Il documento «Kairos Palestina»

 

Un momento di verità: una parola di fede, speranza e amore dal cuore della sofferenza palestinese

 

 

 

Noi, gruppo di cristiani palestinesi, dopo aver pregato, riflettuto e esserci scambiati idee sulla sofferenza del nostro paese, sotto l’occupazione israeliana, facciamo udire il nostro grido, un grido di speranza, nell’assenza di ogni speranza, un grido colmo di preghiera e fede in Dio che sempre veglia, nella divina provvidenza, su tutti gli abitanti di questa terra. Ispirati dal mistero dell’amore di Dio per tutti, dal mistero della presenza di Dio nella storia di tutti i popoli e, in modo particolare, nella storia del nostro paese, pronunciamo la nostra parola di cristiani e palestinesi: una parola di fede, speranza e amore.

 

 

Perché ora?

Perché oggi la tragedia del popolo palestinese è giunta a un vicolo cieco. Coloro che hanno il potere di prendere decisioni si accontentano di gestire la crisi, piuttosto che impegnarsi seriamente a trovare un modo per risolverla. I cuori dei fedeli sono pieni di dolore e si chiedono: «cosa sta facendo la comunità internazionale? Cosa stanno facendo i leader politici in Palestina, in Israele e nel mondo arabo? Cosa sta facendo la Chiesa?». La questione non è solo politica. Si tratta di una politica che distrugge gli essere umani e tutto questo riguarda anche la Chiesa. Ci rivolgiamo ai nostri fratelli e sorelle, membri delle Chiese in questa terra. Gridiamo in quanto cristiani e in quanto palestinesi ai nostri leader religiosi e politici, alla società palestinese e a quella israeliana, alla comunità internazionale e ai nostri fratelli e sorelle cristiani nelle Chiese di tutto il mondo.

 

 

La realtà

«Dicono: “Pace, pace” dove non c’è pace» (Ger 6,14).

Oggigiorno tutti parlano di pace in Medio Oriente e del processo di pace. Tuttavia, finora, queste sono solo parole. La realtà è quella dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, la privazione della nostra libertà e tutto ciò che ne consegue. Il muro di separazione eretto nel territorio palestinese - e che ne ha confiscato una larga parte - ha trasformato le nostre città e i nostri villaggi in prigioni, separandoli l’uno dall’altro e rendendoli cantoni divisi e dispersi. Gaza, dopo la guerra cruenta che Israele ha scatenato nel dicembre 2008 e gennaio 2009, continua a vivere in condizioni disumane, sotto blocco permanente e resta isolata dagli altri Territori palestinesi. Gli insediamenti israeliani, che devastano la nostra terra in nome di Dio e in nome della forza, controllano le nostre risorse naturali, in particolare l’acqua e la terra, privandone centinaia di migliaia di palestinesi e costituendo un ostacolo per qualsiasi soluzione politica. La realtà è quella di un’umiliazione quotidiana a cui siamo soggetti nei check-point militari, mentre andiamo al lavoro, a scuola, in ospedale. La realtà è la separazione tra membri della stessa famiglia, rendendo impossibile la vita di migliaia di famiglie di palestinesi, soprattutto quando uno dei coniugi non possiede la carta d’identità israeliana. La stessa libertà religiosa è fortemente limitata; la libertà di accesso ai Luoghi santi è negata con il pretesto della sicurezza. Gerusalemme e i suoi Luoghi santi sono proibiti per molti cristiani e musulmani della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Persino gli abitanti di Gerusalemme devono affrontare restrizioni durante le feste religiose. A una parte del clero arabo è impedito frequentemente l’ingresso a Gerusalemme. Anche i rifugiati sono una parte della nostra realtà. La maggior parte di essi vive ancora nei campi in condizioni difficili. Generazione dopo generazione, attendono il diritto a ritornare. Quale sarà il loro destino? E i prigionieri? Le migliaia di prigionieri detenuti nelle prigioni palestinesi sono parte della nostra realtà. Gli israeliani smuovono cielo e terra per ottenere il rilascio di un solo prigioniero, ma quelle migliaia di prigionieri palestinesi, quando avranno la libertà? Gerusalemme è il cuore della nostra realtà. È, al tempo stesso, simbolo di pace e segno del conflitto. Mentre il muro di separazione divide i palestinesi nella città, Gerusalemme continua a essere svuotata dei suoi cittadini palestinesi, cristiani e musulmani. Le loro carte d’identità sono confiscate, il che significa la perdita del loro diritto di risiedere a Gerusalemme. Le loro case vengono demolite o espropriate. Gerusalemme, città della riconciliazione, è divenuta la città della discriminazione e dell’esclusione, fonte di scontro piuttosto che di pace. Una parte della realtà è anche la derisione di Israele rispetto al diritto internazionale ed alle risoluzioni internazionali, cosí come la paralisi del mondo arabo e della comunità internazionale nei confronti di questo disprezzo. I diritti umani sono violati e, nonostante i rapporti di organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali, l’ingiustizia continua. I palestinesi all’interno dello Stato d’Israele, che pure hanno sofferto un’ingiustizia storica, sebbene siano cittadini e godano dei diritti e doveri di cittadinanza, subiscono ancora politiche discriminatorie. Anch’essi attendono di godere di pieni diritti e dell’uguaglianza con tutti gli altri cittadini nello Stato. L’emigrazione è un altro elemento della nostra realtà. L’assenza di qualsiasi visione o scintilla di pace e libertà spinge i giovani, musulmani e cristiani, a emigrare. Il paese è cosí privato della risorsa piú importante e ricca: una gioventú istruita. La diminuzione del numero di cristiani, soprattutto in Palestina, è una delle conseguenze pericolose, sia del conflitto sia della paralisi locale e internazionale e del fallimento nel trovare una soluzione completa del problema. Di fronte a questa realtà, Israele giustifica le sue azioni come legittima difesa, compresa l’occupazione, le punizioni collettive e tutte le altre forme di rappresaglia contro i palestinesi. Secondo noi, questo è un capovolgimento della realtà. Sí, esiste la resistenza palestinese all’occupazione. Ma se non ci fosse l’occupazione, non ci sarebbero la resistenza, la paura e l’insicurezza. Questa è il nostro modo di leggere la situazione. Facciamo quindi appello affinché l’occupazione termini. Dopo ciò, vedremo un nuovo mondo in cui non esistono paura e minacce, ma piuttosto sicurezza, giustizia e pace. La risposta palestinese a questa realtà è stata varia. Alcuni hanno risposto con i negoziati: questa era la posizione ufficiale dell’Autorità palestinese, ma non questo non ha fatto avanzare il processo di pace. Alcuni partiti politici hanno seguito la strada della resistenza armata. Israele ha usato questo come un pretesto per accusare i palestinesi di essere terroristi e ha potuto distorcere la reale natura del conflitto, presentandolo come una guerra di Israele contro il terrore, piuttosto che un’occupazione israeliana combattuta da una legittima resistenza palestinese col fine di farla terminare. La tragedia è stata inasprita dal conflitto interno agli stessi palestinesi e dalla separazione di Gaza dal resto del territorio palestinese. Occorre notare che, sebbene i palestinesi stessi siano divisi tra loro, la comunità internazionale ha una grande responsabilità di questo da quando ha rifiutato di accogliere positivamente il volere del popolo palestinese, espresso nel risultato delle elezioni democratiche e legali del 2006. Ripetiamo e affermiamo nuovamente che la nostra parola di cristiani in mezzo a tutto questo, in mezzo alla catastrofe, è una parola di fede, speranza e amore.

