Per legittima difesa si intende una forma di autotutela concessa al soggetto che, agendo per difendere se stesso o altri da un'offesa ingiusta, trovandosi nell'impossibiltà di ricorrere all'autorità pubblica è costretto a reagire con la forza contro l'aggressore. La legge non punisce chi agisce per legittima difesa purché vi sia la necessità di difendersi, essendo il pericolo inevitabile, e la reazione sia proporzionata all'offesa; non è quindi colpevole di omicidio chi uccide il proprio aggressore se non ha altro modo per difendere la propria vita. In ogni caso, colui che ha subito l'aggressione ha il dovere di rivolgersi all'autorità giudiziaria per denunciare il fatto.

L'omicidio è un grande male che purtroppo può essere reso inevitabile da circostanze cogenti. In tutti i sistemi etici, che l'uomo sia considerato "immagine di Dio" (cfr. Gen 1,27) con tutta la densità teologico-morale che questa espressione comporta, o che sia considerato come riferimento etico essenziale emerge un dato: il valore inestimabile della sua vita.

Si danno tuttavia dei casi in cui è ammessa un'eccezione a questa legge universale che riassumiamo nel comandamento "non uccidere". Non uccidere sta ad indicare appunto la "non disponibilità" della vita della persona umana (concetto caratteristico del magistero di Giovanni Paolo II, specie nella Evangelium vitae). Nessuno di noi è padrone degli altri e arbitro dei suoi diritti inalienabili. Uccidere significa negare ad un uomo il diritto di restare uomo fra gli uomini: questo è il culmine dell'odio, del volere il male dell'altro. Ecco perché nella concezione cristiana questo comandamento si estende fino a diventare ben piú profondo e radicale:

«Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22).

L'eccezione al comandamento "non uccidere" è quella che chiamiamo appunto "legittima difesa". È un concetto questo che tocca la vita individuale ma anche quella sociale. Legittima difesa significa che colui che si difende dall'ingiusto e violento aggressore trovandosi costretto, per evidente necessità, ad ucciderlo non commette propriamente un omicidio. È significativo che il diritto penale italiano, per esempio, non parli di liceità, ma solo di non punibilità della legittima difesa (art. 52: non punibile quando sussista il pericolo in atto di un'offesa ingiusta al diritto proprio o altrui e quando essa sia proporzionale all'offesa o alla minaccia).

L'ingiusto e violento aggressore che per primo viola il diritto altrui alla vita per il fatto stesso perde il medesimo diritto. San Tommaso tuttavia, per giustificare la legittima difesa, ha preferito il principio del duplice effetto (S. Th. II-II, q. 64, a. 7) a quello della disponibilità della vita dell'aggressore:

1) bontà o almeno indifferenza morale dell'azione in sé,

2) onestà del fine,

3) non dipendenza dell'effetto buono da quello cattivo,

4) ragione proporzionatamente grave.

Quella di San Tommaso tuttavia si rivela una soluzione insufficiente. Nella realtà l'aggredito vuole o accetta almeno consapevolmente la possibilità che l'esito effettivo della propria difesa sia la morte dell'aggressore. Neanche la tesi di B. Schüller circa l'utilità sociale e l'effetto deterrente della legittima difesa può risolvere il problema. Come giustificare moralmente la legittima difesa dunque?

La legittima difesa non è mai vendetta. L'odio o il desiderio di vendetta (S. Th. II-II, q. 108) sono impulsi naturali e in quanto tali non possono mai, come ogni altro impulso, essere ritenuti di per sé malvagi fino a quando l'individuo non giunga ad una valutazione e ad una scelta morale in tal senso: l'odio o il desiderio di vendetta possono convertirsi in odio voluto, come c'è pure la possibilità che si tramutino in amore per la giustizia.

