “teologia del corpo”, secondo lui, ci suggeriscono di andare oltre, affermando anche la permanenza, nella risurrezione, della stessa distinzione sessuale (e quindi parasessuale) tra uomo e donna.

Questa tesi non è una novità nella storia della teologia cattolica. Essa si trova già chiaramente espressa e sostenuta da S. Tommaso d’Aquino, che riprende un suggerimento di Agostino, e che si oppone in ciò ad una tesi del primo cristianesimo - in particolare dei Vangeli apocrifi -, secondo la quale la femminilità, considerata allora come un “difetto”, non può essere presente nel corpo risorto, che deve godere di ogni perfezione. Per questo vi era la tesi secondo cui la donna si salva e può giungere alla risurrezione soltanto diventando maschio [9].

Tommaso respinge nettamente questa teoria, che egli considera irriguardosa nei confronti della dignità del sesso femminile, anche se egli pure - come è stato rilevato oggi da numerosi studi - si mostra, per altri aspetti, condizionato dalla disistima della femminilità caratteristica del mondo antico, e che fa sentire il suo influsso persino nella mentalità dell’agiografo della Scrittura, soprattutto dell’Antico Testamento. Ho cercato modestamente di presentare il pensiero di S. Tommaso su questo punto in alcuni studi, ai quali mi permetto di rinviare il lettore [10].

L’insegnamento di Giovanni Paolo II non riprende esplicitamente le tesi tomiste, ma sostiene sostanzialmente la stessa dottrina, ampliandola ed approfondendola mediante la considerazione della tonalità sessuale dell’”immagine di Dio” (caratteri parasessuali: un aspetto dell’argomento quasi del tutto assente dagli scritti di S. Tommaso, e che è venuto in luce soprattutto nei tempi successivi, cominciando a trovare un autorevole riconoscimento nel Magistero di Pio XII [11].

Commentando il brano dei Sinottici che abbiamo già citato (Mt 22,30; Mc 12,25; Lc 20,35), il Santo Padre afferma che “le parole pronunziate da Cristo sulla risurrezione ci consentono di dedurre che la dimensione di mascolinità e femminilità cioè l’essere nel corpo maschio e femmina - verrà nuovamente costituita insieme con la risurrezione del corpo nell”altro mondo’” (E15). Come giunge il Papa a questa conclusione?

Egli rileva innanzitutto come il matrimonio, “unione propria dell’uomo fin dal ‘principio’, appartiene esclusivamente ‘a questo mondo’. Il matrimonio e la procreazione non costituiscono invece il futuro escatologico dell’uomo” (E13), dato che nell’”altro mondo” vi sarà “la chiusura quantitativa di quella cerchia di esseri, che furono creati ad immagine e somiglianza di Dio, affinché moltiplicandosi attraverso la coniugale ‘unità nel corpo’ di uomini e donne, soggiogassero a sé la terra” (E13-14).

Tuttavia, secondo quanto si è già detto nei precedenti articoli, l’assenza dell’esercizio della sessualità-genitalità nella risurrezione non priva della sua ragion d’essere l’esistenza della stessa distinzione sessuale, in quanto connessa con la «dimensione personale della soggettività umana” (F35), che evidentemente raggiunge la sua pienezza alla risurrezione.

“Il significato originario e fondamentale di essere corpo spiega il Pontefice (E28) -, come anche di essere, in quanto corpo, maschio e femmina - cioè appunto quel significato ‘sponsale’ - è unito al fatto che l’uomo viene creato come persona e chiamato alla vita ‘in communione personarum’. Il matrimonio e la procreazione in se stessa non determinano definitivamente il significato originario e fondamentale dell’essere corpo né dell’essere, in quanto corpo, maschio e femmina. Il matrimonio e la procreazione danno soltanto realtà concreta a quel significato nelle dimensioni della storia. La risurrezione indica la chiusura della dimensione storica. Ed ecco che le parole “quando risusciteranno dai morti... non prenderanno né moglie né marito” (Mc 12,25)... ci consentono di dedurre che quel significato ‘sponsale’ del corpo nella risurrezione alla vita futura corrisponderà in modo perfetto sia al fatto che l’uomo, come maschio e femmina, è persona creata a ‘immagine e somiglianza di Dio’, sia al fatto che questa immagine si realizza nella comunione delle persone” (cf. anche A90).