 

 

Muro israelianoMuro del pianto

Israele e i muri del pianto...

 

 

 

 

Una parola di fede

Crediamo in un unico Dio, creatore dell’universo e dell’umanità. Crediamo in un Dio buono e giusto, che ama tutte le sue creature. Crediamo che ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e che la dignità di ciascuno deriva dall’Onnipotente. Crediamo che questa dignità è unica e uguale in ciascuno e in tutti. Questo per noi significa, qui e ora, in questa terra in particolare, che Dio ci ha creato non per essere impegnati nello scontro e nel conflitto, ma piuttosto per conoscerci e amarci l’un l’altro, e insieme edificare questa terra nell’amore e nel rispetto reciproco. Crediamo anche nella verbo eterno di Dio, il suo unico Figlio, Signore nostro Gesú Cristo, che Dio ha inviato come salvatore del mondo. Crediamo nello Spirito Santo, che accompagna la Chiesa e tutta l’umanità nel suo viaggio. È lo spirito che ci aiuta a comprendere la sacra Scrittura, l’Antico e il Nuovo Testamento, mostrando la loro unità, qui e ora. Lo Spirito manifesta la rivelazione di Dio all’umanità, nel passato, nel presente e nel futuro.

 

 

Come comprendere la parola di Dio?

Crediamo che Dio abbia parlato all’umanità, qui nel nostro paese: «Dopo aver parlato nei tempi antichi molte volte e in molti modi ai padri per mezzo dei profeti, alla fine, in questi giorni, Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio che ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha anche creato i mondi» (Eb 1,1-2). Noi, cristiani palestinesi, crediamo, come tutti i cristiani nel mondo, che Gesú Cristo è venuto ad adempiere la Legge e i profeti. Lui è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, e, illuminati da lui e guidati dallo Spirito Santo, leggiamo le sacre Scritture. Meditiamo e interpretiamo la Scrittura proprio come Gesú Cristo ha fatto con i due discepoli lungo la strada verso Emmaus. Come è scritto nel Vangelo secondo san Luca: «Partendo da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). Nostro Signore Gesú Cristo è venuto proclamando che il regno di Dio era vicino. Ha provocato una rivoluzione nella vita e nella fede di tutta l’umanità. È venuto con una «dottrina nuova» (Mc 1,27), gettando una nuova luce sul Vecchio Testamento, sui temi che si riferiscono alla fede cristiana e alla nostra vita quotidiana, come le promesse, l’elezione, il popolo di Dio e la terra. Crediamo che la parola di Dio sia una parola di vita, che getta una luce particolare su ogni periodo storico, manifestando ai credenti in Cristo cosa Dio dice qui e ora. Per questo, è inaccettabile trasformare la parola di Dio in lettera morta che snatura l’amore di Dio e la sua provvidenza, nella vita dei popoli e degli individui. Questo è precisamente un errore dell’interpretazione fondamentalista della Bibbia che porta morte e distruzione quando la parola di Dio è pietrificata e trasmessa di generazione in generazione come lettera morta. Questa lettera morta è usata come arma nella nostra storia presente per privarci dei nostri diritti nella nostra terra.