Nella dinamica dell'azione della legittima difesa si assiste sempre ad una violazione, almeno oggettiva, dell'ordine della giustizia da parte dell'aggressore. Viceversa l'impulso di chi si decide per la propria o per l'altrui difesa (caso quest'ultimo ancora piú evidente) può essere fondamentalmente motivato solo dal senso del dovere, che incombe su ogni uomo, di evitare che il male si compia.

La legittima difesa sussiste, è bene ripeterlo, solo prima che l'aggressore porti a compimento il suo progetto e solo se si dà la possibilità di farlo fallire; essa perciò non può giustificare nessuna ritorsione vendicativa o alcuna inutile crudeltà, dato che è finalizzata non a punire l'aggressore, ma solo a farlo desistere.

È chiaro che si può parlare di legittima difesa solo a patto che vi siano le seguenti condizioni:

1) presenza di un'ingiusta e violenta aggressione,

2) assenza di premeditazione,

3) condizione di estrema necessità.

È evidente che se per difendersi è sufficiente ferire l'aggressore non si può piú parlare di legittima difesa, cioè non si può piú giustificare l'uccisione dell'aggressore. Naturalmente vanno tenute in debita considerazione anche le condizioni soggettive dell'aggredito, come la paura, l'esasperazione, etc... che possono spingerlo a compiere piú facilmente un gesto estremo.

Deve essere chiaro che il difensore non ha alcun diritto sulla vita dell'aggressore; può però avere il dovere di troncarla, se questo è l'unico modo ragionevolmente possibile, in un contesto concreto, per impedire che l'aggressione si compia e che l'ingiustizia si realizzi.

Il fatto che per evitare che un progetto omicida si concretizzi si debba ricorrere ad un omicidio può essere un paradosso difficile da accettare. Ma è un paradosso non diverso dai tanti che sorgono quando si considerano le problematiche alle quali va incontro la nostra vita.

Anche la libertà entra in una dialettica analoga quando per essere preservata chiede di essere limitata: questo è il paradosso del diritto come pure dell'educazione. Chi si difende non commette propriamente un omicidio cosí come non commette sequestro di persona il poliziotto che arresta il ladro, cosí come non commette violenza il papà che punisce giustamente un figlio cattivo.

È importante anche capire che nella legittima difesa ciò che importa non è solo il bene da difendere, ma anche il principio per cui lo si difende. La difesa potrà anche fallire e l'aggressore magari realizzerà comunque il suo scopo, ma colui che si difende oppure - a maggior ragione - che difende un altro innocente testimonierà con la sua azione che il male non deve vincere e sotto questo profilo emergerà sempre come vincitore dal confronto con l'aggressore (sicuramente molto piú di chi per paura o per opportunismo cede all'aggressore, consentendogli di portare a compimento il suo crimine).

«Oggi comincia a definirsi un dovere permanente: quello di aiutare le vittime innocenti che sono incapaci di difendersi dalle terribili conseguenze dei conflitti, come la fame e le malattie. Il mondo attuale rimane paralizzato davanti alla sofferenza di migliaia di innocenti, vittime di interessi ai quali essi sovente sono estranei. Sono queste tragedie che fanno sorgere il problema del dovere di intervenire in favore di popolazioni che non hanno i mezzi per assicurarsi la sussistenza:

"Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno piú il "diritto all'indifferenza". Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci. I principi della sovranità degli Stati e della non-ingerenza nei loro affari interni - che conservano tutto il loro valore - non devono tuttavia costituire un paravento dietro il quale si possa torturare e assassinare. È di questo, infatti, che si tratta. Certo, i giuristi dovranno studiare ancora questa nuova realtà e definirne i contorni".

Infatti, la definizione del diritto dei popoli a un'assistenza umanitaria potrebbe condurre a una nuova formulazione del concetto di sovranità. Senza ledere questo principio, si deve trovare il modo di poter difendere le persone, ovunque si trovino, contro i mali di cui esse sono soltanto vittime innocenti» (PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Il commercio internazionale delle armi. Una riflessione etica, LEV, Città del Vaticano 1994, 12-13).