Per evocare questo significato spirituale della differenza sessuale - tale da giustificare la sua permanenza nella risurrezione -, il Santo Padre ama riprendere la già nota espressione “eterno femminino” (C654, 718), la quale però, alla luce della sua riflessione sulla Scrittura e sulla moderna concezione della sessualità, non si limita ad un semplice significato poetico, ma assume una vera e propria pregnanza teologica. E cosí pure egli ama parlare di “eterna attrazione dell’uomo verso la femminilità” (C655, 656) e di “perenne e reciproca attrazione della mascolinità e della femminilità” (C719). Essa è fondata sulla “naturale complementarità che esiste fra l’uomo e la donna» (G19), e che non concerne soltanto le finalità procreative proprie del matrimonio, ma, piú profondamente, è destinata ad attuarsi, al di là del tempo, nell’eternità, secondo una reciprocità spirituale (parasessuale), che è modello ultimo e trascendente dell’amore coniugale e punto di riferimento proprio ed immediato della “verginità per il Regno dei cieli”.

 

 

Matrimonio e verginità alla luce della risurrezione

Come avevamo preannunciato nel precedente articolo, concludiamo questo nostro studio riprendendo brevemente il tema della castità coniugale e della castità consacrata, che pure abbiamo già presentato in quell’articolo. Lo facciamo per sottolineare il rapporto stretto che il Papa instaura tra la virtú di castità e la condizione della vita immortale del corpo risorto, offrendoci cosí - a nostro giudizio - non solo un approfondimento della teologia della risurrezione, ma anche una motivazione ulteriore dei principi etici che regolano ed ispirano la “redenzione del corpo”, ossia la dinamica morale del corpo nella vita presente.

Se la considerazione del “principio” genesiaco pone le basi e le ragioni della creazione del corpo umano maschile e femminile, nonché le leggi fondamentali del suo dinamismo storico e terreno - ciò che S. Paolo chiama il “corpo animale” (I Cor 15,44-49), divenuto mortale a causa del peccato (Rm 8,11; I Cor 15,50; II Cor 5,1 s; Fil 3,21; Eb 13,3) -, la considerazione del corpo risorto “alla fine dei tempi” ci illumina in pienezza sulla prospettiva finale del piano divino soprannaturale della redenzione e della divinizzazione del corpo (il “corpo spirituale”: I Cor 15,35-57). È in base dunque alla teologia della risurrezione che l’ethos cristiano del corpo riceve la finalità ultima del suo agire e conseguentemente le tappe terrene, intermedie, del suo cammino di redenzione e di salvezza. Le riflessioni del Santo Padre, che abbiamo cercato di seguire fino ad ora, ci mettono cosí sotto gli occhi la vastità pressoché sconfinata e la prospettiva di immensa grandezza che la morale cattolica apre alla realtà ed all’azione del corpo umano maschile e femminile. Altro che manicheismo, “dualismo” o disprezzo del corpo e del sesso! Abbiamo invece una visuale grandiosa, che ci mostra come lo spiritualismo cattolico - quello vero -, realista ed integrale, non esalta lo spirito a spese della materia per delle forme gnostiche di ultraspiritualismo che sono poi la maschera di un materialismo inconfessato. I commenti che abbiamo cercato modestamente di esporre alle parole del Papa si sono precisamente proposti di mostrare come è nella visuale di un autentico spiritualismo - quello cristiano-cattolico -, che il corpo umano riceve la sua massima esaltazione e la sua vera glorificazione.