 

 

La nostra terra come missione universale

Crediamo che la nostra terra abbia una missione universale. In questa universalità, il significato delle promesse, della terra, dell’elezione, del popolo di Dio si apre fino a includere tutta l’umanità, a partire dai popoli di questa terra. Alla luce degli insegnamenti della Bibbia, la promessa della terra non è mai stata un programma politico, ma piuttosto l’anticipo della salvezza universale. È l’inizio del compimento del regno di Dio sulla terra. Dio ha inviato i patriarchi, i profeti e gli apostoli in questa terra cosí che essi potessero portare la missione universale nel mondo. Oggi rappresentiamo tre religioni in questa terra: ebraismo, cristianesimo e islam. La nostra terra è la terra di Dio, come lo sono tutti i paesi del mondo. È santa in quanto Dio è presente in essa e solo Dio è santo e capace di santificare. È nostro dovere rispettare la volontà di Dio per questa terra. È nostro dovere liberarla dal male dell’ingiustizia e della guerra. È la terra di Dio e quindi deve essere una terra di riconciliazione, pace e amore. Questo è ancora possibile. Dio ci ha posti qui come due popoli e Dio ci dà la capacità, se ne abbiamo la volontà, di vivere insieme e stabilire qui la giustizia e la pace, trasformando in realtà la terra di Dio: «Al Signore appartiene la terra e tutto quello che è in essa, il mondo e i suoi abitanti» (Sal 24,1). La nostra presenza in questa terra, come cristiani e musulmani palestinesi, non è casuale, ma piuttosto profondamente radicata nella storia e nella geografia di questa terra, come il legame di qualsiasi altro popolo alla terra in cui vive. È stata un’ingiustizia esserne stati cacciati. L’Occidente ha voluto rimediare a quanto gli ebrei avevano sopportato nei paesi europei, ma ha rimediato a nostre spese e sulla nostra terra. Ha provato a correggere un’ingiustizia e il risultato è stato una nuova ingiustizia. Sappiamo inoltre che alcune ideologie in Occidente tentano di porre una legittimazione biblica e teologica alla violazione dei nostri diritti. Cosí, le promesse, secondo la loro interpretazione, sono diventate una minaccia proprio alla nostra esistenza. La «buona notizia» nel Vangelo stesso è divenuta un «annuncio di morte» per noi. Facciamo appello a questi teologi perché approfondiscano la loro riflessione sulla parola di Dio e correggano le loro interpretazioni, cosí che possano vedere nella parola di Dio una fonte di vita per tutti i popoli. Il nostro legame a questa terra è un diritto naturale. Non è solo una questione ideologica o teologica. È questione di vita o di morte. Alcuni non sono d’accordo con noi, definendoci persino nemici solo perché affermiamo che vogliamo vivere da persone libere nella nostra terra. In quanto palestinesi, soffriamo a causa dell’occupazione della nostra terra. E, come cristiani palestinesi, soffriamo a causa delle cattive interpretazioni di alcuni teologi. Di fronte a ciò, il nostro compito è di preservare la parola di Dio come una fonte di vita e non di morte, cosí che «la buona notizia» rimanga come essa è, «buona notizia» per noi e per tutti. Di fronte a coloro che usano la Bibbia per minacciare la nostra esistenza di cristiani e musulmani palestinesi, rinnoviamo la nostra fede in Dio perché sappiamo che la parola di Dio non può essere fonte della nostra distruzione. Affermiamo inoltre che qualunque uso della Bibbia per legittimare o sostenere opzioni e posizioni politiche basate sull’ingiustizia, imposte da una persona sull’altra o da un popolo sull’altro, trasforma la religione in una ideologia umana e spoglia la parola di Dio della sua santità, della sua universalità e verità. Dichiariamo anche che l’occupazione israeliana della terra palestinese è un peccato contro Dio e contro l’umanità perché priva i palestinesi dei diritti fondamentali dell’uomo, conferiti da Dio. Ciò distorce l’immagine di Dio tra gli israeliani, divenuti occupanti, e nella vita dei palestinesi sotto l’occupazione. Dichiariamo che ogni ideologia apparentemente basata sulla Bibbia o sulla fede o sulla storia che legittimi l’occupazione è distante dalla dottrina cristiana, perché fa appello alla violenza e alla guerra santa in nome di Dio onnipotente, subordinando Dio agli interessi umani temporali e distorcendo l’immagine divina degli esseri umani che vivono sotto un’ingiustizia sia politica sia teologica.