 

 

 

 

 

La rinuncia alla difesa

 

C'è un altro modo di testimoniare che il malvagio non deve vincere: è quello di non opporgli resistenza. L'esortazione evangelica a non opporsi al malvagio (cfr. soprattutto Mt 5,38-41: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. lo invece vi dico di non resistere al male...») va riferita alla necessaria estinzione dello spirito di odio e di vendetta che il cristiano deve sempre favorire.

Nella rinuncia alla vendetta e alla difesa c'è un appello alla perfezione, non un orientamento etico assolutamente e comunque vincolante in ogni circostanza. È un'esortazione che però deve insinuare in noi una riflessione, una domanda: la rinuncia alla difesa, in questo caso particolare, può essere preferibile alla difesa stessa? Senza dubbio la rinuncia alla difesa ha una straordinaria carica profetica (ne è una prova storica, ad esempio, l'azione politica di Gandhi) purché non venga presa ottusamente quasi fosse imposta da un precetto incondizionato al di là di ogni riferimento al contesto esistenziale concreto.

La rinuncia alla difesa è doverosa se induce l'aggressore a desistere dal compiere il male; non lo è se, per esempio, diventa un incentivo ad ulteriori crudeltà. L'insegnamento evangelico è davvero forte: l'opinione comune ritiene che la violenza possa trovare un limite solo nella violenza, esso proclama invece esattamente il contrario: «Vinci il male con il bene» (Rm 12,21). Il porgere l'altra guancia non può essere frutto di timidezza o di paura ma solo rivendicazione della propria identità, testimonianza del primato del bene sul male. «Quando l'aggredito sia tale precisamente per il suo essere cristiano o per motivi collegati alla sua testimonianza di fede... il dovere aperto di testimonianza ci sembra imporre in ogni caso la rinuncia alla difesa pur legittima. Infatti, quando è supremamente doverosa la testimonianza, allora tale dovere prevale su ogni diritto, anche su quello alla vita: e... la testimonianza della non resistenza al male è testimonianza della vittoria della verità sulla violenza» (E. Chiavacci). Questa testimonianza, però, per essere autentica, non può essere resa comunque e dovunque: deve essere il frutto di un'opzione prudente.

Se tale rinuncia, in un contesto concreto, comporta oggettivamente un'ulteriore diffusione del male, essa, anziché doverosa, può al contrario essere ritenuta colpevole (lo Stato, per esempio, a motivo dei suoi compiti istituzionali, non può certamente porgere "l'altra guancia", è tenuto invece a fare un "uso etico della forza"). Se la rinuncia all'autodifesa può essere moralmente accettabile non altrettanto si può dire della rinuncia alla difesa altrui: rinunciando volutamente a difenderci, possiamo supporre il valore oggettivo che il nostro atto potrà avere agli occhi dell'aggressore; rinunciando a difendere un altro uomo ingiustamente aggredito il nostro gesto non verrà certamente recepito in modo positivo. Possiamo rinunciare a difendere noi stessi ma non gli altri. Ecco a cosa è chiamato il militare, colui che serve in armi lo Stato. Egli non indossa un'uniforme per se stesso ma per gli altri. Egli è il difensore di una collettività e delle sue legittime istituzioni.

Scrive San Tommaso che i buoni devono sopportare pazientemente i malvagi per ciò che li riguarda personalmente: «ma [...] essi non sopportano le ingiurie commesse contro Dio e il prossimo» (S. Th. II-II, q. 108, a. 1, ad 2). Il vero nocciolo del problema della legittima difesa non riguarda insomma il giudizio da dare sull'azione difensiva in quanto tale, per quanto violenta essa possa essere, ma il giudizio da dare sugli effetti che l'azione difensiva può effettivamente produrre.