La prospettiva della risurrezione orienta decisamente ed irreversibilmente il corpo umano maschile e femminile nel senso della vita. Essa dona a tutta la lunga storia del corpo umano, sempre travagliata, quaggiú, dalle forze del peccato, del male e della morte, un’incoercibile speranza che rende l’uomo capace di valicare i dati pur inconfutabili dell’esperienza non per evadere nella fantasia del sogno utopistico né per abdicare alle sue responsabilità verso questo mondo, alienando la propria dignità e la propria potenza nella reificazione di idoli immaginari, ma proprio perché quella speranza si fonda sulla conoscenza oggettiva e certa dei “segni” di una potenza di Vita trascendente ed operante nel mondo dell’esperienza, di un’esperienza, s’intende, illuminata dalla luce dell’intelletto.

Matrimonio e verginità, alla luce della risurrezione, mostrano - nel pensiero del Papa - tutta la forza di un invincibile movimento dell’uomo verso la vita, nella lotta vittoriosa contro la morte, laddove le filosofie pagane, anche le piú spiritualistiche, lasciano immancabilmente il corpo umano nell’”ombra della morte”, ai margini della realtà, nell’ambito della pura apparenza per non dire dell’illusione. E si sa come le stesse filosofie materialistiche, che vorrebbero vantare il primato nell’esaltazione e nella “liberazione” dell’”uomo-corpo”, si arrestino impotenti ed agnostiche davanti al mistero ed alla realtà della morte, soffocando nell’uomo il bisogno della trascendenza, e facendo della morte un ingranaggio logico e necessario del divenire insuperabile della storia e del tempo.

Nel pensiero di Giovanni Paolo II, l’attività sessuale, nel rispetto degli ordinamenti del Creatore, diventa, in quanto manifestazione dell’amore coniugale, espressione della libera e volontaria autodonazione totale della persona alla persona del coniuge (cf. H 111, 114, 171, 226, 240, 262); l’atto sessuale non può lecitamente essere altro che atto coniugale, perché solo cosí esso esprime la verità di un amore orientato verso la vita e non verso la morte (cf. G33); il valore centrale della persona creata ad immagine di Dio (H111, 158; c. II, nn. 12-15; G33, 34) illumina tutta la dinamica della sessualità, in modo tale che se il primato dello spirito comporta l’”umiltà del corpo” (H159), proprio questa “umiltà” è quella che consente al corpo di raggiungere la gloria della immortalità; il valore stesso dell’unità, dell’indissolubilità e della fecondità dell’amore coniugale trae una luce ed una forza decisiva, nel pensiero del Papa, dall’anelito insopprimibile alla vita eterna ed alla risurrezione proprio dell’anima cristiana, sollevata dall’energia delle virtú teologali e dei doni dello Spirito Santo. Il matrimonio è un ideale di santità, perché la sostanza fondamentale del suo essere comporta un amore indistruttibile, di carattere spirituale, che al di là delle periture funzioni genitali-procreative, trova la sua pienezza nella risurrezione escatologica (cf. G57-60; H204). In tal modo, il matrimonio allarga il suo valore ed il suo irraggiamento, nella sua sostanza perenne, non solo verso il “principio”, ma anche verso la “fine” (cf. A91, 111, 112; F16, 19; G18).

Cosí pure la verginità, senza perder nulla del suo valore ascetico, che troviamo anche in religioni non-cristiane, riceve, nel pensiero del Santo Padre, la sua luce decisiva dalla considerazione della risurrezione finale, che la vede come il compimento supremo e definitivo del significato sponsale del corpo e dell’aspetto personalistico della dimensione maschile-femminile dell’essere umano (cf. E20, 23; F12).

La verginità cristiana, “per il regno dei cieli”, ben lungi dal mortificare la sana vitalità del corpo maschile-femminile, e proprio mediante la sua severa e dolce disciplina, è in realtà tutta un inno alla vita, tutta una tensione indefettibile alla vita che non muore e che fruttifica in un’inesauribile fecondità di vita. La “superiorità” della verginità nei confronti del matrimonio è anch’essa, nel pensiero cristiano di Papa Wojtyla, la testimonianza di una fede invincibile nel trionfo della vita, perché se il matrimonio chiude la sua attività generativa nei limiti di questa vita mortale, la verginità consacrata allarga gli spazi della sua fecondità spirituale verso le prospettive sconfinate della vita eterna (cf. F20, 21, 23; H242).