 

 

Speranza

Nonostante la mancanza di ogni minimo spiraglio di attesa positiva, la nostra speranza rimane salda. La situazione attuale non promette alcuna rapida soluzione o la fine dell’occupazione imposta su di noi. Seppure le iniziative, le conferenze, le visite e i negoziati si siano moltiplicati, non sono stati seguiti da alcun cambiamento nella nostra situazione e sofferenza. Persino la nuova posizione degli Stati Uniti annunciata dal presidente Obama, con il chiaro desiderio di porre fine a questa tragedia, non è riuscita a modificare la nostra realtà. Nonostante questo, la nostra speranza resta salda perché viene da Dio. Dio solo è buono, onnipotente e amore e la sua bontà un giorno sarà vittoriosa sul male in cui ci troviamo ora. Come san Paolo affermò: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? (...) Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno (...) Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesú, nostro Signore» (Rom. 8,31, 35-36, 39)».

 

 

Cosa significa sperare?

Speranza per noi significa prima e soprattutto fede in Dio e, in secondo luogo, la nostra attesa, nonostante tutto, di un futuro migliore. In terzo luogo, significa non inseguire illusioni: sappiamo che la liberazione non è a portata di mano. La speranza è la capacità di vedere Dio in mezzo ai problemi, e di cooperare con lo Spirito Santo che dimora in noi. Da questa idea deriva la forza per essere fedeli, restare saldi e lavorare per trasformare la realtà in cui ci troviamo. Speranza significa non soccombere al male ma piuttosto affrontare e continuare a resistere. Non vediamo nulla nel presente e nel futuro, se non rovina e distruzione. Vediamo il sopravvento del forte, la tendenza crescente verso la discriminazione razziale e l’imposizione di leggi che negano la nostra esistenza e la nostra dignità. Vediamo la confusione e la divisione nelle posizioni palestinesi. Se, nonostante tutto questo, resistiamo oggi in questa realtà e lavoriamo duramente, la distruzione che si profila all’orizzonte può non giungere su noi.

 

 

Gaza City

Gaza, dopo la guerra cruenta che Israele ha scatenato nel dicembre 2008 e gennaio 2009,
continua a vivere in condizioni disumane...

 

 

 

 

 

Segni di speranza

La Chiesa nella nostra terra, i suoi leader e i suoi fedeli, nonostante la sua debolezza e le divisioni, mostrano certamente segni di speranza. Le nostre comunità parrocchiali sono vitali e la maggior parte dei giovani sono apostoli attivi per la giustizia e la pace. Oltre all’impegno individuale, le varie istituzioni ecclesiali rendono la nostra fede attiva e presente nel servizio, nell’amore e nella preghiera. Tra questi segni di speranza ci sono i centri teologici, con carattere religioso e sociale. Essi sono numerosi nelle differenti Chiese. Lo spirito ecumenico, anche se ancora incerto, appare sempre piú negli incontri delle diverse famiglie ecclesiali. Possiamo aggiungere a questo i numerosi incontri per il dialogo interreligioso, il dialogo cristiano-musulmano, che comprende i leader religiosi e una parte del popolo. Bisogna riconoscerlo, il dialogo è un lungo processo e si perfeziona con uno sforzo quotidiano, vivendo le stesse sofferenze e le stesse attese. Esiste anche il dialogo tra le tre religioni, ebraismo, cristianesimo e islam, cosí come diversi incontri di dialogo a livello accademico e sociale. Essi tentano di far breccia nei muri imposti dall’occupazione e contrastano la percezione distorta degli essere umani nel cuore dei loro fratelli e sorelle. Uno dei segni di speranza piú importanti è la fedeltà delle generazioni, la convinzione della giustizia della loro causa e la continuità della memoria, che non dimentica la Nakba (catastrofe) e il suo significato. Ugualmente significativo è la consapevolezza crescente tra le Chiese nel mondo e il loro desiderio di conoscere la verità su quanto accade qui. Oltre a questo, vediamo una determinazione tra molti a superare il risentimento per il passato e a essere pronti alla riconciliazione, una volta che la giustizia sarà ristabilita. La consapevolezza pubblica della necessità di ristabilire i diritti politici dei palestinesi sta crescendo e le voci ebraiche e israeliane che chiedono pace e giustizia si sono levate a sostegno di questo con l’approvazione della comunità internazionale. È vero, queste forze per la giustizia e la riconciliazione non hanno ancora potuto trasformare la situazione d’ingiustizia, ma essi hanno influenza e possono abbreviare il tempo della sofferenza e affrettare il tempo della riconciliazione.

