Domenica, 2 maggio 1999

82º Rgt. Fanteria Meccanizzata "Torino" - Cormons (Gorizia)

«Io sono la via, la verità, la vita, dice il Signore: nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). In queste parole che costituiscono il nucleo del Vangelo di oggi, è racchiusa l'essenza della nostra felicità. Non ci sono mezze misure, non ci sono altre vie verso la felicità. Il Vangelo è categorico, è tanto semplice quanto assoluto. Dire "Io sono la via, la verità, la vita" è lo stesso che dire: "Io sono la felicità". Ma la felicità è vera solo quando non finisce, ecco perché la vera felicità si chiama anche "vita eterna". E cosa è la "vita eterna" o la "vera vita"? Gesú dice: «...che conoscano te [Padre], l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo» (Gv 17,3). È Gesú il rivelatore del Padre, dell'origine della nostra vita e della nostra felicità.

È Lui, che viene nell'umiltà della natura umana, che rivela agli uomini la paternità di Dio e il mistero dell'amore trinitario. Ma questa è una realtà che si può capire solo nella misura in cui la si vive. Quando l'apostolo Filippo chiede di vedere tutto questo che cosa risponde Gesú? «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Dunque la "vera vita" - cioè vedere Dio - è alla nostra portata, perché Dio si è fatto uomo, si è fatto carne. Forse ricordate che anche Mosè che - dice la Scrittura - parlava con Dio come un uomo con il suo amico (Es 33,11), fece la stessa domanda: «Mostrami la tua Gloria!» (Es 33,18). Ma a lui il Signore disse: «...tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,19). Vedere Dio comporta necessariamente l'uscire dalla condizione terrena. Ma a noi, il Signore dice: «Chi vede me, vede il Padre»! È come se Lui dicesse: "Guarda me, guarda come vivo, come parlo, guarda i miei occhi, guarda come cammino, come ti accolgo e ti considero e intuisci il Padre che è in me, perché io sono in Lui e chi vede me, vede il Padre". Dunque, quella carne che per noi è come una condanna, soprattutto quando arrivano il dolore e le malattie, in Gesú diventa salvezza, diventa liberazione: l'Eucaristia. Allora, ecco l'invito di Gesú: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28).

Vedete, come la sequela della verità, non è sequela di un valore astratto, di una dottrina o di un'ideologia, ma di una persona, è questa persona è Cristo, Dio fatto uomo per noi. In Lui vediamo il Padre. Colui che occhio umano non ha mai visto, si è reso visibile nel Figlio: la misericordia, l'amore fatto persona. In Lui Dio si è fatto - non solo vedere - ma addirittura toccare, abbracciare dall'uomo. È questo che ci ricorda la magnifica lettera dell'apostolo Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [...], quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesú Cristo. Queste cose vi [annunziamo], perché la [vostra] gioia sia perfetta» (cfr. 1Gv 1,1-4).

 

 

Lunedí, 9 agosto 1999

Sacrario militare di Oslavia - Gorizia

Abbiamo due motivi oggi per ritrovarci in questo Sacrario: l'anniversario della fine del secondo conflitto mondiale e quello della liberazione della città di Gorizia. Due fatti storici che ci invitano a riflettere e a pregare insieme. Lo facciamo dinanzi ai resti di 57.000 caduti, di coloro che prima e piú di noi hanno vissuto momenti storici davvero difficili imprimendo loro delle svolte determinanti. La prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, ci presenta l'offerta dei prodotti della terra, che, per l'antico credente ebreo è in relazione con un preciso evento della storia della salvezza: l'ingresso nella terra promessa. Il tema del dono della terra - e quindi dell'alleanza fra Dio e l'uomo - è centrale nella Scrittura.