 

 

 

 

 

 

[*] I precedenti articoli in “Sacra Doctrina”, 6 (1983) 605 ss.; 3-4 (1984) 302 ss.; 5 (1984) 443 ss.; 6 (1984) 443 ss. Le citazioni sono prese, come per gli articoli precedenti, dalle seguenti fonti bibliografiche, che, per comodità, rappresenteremo con una sigla, alla quale segue il numero della o delle pagine:

Sigla A: Discorsi dal 5/IX/79 al 9/IV/80. Sono citati dall’edizione a cura della Libreria Editrice Vaticana, che va sotto il titolo: “L’amore umano nel piano divino” (1980).

Sigla B: Discorsi dal 16/IV/80 al 25/VI/80. Si trovano in: “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, 1980, vol. III-1.

Sigla C: Discorsi dal 23/VII/80 all’8/X/80. Idem come sopra; vol. III-2.

Sigla D: Discorsi dal 15/X/80 all’8/IV/81. Sono citati dalla Collana “Magistero” delle Edizioni Paoline, N. 68 (1981).

Sigla E: Discorsi dall’11/XI/81 al 10/I/82. Idem come sopra, N. 86 (1982).

Sigla F: Discorsi dal 10/III/82 al 5/V/82. Idem come sopra, N. 87 (1982).

Altre fonti meno pertinenti, e tuttavia citate:

Sigla G: Esortazione Apostolica “Familiaris consortio”, Edizioni Dehoniane, Bologna 1981.

Sigla H: «Amore e responsabilità”, Edizioni Marietti, Torino 1978.

Sigla J: “Persona e atto”, Libreria Editrice Vaticana, 1982.

Altre pubblicazioni del Santo Padre saranno citate per esteso.

 

 

 

1) Cristologia oggi, in Teologia dell’esperienza dello Spirito, Ed. Paoline 1978, 446.

2) Il morire cristiano, in Dio e Rivelazione, Ed. Paoline 1981, 350; cf. anche 351: “La radicalità... del Vecchio Testamento pone fine con la morte alla vitadi tutto l’uomo”.

3) De Civitate Dei, PL XLI, 798.

4) Sum. Theol., Suppl., q. 92, a. 2: tale “riflesso” consisterà nel fatto che i sensi percepiranno la gloria di Dio “in corporibus, et praecipue gloriosis, et maxime in corpore Christi».

5) Teol. dell’esp. dello spirito, 563.

6) Ibid.

7) Teol. dell’esp. dello spirito, 565.

8) Teol. dell’esp. dello spirito, 568.

9) Cf. per es. ORIGENE, Commentaire sur Saint Jean, II, in Sources Chrétiennes, n. 157, 27.

10) La condizione della sessualità umana nella risurrezione secondo S. Tommaso, in “Sacra Doctrina”, 92 (1980) 121-146; La donna secondo S. Tommaso d’Aquino, in Problemi di Storia e di Vita sociale, a cura della Pont. Università S. Tommaso, Ed. Massimo, Milano 1982, 121-139; La risurrezione della sessualità secondo S. Tommaso, in L’uomo e il mondo nella luce dell’Aquinate, Atti dell’VIII Congresso tomistico internazionale, Libreria Editrice Vaticana, vol. VII, 1982, 207-219.

11) Il problema femminile,a cura dei monaci di Solesmes, Paoline, Roma 1958.

 

 

 

 

 

Cfr. CAVALCOLI G., La resurrezione del corpo. La teologia del corpo nel pensiero di Giovanni Paolo II - V, in Sacra Doctrina, 1 (1985-XXX), 82-103.

 

I testi originali sono reperibili anche nel sito Web dedicato allo studio del pensiero filosofico e teologico del Servo di Dio Padre Tomas Maria Tyn, O.P.

 

N. B. Le immagini presenti in questa pagina non fanno parte del testo originale.