 

 

La missione della Chiesa

La nostra Chiesa è una Chiesa di persone che pregano e servono. La preghiera e il servizio sono profetici, portano la voce di Dio nel presente e nel futuro. Tutto ciò che accade nella nostra terra, tutti coloro che vi abitano, tutte le sofferenze e le speranze, tutte le ingiustizie e gli sforzi di porvi fine, sono parte integrante della preghiera della nostra Chiesa e del servizio di tutte le sue istituzioni. Sia ringraziato Dio che la nostra Chiesa alza la sua voce contro l’ingiustizia, nonostante alcuni vogliano farla restare in silenzio, chiusa nelle devozioni religiose. La missione della Chiesa è profetica: affermare la parola di Dio con coraggio, onestà e amore nel contesto locale e negli eventi quotidiani. Se essa sceglie una parte, è quella degli oppressi, del porsi al loro fianco, proprio come Cristo Signore nostro stette a fianco di ogni povero e peccatore, chiamandolo al pentimento, alla vita e al ristabilimento della dignità donata da Dio e che nessuno ha il diritto di togliere. La missione della Chiesa è proclamare il regno di Dio, un regno di giustizia, pace e dignità. La nostra vocazione come Chiesa viva è di dare testimonianza della bontà di Dio e della dignità degli esseri umani. Siamo chiamati a pregare e a far sentire la nostra voce quando annunciamo una nuova società in cui gli esseri umani credano nella loro dignità e in quella dei loro avversari. La nostra Chiesa indica il Regno, che non può essere legato a nessun regno terreno. Gesú, di fronte a Pilato, ha affermato di essere davvero un re ma che «il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). San Paolo afferma: «Perché il regno di Dio non sta nel mangiare o nel bere ma è giustizia, pace ed allegrezza nello Spirito Santo» (Rom. 14:17). La religione non può quindi favorire o sostenere alcun regime politico ingiusto, ma piuttosto deve promuovere la giustizia. Deve agire con ogni sforzo per purificare i regimi in cui gli esseri umani soffrono l’ingiustizia e in cui la dignità umana è violata. Il regno di Dio sulla terra non dipende da alcun orientamento politico, poiché è piú grande e inclusivo di qualsiasi sistema politico. Gesú Cristo ha detto: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21). Il Regno che è presente tra noi e in noi è un prolungamento del mistero della salvezza. È la presenza di Dio tra noi e la nostra consapevolezza di questa presenza in tutti che viviamo e affermiamo. È nella presenza divina che dobbiamo fare ciò che possiamo fino a quando la giustizia non sarà raggiunta in questa terra. Le circostanze crudeli in cui la Chiesa palestinese ha vissuto e continua a vivere hanno richiesto alla Chiesa di chiarire la sua fede e identificare meglio la sua vocazione. Abbiamo riflettuto sulla nostra vocazione e siamo giunti a conoscerla meglio nella sofferenza e nel dolore: oggi sosteniamo la forza dell’amore piuttosto che della vendetta, di una cultura della vita piuttosto che una cultura della morte. Questo è fonte di speranza per noi, per la Chiesa e per il mondo. La risurrezione è la fonte della nostra speranza. Proprio come Cristo vinse la morte e il male, cosí anche noi possiamo, come ogni abitante di questa terra, sconfiggere il male della guerra. Resteremo una Chiesa che testimonia, salda e attiva nella terra della risurrezione.

 

 

Amore. Il comandamento dell’amore

Cristo nostro Signore ha detto: «Come io ho amato voi, amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Ci ha già mostrato come amare e trattare i nostri nemici. Ha detto: «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo” e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. (...) Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,45-47). San Paolo ha detto: «Non ripagate il male col male» (Rm 12,17). E san Pietro ha detto: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo» (1Pt 3,9).

 

 