Donare la terra a un popolo significa donargli la possibilità di avere un'identità, di essere popolo, cioè di avere un passato e di costruire la propria storia. E per l'uomo di fede a questo dono corrisponde l'amore a colui che del dono è l'Autore. È impossibile vivere senza avere una terra. Una terra che non ha solo una dimensione geografica, ma diventa luogo vissuto, diventa parte integrante della nostra storia personale. Si crea un legame indissolubile fra la terra e la persona che di quella terra porta le caratteristiche e le vicissitudini. Quando pensiamo all'Italia ci vengono in mente nomi che esprimono persone e fatti concreti: Francesco d'Assisi, Caterina da Siena, Don Bosco, Salvo D'Acquisto, Leonardo da Vinci, Guglielmo Marconi, Enrico Fermi, Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi. Questa non è retorica, è realtà! Potremmo scrivere migliaia di nomi di santi, di poeti, di artisti, di eroi, di scienziati, di atleti, di persone che hanno reso grande, anzi unica l'Italia. Questa è la nostra terra, la nostra bandiera, e questi siamo noi. Possiamo esserne piú o meno coscienti, ma abbiamo il dovere di esserlo sempre piú e di rispondere con generosità, con la nostra vita, a questi doni che abbiamo ricevuto. Questo ci richiama al discorso sull'autenticità della nostra fede, sui frutti concreti che suscita o non suscita, non certo per un'intrinseca debolezza ma a causa delle nostre disposizioni interiori, non sempre ideali. Noi, giustamente ringraziamo Dio per la nostra città terrena, ma dobbiamo ricordare che le case con cui si edifica una città vanno costruite sulla roccia, non sulla sabbia. Dice l'Autore della Lettera agli Ebrei che... l'architetto e costruttore della città dalle salde fondamenta è Dio stesso (Eb 11,10).

Non ci sono altri costruttori che possano edificare la nostra casa sulla roccia. Scrive S. Agostino nella sua famosa opera, La città di Dio, che: «Due amori fondarono due città: l'amore di sé fino al disprezzo di Dio fondò la città terrena; l'amore di Dio fino al disprezzo di sé, invece, la città celeste. Perciò quella si gloria in se stessa, questa nel Signore. [...] Quella è dominata dalla brama di dominio sui principi o sulle nazioni soggiogate; in questa si servono a vicenda, nella carità, i capi governando, i sudditi obbedendo. Quella ama, nei suoi potenti, la propria forza; questa dice al suo Dio: «Amo te, o Signore, o forza mia» (Sal 17,2)...» (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De civitate Dei, 14, 28; 19, 17). Nessuno di noi è padrone della storia e delle sue scelte, però ognuno di noi è padrone di quel piccolo lembo di terra, di patria e di storia che è la sua persona. Allora sí, possiamo veramente edificare nella roccia, sicuri che la nostra opera non sarà stata inutile perché fondata su quella di Dio che non viene mai meno: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno, dice il Signore (cfr. Mc 13,31).

 

 

Solennità di tutti i santi

1 novembre 2001

Rgt. Allievi Brigadieri CC - Vicenza

«Ringraziamo con gioia Dio che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (cfr. Col 1,12). Queste sono parole che la Chiesa ci propone spesso nella liturgia, perché esprimono una profonda realtà, quella della "vocazione universale alla santità". Non si tratta di idealismo o di utopia. La santità è l'essenza stessa del cristianesimo. È la perfezione della carità. E la carità non è un valore astratto. Dio è Amore (cfr. 1Gv 4,8) come dice l'Apostolo Giovanni. È un obiettivo molto alto, è vero, anche quando vediamo un piccolo bambino che ancora non sa parlare, non riusciamo a vedere in lui un genio della letteratura, però... sappiamo che nel suo piccolo essere ci sono tutte le potenzialità, tutte le forze perché questo accada.

Ora, se la natura può compiere tutto questo, cosa non potrà accadere quando entriamo nel mondo del soprannaturale? Il Concilio Vaticano II dice: «Se [...] nella Chiesa non tutti camminano per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità [cioè tutti hanno la stessa vocazione di base: quella alla pienezza dell'amore, perché tutti sono creati da Dio che è amore]» (LG 32). Senza eccezione alcuna! Abbiamo detto che la santità altro non è che la perfezione della carità, la pienezza dell'Amore e poiché Dio è Amore, è evidente che la santità consiste nella piena e perfetta unione con Dio. Quell'unione, quella comunione che regnano nel mistero stesso della Ss.ma Trinità.

«Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30) dice Gesú agli apostoli. Ma nel capitolo 17 di Giovanni, nella preghiera che Gesú rivolge al Padre prima di lasciare questo mondo, dice anche: «Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi» (Gv 17,11). Addirittura dice: «...la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola» (Gv 17,22). Allora è proprio vero quello che dice S. Paolo ai filippesi: «Cristo Gesú, [...] pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio» (cfr. Fil 2,5-6), infatti dice con molta chiarezza: «...la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro» (Gv 17,22). Certamente non si tratta della gloria del mondo, piena di vanità, di presunzione e costruita perfino sul delitto.

Si tratta di quella gloria che Gesú ci ha fatto vedere nella trasfigurazione, dove lo Spirito glorifica il corpo e il corpo diventa trasparenza dello Spirito. È bello celebrare i santi ricordando i fratelli che lo hanno amato di piú. La loro vita e i loro sacrifici possono sembrare lontani dagli ideali di questo mondo; non scoraggiamoci, è un'epoca difficile, ma spesso ciò che c'è di piú bello nell'uomo emerge nel momento della prova. Solo Dio conosce questo tesoro nascosto di umanità e di amore. Affidiamoci alla sua misericordia chiedendogli la grazia di imitarli e sapendo bene che anche noi ci salveremo solo se faremo la nostra parte fino in fondo. Dice S. Agostino: «Dio che ha creato te senza di te, non salverà te senza di te» (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Sermones, sermo 169, PL 923, 17).

 

 

Domenica, 4 novembre 2001

Festa delle Forze Armate

Auditorium Museo del Risorgimento - Vicenza

Saluto di cuore le autorità civili e militari presenti e tutti voi che celebrate questo giorno: ricordo della vittoria (4 novembre 1918), festa delle Forze Armate, memoria dei nostri Caduti. Non deve esserci retorica in questa celebrazione, in questo momento profondamente umano e cristiano. Vogliamo soffermarci brevemente, semplicemente su alcuni aspetti? Noi ricordiamo oggi quella vittoria che ha dato alla nostra Patria, a tutti noi, la libertà e la dignità per costruirci un futuro secondo quei propositi che abbiamo poi riassunto nella nostra Costituzione. Sono valori umani e cristiani e sono valori di cui dobbiamo essere custodi fedeli e gelosi.

 Quando l’ufficiale, ogni militare, presta giuramento lo fa, se necessario, anche offrendo la sua vita "…per la salvaguardia delle libere istituzioni". Siamo disposti a lottare quindi per garantire un futuro di libertà e di giustizia a noi e a quelli che verranno dopo di noi. Nel problematico contesto nazionale e internazionale, dove le nostre Forze Armate, vivono tutte le difficoltà di un periodo di transizione, questa è una delle ragioni piú forti per essere fedeli alla nostra vocazione. Quando si lavora si ha bisogno di vedere la continuità dell’opera, i frutti del proprio lavoro. Questa è la nostra ricompensa piú grande e questa è stata la speranza che ha sorretto anche coloro che sono caduti: un futuro di libertà e di dignità. Sono due parole che separate potrebbero anche essere ambigue. Messe insieme invece ci rimandano a quella civiltà dell’Amore tanto auspicata dal Santo Padre. Non mancano quelli che accusano un contrasto stridente fra i valori che oggi ricordiamo e la civiltà dell’Amore. Ma è un contrasto che oggi, alla luce dei valori che la nostra Repubblica professa, in un contesto europeo, aperto alla comunità internazionale, non ha piú motivo di esistere. Se infatti non amiamo la nostra comunità, la nostra Patria come potremmo amare quella altrui?

 La solidarietà internazionale ha come fondamento anche un retto amor di patria. Se in passato abbiamo reso onore a coloro che furono inviati a combattere - loro malgrado - da un regime dittatoriale fuori dai confini dell’Italia, quanta riconoscenza dobbiamo oggi ai nostri soldati che vengono inviati in tante parti del mondo per difendere la pace? Questa è una realtà, da stimare, da incoraggiare, da ricordare. Questo è un cambiamento epocale. Quando cadranno le polemiche è comincerà il tempo della solidarietà? E soprattutto quando, valori come l’unità nazionale, diverranno piú forti delle ideologie che tante volte ci hanno diviso?