 

 Terremoto in Alaska (1964)  Disordini del maggio francese (1968)

Terremoto in Alaska (1964) e disordini del maggio francese (1968)

 

Eventi come una catastrofe naturale o gravi disordini sociali innescano situazioni estremamente pericolose che possono

richiedere l'intervento dell'autorità militare e l'applicazione di misure straordinarie come la legge marziale e il coprifuoco

 

 

 

 

La legge marziale e la difesa dell'ordine pubblico

La legge marziale è una legge interna, emanata da ciascuno Stato nel proprio ordinamento giuridico allo scopo di regolare la propria condotta nel caso di conflitto armato. La legge marziale viene talvolta applicata anche in caso di gravi disordini interni assimilabili, per le loro conseguenze, ai conflitti esterni. La legge marziale è un'arma a doppio taglio, per cui non può usata con leggerezza dall'autorità costituita, salvo in caso di assenza di valide alternative.

La legge marziale può essere instaurata in tutte quelle circostanze in cui sia necessario riportare rapidamente l'ordine, come in caso di gravi calamità naturali, epidemie, o altri eventi che possano turbare gravemente l'ordine pubblico e in questi casi viene accettata di buon grado dalla popolazione, benché limiti seriamente l'esercizio delle libertà individuali. Nei casi suddetti tuttavia la legge marziale è l'unica possibilità di garantire l'ordine e la sicurezza sociale prevenendo cosí crimini ed eccidi di gravità spesso inaudita.

Non è raro purtroppo il caso in cui anche per consentire l'arrivo dei soccorsi e degli aiuti umanitari sia necessario ristabilire militarmente l'ordine salvaguardando anche con la forza le strutture essenziali alla pubblica convivenza.

Mai come in questi casi estremi è essenziale favorire al meglio l'operatività dello strumento militare. Nessun Paese può lottare in modo efficace contro i nemici interni ed esterni se le proprie Forze armate non mantengono un morale alto, nella certezza che ci sia un vantaggio collettivo, anche etico, nel continuare a combattere. Solo le organizzazioni criminali agiscono solamente per se stesse approfittando del disordine e delle pubbliche calamità, tanto piú quanto queste sconvolgono l'ordine sociale.

In linea generale la legge marziale può essere utilizzata come extrema ratio, per poi essere sospesa non appena la situazione può essere nuovamente gestita dalle Forze dell'ordine a ciò ordinariamente deputate.

Alla legge marziale si applicano in parte le stesse regole etiche stabilite per la legittima difesa e - soprattutto - le regole etiche relative alla guerra. La difesa del bene comune esige che si ponga ogni ingiusto aggressore in condizioni di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità.

«In un mondo segnato dal male e dal peccato, esiste il diritto alla legittima difesa mediante le armi. Questo diritto può diventare un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile. Soltanto questo diritto può giustificare il possesso o il trasferimento delle armi. Non è tuttavia un diritto assoluto; esso è accompagnato dal dovere di fare il possibile per ridurre al minimo, fino ad eliminarle, le cause della violenza. C'è un'esigenza altrettanto grave: II rispetto e lo sviluppo della vita umana richiedono la pace. Per assicurare al proprio popolo questo bene della pace, lo Stato non può accontentarsi di provvedere alla propria difesa. Lo Stato, insieme con tutti i suoi cittadini, ha anche l'obbligo imperioso di adoperarsi per garantire le condizioni della pace, non soltanto sul proprio territorio ma in tutto il mondo» (PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Il commercio internazionale delle armi. Una riflessione etica, LEV, Città del Vaticano 1994, 11-12).

 

 

**

 

 

 

 

 Respingere gli aggressori

I legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere

gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità

 

 

 

 

 

 

 

IL MAGISTERO ECCLESIASTICO E LA LEGITTIMA DIFESA

Testo del C.C.C.nn. 2263-2265

 

 

La legittima difesa

2263

La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un'eccezione alla proibizione di uccidere l'innocente, uccisione in cui consiste l'omicidio volontario. «Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l'altro è l'uccisione dell'attentatore... Il primo soltanto è intenzionale, l'altro è involontario».