Resistenza

Questa parola è chiara. L’amore è il comandamento di Cristo nostro Signore per noi e comprende sia gli amici sia i nemici. Questo deve essere chiaro per noi quando ci troviamo in circostanze dove dobbiamo resistere a mali di ogni tipo. L’amore vede il volto di Dio in ogni essere umano. Ogni persona è mio fratello e sorella. Tuttavia, vedere il volto di Dio in tutti non significa accettare il male o l’aggressione da parte loro. Piuttosto, questo amore cerca di correggere il male e fermare l’aggressione. L’ingiustizia contro il popolo palestinese che l’occupazione israeliana rappresenta è un male a cui si deve resistere. È un male e un peccato a cui si deve resistere e che occorre rimuovere. La responsabilità primaria di questo sta agli stessi palestinesi che soffrono l’occupazione. L’amore cristiano ci invita a resistere a essa. Tuttavia, l’amore pone fine al male camminando sulle strade della giustizia. La responsabilità spetta anche alla comunità internazionale, perché il diritto internazionale regola oggi le relazioni tra i popoli. Infine la responsabilità spetta ai colpevoli dell’ingiustizia; essi devono liberarsi del male che è in loro e dell’ingiustizia che hanno imposto ad altri. Se passiamo in rassegna la storia delle nazioni, vediamo numerose guerre e la resistenza alla guerra con la guerra, alla violenza con la violenza. Il popolo palestinese ha seguito la strada degli altri popoli, soprattutto nelle prime fasi della sua battaglia contro l’occupazione israeliana. Tuttavia, è stato anche impegnato in una lotta pacifica, specialmente durante la prima Intifada. Riconosciamo che tutti i popoli devono trovare una nuova via nelle relazioni e nella risoluzione dei conflitti. La via della forza deve far spazio alle vie della giustizia. Questo riguarda soprattutto i popoli forti militarmente, potenti abbastanza da imporre l’ingiustizia sul piú debole. Affermiamo che la nostra opzione come cristiani di fronte all’occupazione israeliana è resistere. La resistenza è un diritto e un dovere per il cristiano. Ma è una resistenza che segue la logica dell’amore. È perciò una resistenza creativa, che deve trovare vie che coinvolgano l’umanità del nemico. Vedere l’immagine di Dio nel volto del nemico significa prendere posizione alla luce di questa visione di resistenza attiva per fermare l’ingiustizia e obbligare il colpevole a porre fine all’aggressione e perciò raggiunge l’obiettivo desiderato: riavere la terra, la libertà, la dignità e l’indipendenza. Cristo nostro Signore ci ha lasciato un esempio che dobbiamo imitare. Dobbiamo resistere al male, ma lui ci ha insegnato che non possiamo resistere al male con il male. Questo è un comandamento difficile, particolarmente quando il nemico è determinato a imporsi e a negare il nostro diritto di restare qui nella nostra terra. È un comandamento difficile, sebbene esso solo possa resistere di fronte alle chiare dichiarazioni delle autorità occupanti che rifiutano la nostra esistenza e le numerose scuse che queste autorità usano per continuare a imporre l’occupazione su di noi. La resistenza al male dell’occupazione, poi, si integra con l’amore cristiano che rifiuta il male e lo corregge. Resiste al male in tutte le sue forme con metodi che entrano nella logica dell’amore e usano tutte le energie per creare pace. Possiamo resistere con la disobbedienza civile. Non resistiamo con la morte, ma piuttosto con il rispetto della vita. Rispettiamo e veneriamo tutti coloro che hanno dato la vita per la nostra nazione. E affermiamo che ogni cittadino deve essere pronto a difendere la sua vita, libertà e terra. Le organizzazioni civili palestinesi, cosí come quelle internazionali, non governative e alcune istituzioni religiose fanno appello a individui, compagnie e stati per impegnarsi nel disinvestimento e nel boicottaggio economico e commerciale di tutto quando prodotto dall’occupazione. Comprendiamo questo per integrare la logica di una resistenza pacifica. Queste azioni di pressione devono essere portate avanti con coraggio, proclamando apertamente e con sincerità che il loro obiettivo non è la vendetta, ma piuttosto porre fine al male esistente, liberando sia i colpevoli sia le vittime dell’ingiustizia. Lo scopo è liberare entrambi i popoli dalle posizioni estremiste dei diversi governi israeliani, portando la giustizia come la riconciliazione. Con questo spirito e con questo impegno raggiungeremo alla fine la risoluzione desiderata dei nostri problemi, proprio come avvenne in Sudafrica e con molti altri movimenti di liberazione nel mondo. Attraverso l’amore, supereremo le ingiustizie e stabiliremo le fondamenta di una nuova società per noi e per i nostri avversari. Il nostro futuro e il loro futuro è uno solo: o una spirale di violenza che distruggerà entrambi o la pace di cui godremo insieme. Facciamo appello a Israele affinché rinunci all’ingiustizia verso di noi, non stravolga la verità della realtà dell’occupazione fingendo che si tratta di una battaglia contro il terrorismo. Le radici del «terrorismo» sono nell’ingiustizia umana e nel male dell’occupazione. Essi devono essere rimossi, se si vuole cancellare davvero il «terrorismo». Facciamo appello al popolo palestinese affinché sia nostro compagno nella pace e non nella spirale interminabile della violenza. Resistiamo insieme al male, al male dell’occupazione e alla spirale infernale della violenza.

 

 

La nostra parola ai fratelli e alle sorelle

Oggi facciamo tutti i conti con una strada bloccata e con un futuro che promette solo afflizione. La nostra parola a tutti i nostri fratelli e sorelle cristiani è una parola di pace, pazienza, fedeltà e azione nuova per un futuro migliore. La nostra parola è, come cristiani, di portare un messaggio e continuare a portarlo nonostante le spine, il sangue e le difficoltà quotidiane. Riponiamo la nostra speranza in Dio, che ci assicurerà la sua pace nel tempo che lui ha stabilito. Al tempo stesso, continuiamo ad agire in armonia con Dio e con la sua volontà, costruendo, resistendo al male e rendendo piú vicino il giorno della giustizia e della pace. Diciamo ai nostri fratelli e sorelle cristiani: questo è il tempo del pentimento. Il pentimento ci riporta alla comunione d’amore con coloro che soffrono nelle prigioni, i feriti, gli afflitti da handicap temporanei o permanenti, i bambini che non possono vivere la loro infanzia e coloro che piangono i propri cari. La comunione d’amore dice a ogni credente nello spirito e nella verità: se mio fratello è un carcerato, io sono un carcerato; se la sua casa è distrutta, la mia è distrutta; quando mio fratello viene ucciso, anche io lo sono. Affrontiamo le stesse sfide e condividiamo in tutto ciò che è accaduto e accadrà. Forse, come individui o capi delle Chiese, siamo stati in silenzio quando avremmo dovuto alzare la voce per condannare l’ingiustizia e partecipare alla sofferenza. Questo è un tempo di pentimento per il nostro silenzio, l’indifferenza, la mancanza di comunione, sia perché non abbiamo perseverato nella nostra missione in questa terra e l’abbiamo abbandonata, sia perché non abbiamo pensato e fatto abbastanza per raggiungere una visione nuova e condivisa e siamo rimasti divisi, contraddicendo la nostra testimonianza e indebolendo la nostra parola. Pentimento per la preoccupazione per le nostre istituzioni, a volte alle spese della nostra missione, facendo tacere cosí la voce profetica donata dallo Spirito alle Chiese. Facciamo appello ai cristiani affinché restino saldi in questo tempo di prova, proprio come siamo rimasti saldi nei secoli, nella successione di stati e governi. Siate pazienti, saldi e pieni di speranza, affinché possiate riempire il cuore di tutti i vostri fratelli e sorelle che condividono questa stessa prova con speranza. «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Siate parte attiva e, purché questo sia conforme all’amore, partecipate con ogni sacrificio che la resistenza vi chieda per superare il nostro travaglio attuale. La nostra comunità è piccola, ma il nostro messaggio è importante. La nostra terra ha un bisogno urgente di amore. Il nostro amore è un messaggio ai musulmani e agli ebrei, cosí come a tutto il mondo. Il nostro messaggio ai musulmani è un messaggio di amore e di vita insieme e un appello al rifiuto del fanatismo e dell’estremismo. È anche un messaggio al mondo che i musulmani non devono essere né etichettati come nemici né terroristi, né ritratti come terroristi, ma piuttosto occorre convivere in pace e impegnarsi nel dialogo. Il nostro messaggio per gli ebrei dice loro: anche se abbiamo combattuto l’uno contro l’altro nel passato recente e lottiamo ancora oggi, possiamo amarci e vivere insieme. Possiamo organizzare la nostra vita politica, con tutta la sua complessità, secondo la logica dell’amore e del suo potere, dopo aver terminato l’occupazione e stabilito la giustizia. La parola della fede dice a tutti coloro che sono impegnati nell’attività politica: gli esseri umani non sono stati creati per l’odio. Non è concesso odiare, né è concesso uccidere o essere ucciso. La cultura dell’amore è una cultura dell’accettazione dell’altro. Attraverso esso raggiungiamo la perfezione e stabiliamo le fondamenta della società.

 

 

La nostra parola alle Chiese del mondo

La nostra parola alle Chiese del mondo è prima di tutto una parola di gratitudine per la solidarietà manifestataci con parole, opere e interventi tra noi. È una parola di preghiera per le tante Chiese e i cristiani che ci sostengono nel diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione. È un messaggio di solidarietà a quelle Chiese e cristiani che hanno sofferto a causa della loro azione di pressione per il diritto e la giustizia. Tuttavia, si tratta anche di un appello al pentimento, al rivedere le posizioni teologiche fondamentaliste che sostengono alcune opzioni politiche ingiuste riguardo al popolo palestinese. È un appello a porsi a fianco degli oppressi e serbare la parola di Dio come buona notizia per tutti, piuttosto che trasformarla in un’arma con cui uccidere gli oppressi. La parola di Dio è una parola d’amore per tutta la creazione. Dio non è l’alleato di uno contro un altro o l’avversario di uno rispetto a un altro. Dio è il Signore di tutti e ama tutti, chiede giustizia a tutti e ci dà gli stessi comandamenti. Chiediamo alle Chiese nostre sorelle di non offrire una copertura teologica all’ingiustizia che soffriamo, per il peccato dell’occupazione impostaci. La nostra domanda ai fratelli e alle sorelle nelle Chiese oggi è: siete in grado di aiutarci ad avere indietro la nostra libertà, perché questo è l’unico modo con cui potete aiutare i due popoli a raggiungere la giustizia, la pace, la sicurezza e l’amore? Per comprendere la nostra realtà, dichiariamo alle Chiese: venite e vedete. Adempiremo il nostro compito di mostrarvi la vera realtà, accogliendovi come pellegrini che vengono a pregare, portando un messaggio di pace, amore e riconciliazione. Conoscere i fatti e le persone di questa terra, sia palestinesi sia israeliani. Condanniamo tutte le forme di razzismo, sia religioso sia etnico, compreso l’antisemitismo e l’islamofobia, e facciamo appello a voi affinché lo condanniate e vi opponiate contro tutte le sue manifestazioni. Allo stesso tempo, facciamo appello perché pronunciate una parola di verità e prendiate una posizione nei confronti dell’occupazione israeliana della terra palestinese. Come si è detto, consideriamo il boicottaggio e il disinvestimento come strumenti non violenti per la giustizia, la pace e la sicurezza di tutti.

 

 

Siria

Palestina, Libano, Siria... quali altri Paesi ancora?