2264

L'amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale: Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita... E non è necessario per la salvezza dell'anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l'uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di piú a provvedere alla propria vita che alla vita altrui.

2265

La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l'ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità.

 

 

 

 

 

IL MAGISTERO ECCLESIASTICO E LA GUERRA

Testo del C.C.C.nn. 2301-2317

 

III. La difesa della pace

 

 

La pace

2302

Richiamando il comandamento: «Non uccidere» (Mt 5,21), nostro Signore chiede la pace del cuore e denuncia l'immoralità dell'ira omicida e dell'odio. L'ira è un desiderio di vendetta. «Desiderare la vendetta per il male di chi va punito è illecito»; ma è lodevole imporre una riparazione «al fine di correggere i vizi e di conservare il bene della giustizia» (S. Th. II-II, 158, 1, ad 3). Se l'ira si spinge fino al proposito di uccidere il prossimo o di ferirlo in modo brutale, si oppone gravemente alla carità; è un peccato mortale. Il Signore dice: «Chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,22).

2303

L'odio volontario è contrario alla carità. L'odio del prossimo è un peccato quando l'uomo vuole deliberatamente per lui del male. L'odio del prossimo è un peccato grave quando deliberatamente si desidera per lui un grave danno. «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste...» (Mt 5,44-45).

2304

Il rispetto e lo sviluppo della vita umana richiedono la pace. La pace non è la semplice assenza della guerra e non può ridursi ad assicurare l'equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l'assidua pratica della fratellanza.

2305

La pace terrena è immagine e frutto della pace di Cristo, il «Principe della pace» messianica (Is 9,5). Con il sangue della sua croce, egli ha distrutto «in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,16; Col 1,20-22), ha riconciliato gli uomini con Dio e ha fatto della sua Chiesa il sacramento dell'unità del genere umano e della sua unione con Dio. «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14). Proclama «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).

2306

Coloro che, per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, rinunciano all'azione violenta e cruenta e ricorrono a mezzi di difesa che sono alla portata dei piú deboli, rendono testimonianza alla carità evangelica, purché ciò si faccia senza pregiudizio per i diritti e i doveri degli altri uomini e delle società. Essi legittimamente attestano la gravità dei rischi fisici e morali del ricorso alla violenza, che causa rovine e morti (GS 78).

 

 

Evitare la guerra

2307

Il quinto comandamento proibisce la distruzione volontaria della vita umana. A causa dei mali e delle ingiustizie che ogni guerra provoca, la Chiesa con insistenza esorta tutti a pregare e ad operare perché la Bontà divina ci liberi dall'antica schiavitú della guerra (GS 81).

2308

Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (GS 79).

2309

Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente:

- Che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo.

- Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci.

- Che ci siano fondate condizioni di successo.

- Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini piú gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione.

Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della «guerra giusta». La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune.

2310

I pubblici poteri, in questo caso, hanno il diritto e il dovere di imporre ai cittadini gli obblighi necessari alla difesa nazionale. Coloro che si dedicano al servizio della patria nella vita militare sono servitori della sicurezza e della libertà dei popoli. Se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono veramente al bene comune della nazione e al mantenimento della pace (GS 79).

2311

I pubblici poteri provvederanno equamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l'uso delle armi; essi sono nondimeno tenuti a prestare qualche altra forma di servizio alla comunità umana (GS 79).

2312

La Chiesa e la ragione umana dichiarano la permanente validità della legge morale durante i conflitti armati. «Né per il fatto che una guerra è... disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto» (GS 79).

2313

Si devono rispettare e trattare con umanità i non-combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongono, sono dei crimini. Non basta un'obbedienza cieca a scusare coloro che vi si sottomettono. Cosí lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come un peccato mortale. Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un genocidio.

2314

«Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato» (GS 80). Un rischio della guerra moderna è di offrire l'occasione di commettere tali crimini a chi detiene armi scientifiche, in particolare atomiche, biologiche o chimiche.