 

 

 

 

La nostra parola alla comunità internazionale

La nostra parola alla comunità internazionale è l’interruzione del principio del «doppio standard» e la sottolineatura delle risoluzioni internazionali nei confronti del problema della Palestina con riferimento a tutti i partiti. L’applicazione selettiva del diritto internazionale ci lascia vulnerabili a una legge della giungla. Questo legittima gli appelli di alcuni gruppi armati e di alcuni stati, secondo i quali la comunità internazionale comprende unicamente la logica della forza. Facciamo quindi appello a una risposta a quanto le istituzioni civili e religiose hanno proposto, come prima citato: l’avvio di un sistema di sanzioni economiche e di boicottaggio contro Israele. Ripetiamo ancora una volta che non si tratta di vendetta, ma piuttosto un’azione seria per raggiungere una pace giusta e definitiva che ponga fine all’occupazione israeliana della Palestina e degli altri territori arabi e che garantirà la sicurezza e la pace per tutti.

 

 

Leader religiosi ebrei e musulmani

Infine, rivolgiamo un appello ai leader religiosi e spirituali, ebrei e musulmani, con coloro che condividono la stessa idea per cui ogni essere umano è stato creato da Dio e gode della stessa dignità. Da qui l’obbligo per ognuno di noi di difendere gli oppressi e la dignità che Dio ha donato a essi. Proviamo tutti insieme a spostarci dalle posizioni politiche finora fallite e che continuano a condurci sui sentieri del disastro e della sofferenza.

 

 

Un appello al nostro popolo palestinese e agli israeliani

È un appello a vedere il volto di Dio in ogni sua creatura e a superare le barriere della paura o della razza, per stabilire un dialogo costruttivo e non rimanere all’interno della spirale di manovre infinite che mirano a mantenere la situazione attuale. Il nostro appello è di raggiungere una visione comune, costruita sull’uguaglianza e la condivisione, non sulla superiorità, la negazione dell’altro o l’aggressione, usando il pretesto della paura e della sicurezza. Affermiamo che l’amore e la fiducia reciproca sono possibili. Cosí, la pace è possibile e anche la riconciliazione definitiva. Cosí, la giustizia e la sicurezza saranno raggiunte per tutti. L’educazione è importante. I programmi educativi devono aiutarci a conoscere l’altro cosí come egli o ella è, piuttosto che attraverso il prisma del conflitto, dell’ostilità e del fanatismo religioso. I programmi educativi che vengono attuati sono intrisi di questa ostilità. È venuto il tempo di dare il via a una nuova educazione che permetta a tutti di vedere il volto di Dio nell’altro e che dichiari che possiamo amarci l’un l’altro e costruire il nostro futuro insieme nella pace e nella sicurezza. Il tentativo di fare di uno Stato uno Stato religioso, ebraico o islamico, soffoca lo Stato, lo confina entro limiti ristretti e lo trasforma in uno stato che pratica la discriminazione e l’esclusione, preferendo un cittadino all’altro. Ci appelliamo a entrambe le religioni ebraica e musulmana: lasciate che lo Stato sia tale per tutti i suoi cittadini, con una visione costruita sul rispetto per la religione, ma anche per l’uguaglianza, la giustizia, la libertà e il rispetto per il pluralismo e non sul dominio di una religione o di una maggioranza numerica. Ai leader della Palestina diciamo: le divisioni attuali ci indeboliscono tutti e provocano sofferenze maggiori. Nulla può giustificare queste divisioni. Per il bene del popolo, che deve avere piú peso rispetto ai partiti politici, occorre porre fine alla divisione. Ci appelliamo alla comunità internazionale affinché dia il suo sostegno all’unità e rispetti il volere liberamente espresso dal popolo palestinese. Gerusalemme è il fondamento del nostro modo di vedere e della nostra vita. È la città a cui Dio ha dato una particolare importanza nella storia dell’umanità. È la città verso cui tutti i popoli sono in cammino e dove tutti si incontreranno nell’amicizia e nell’amore alla presenza del solo e unico Dio, secondo la visione del profeta Isaia: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà piú alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno. (...) Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà piú la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno piú nell’arte della guerra» (Is 2,2-5). Oggi la città è abitata da due popoli di tre religioni; ed è su questa visione profetica e sulle risoluzioni internazionali che riguardano l’intera Gerusalemme che qualsiasi soluzione politica deve essere basata. Questa è la prima questione, perché il riconoscimento della santità di Gerusalemme e del suo messaggio sarà una fonte d’ispirazione per trovare una soluzione all’intero problema, che è per un’ampia parte un problema di fiducia reciproca e di capacità d’instaurare una nuova terra in questa terra di Dio.

 

 

Speranza e fede in Dio

In assenza di ogni speranza, facciamo udire il nostro grido di speranza. Crediamo in Dio, buono e giusto. Crediamo che alla fine la bontà di Dio trionferà sul male dell’odio e della morte che ancora sono nella nostra terra. Vedremo qui «una nuova terra» e «un nuovo essere umano», capace di elevarsi nello spirito all’amore di tutti i fratelli e sorelle.

 

+ Michel Sabbah, patriarca latino emerito di Gerusalemme

+ Munib Younan

+ Atallah Hanna

Jamal Khader

Rafiq Khoury

Mitri Raheb

Naim Ateek

Yohana Katanacho

Fadi Diab

Jiries Khoury

Cedar Duaybis

Nora Kort

Lucy Thaljie

Nidal Abu El Zuluf

Yusef Daher

Rifat Kassis, coordinatore

 

 

 

 

 

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