2315

L'accumulo delle armi sembra a molti un modo paradossale di dissuadere dalla guerra eventuali avversari. Costoro vedono in esso il piú efficace dei mezzi atti ad assicurare la pace tra le nazioni. Riguardo a tale mezzo di dissuasione vanno fatte severe riserve morali. La corsa agli armamenti non assicura la pace. Lungi dall'eliminare le cause di guerra, rischia di aggravarle. L'impiego di ricchezze enormi nella preparazione di armi sempre nuove impedisce di soccorrere le popolazioni indigenti (cfr. Paolo VI, lett. enc. Populorum progressio, 53); ostacola lo sviluppo dei popoli. L'armarsi ad oltranza moltiplica le cause dei conflitti ed aumenta il rischio del loro propagarsi.

2316

La produzione e il commercio delle armi toccano il bene comune delle nazioni e della comunità internazionale. Le autorità pubbliche hanno pertanto il diritto e il dovere di regolamentarli. La ricerca di interessi privati o collettivi a breve termine non può legittimare imprese che fomentano la violenza e i conflitti tra le nazioni e che compromettono l'ordine giuridico internazionale.

2317

Le ingiustizie, gli eccessivi squilibri di carattere economico o sociale, l'invidia, la diffidenza e l'orgoglio che dannosamente imperversano tra gli uomini e le nazioni, minacciano incessantemente la pace e causano le guerre. Tutto quanto si fa per eliminare questi disordini contribuisce a costruire la pace e ad evitare la guerra: «Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma, in quanto riescono, uniti nell'amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina: «Con le loro spade costruiranno aratri e falci con le loro lance; nessun popolo prenderà piú le armi contro un altro popolo, né si eserciteranno piú per la guerra (Is 2,4)» (GS 78).

 

 

 

 

 

BREVE BIBLIOGRAFIA

 

 

BONDOLFI A., voce Pena di morte in Aa. Vv., Nuovo Dizionario di Teologia morale, Cinisello Balsamo, 19902, 914-922.

Catechismo della Chiesa Cattolica (C.C.C.), Città del Vaticano, 1992 (con testo emendato).

CHIAVACCI E., Morale della vita fisica, Bologna 1976.

D'AGOSTINO F., voce Omicidio e legittima difesa in Aa. Vv., Nuovo Dizionario di Teologia morale, Cinisello Balsamo, 19902, 822-830.

DAL SASSO G - COGGI R., Compendio della Somma Teologica di San Tommaso d'Aquino, Bologna 1989.

DALLA TORRE G., Assistenza spirituale nelle Forze armate e "qualità della vita", (Quaderni del "Bonus Miles Christi", serie dottrinale-didattica n. 5), Roma 1990.

DELLI SANTI M., Il nuovo diritto internazionale umanitario delle forze di pace, in Rassegna dell'Arma dei Carabinieri, 4 (2000), 7-52.

Deontologia professionale, a cura della Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri, Firenze 1999.

GIOVANNI PAOLO II, lett. enc. Evangelium vitae. Il valore e l'inviolabilità della vita umana, Milano 1995.

- , lett. enc. Veritatis Splendor, Città del Vaticano 1993.

GÜNTHÖR A., Chiamata e risposta. Una nuova teologia morale, III, Roma 19843.

MARRA G., L'esigenza della pace e della legittima difesa nei contenuti del nuovo Catechismo Universale della Chiesa Cattolica, in Aa. Vv., Conferenze - XLIV sessione - Quaderno 1992-1993, II, a cura del Centro Alti Studi per la Difesa, Roma 1993, 2, 1-18.

S.C.D.F., Donum vitae, in AAS, 80 (1988), 70-102.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il genocidio nel Rwanda: la tragedia di un popolo abbandonato nelle mani dei suoi carnefici

 

Timor Est: la liberazione di un popolo oppresso