E veniamo al momento piú caro, al ricordo dei Caduti. Non ci sono confini per la preghiera. Ricordiamo i nostri Caduti e quelli degli altri, quelli che un tempo erano nemici e oggi sono nostri amici e pregano con noi; soprattutto ricordiamo coloro che hanno sofferto di piú nella solitudine, nel dolore; coloro che - noncuranti della propria vita - l’hanno persa per gli altri. Dice il Vangelo - «…il Figlio dell’uomo […] è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).

 

 

Domenica, 2 dicembre 2001

Rgt. Allievi Brigadieri CC - Vicenza

Oggi comincia il tempo di Avvento, tempo propizio per prepararci ad accogliere la misericordia di Dio che si manifesta a noi nell’umiltà della natura umana. È questa la vera gioia del Natale. Nient’altro ci può rendere davvero felici se non scoprire l’amicizia di Dio che ci viene incontro con un volto umano. Nel periodo dell’Avvento la liturgia ci invita proprio a chiedere al Signore di nascere nel nostro cuore, di portarvi quell’amore - l’unico - che può riempire la nostra vita.

 Ma prepararsi a incontrare Cristo significa prepararsi ad incontrare la Verità; significa prepararsi ad incontrare il bene; significa prepararsi ad incontrare la bellezza. Il libro della Sapienza rimprovera gli uomini che contemplando il cielo stellato hanno scambiato i corpi celesti per delle divinità, ebbene... «Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3).

 Viviamo in una civiltà che è stata definita come "civiltà dell’informazione e della comunicazione" e che ha imparato a servirsi soprattutto dell’immagine per trasmettere i suoi messaggi. È il mondo cosa dice con i suoi messaggi? Dice che non c’è verità. Soprattutto che non c’è una verità assoluta, oppure che ci sono tante verità, che ognuno ha la sua verità e che tutte sono ugualmente valide. Il mondo vuole togliere dal cuore umano il desiderio di cercare la Verità. Viviamo in una civiltà che non di rado chiama bene il male e male il bene, che mostra la bellezza come un invito alla licenziosità.

 Gli antichi pagani, nonostante tutto, avevano spesso nel loro cuore il desiderio del vero, del bene, del bello; il paganesimo moderno cancella anche questo desiderio genuino. Non è una situazione nuova se già l’apostolo Paolo scriveva ai Romani: «Fratelli, è ormai tempo di svegliarvi dal sonno» (cfr. Rm 13,11). È tempo di passare cioè dalla notte della falsità, della malizia e della deformità - perché tale è l’estetica del mondo - allo splendore della verità, del bene e della bellezza. In una parola è tempo di "rivestirci del Signore Gesú Cristo" (cfr. Rm 13,14).

 Lui è l’immagine, la sola vera immagine del Padre, dell’autore della bellezza (cfr. Sap 13,3), la sola vera bellezza per cui valga la pena di offrire la vita. Questo è il cammino di conversione che la Chiesa ci invita a fare, semplice e lieto. L’Avvento non ha il carattere austero della Quaresima. Nell’Avvento la Chiesa attende la venuta del suo Sposo: si è tristi quando ci si lascia, non quando si è prossimi all’incontro con la persona che si ama. Allora perché le parole del Vangelo sono cosí severe?

 Papa Gregorio Magno in uno dei suoi antichi sermoni, intorno all’anno 600, dice: «...il nostro Signore e Redentore, volendoci trovare preparati e per allontanarci dall’amore del mondo, ci dice quali mali ne accompagneranno la fine [...] in modo che se non temiamo Dio ora che viviamo nella tranquillità, il terrore di quegli eventi ci faccia temere l’imminenza del suo giudizio» (cfr. GREGORIO MAGNO, Sermo 1, 1-3). Queste parole a chi sono rivolte se non a coloro che sono nemici di Dio? Ma noi ricordiamo sempre quello che dice San Giovanni nella sua prima lettera: «Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18).

 

 

Solennità dell'Immacolata Concezione della B.V.M.

8 dicembre 2001

Rgt. Allievi Brigadieri CC - Vicenza

La festa dell'Immacolata Concezione di Maria, la festa della bellezza dell'umanità (dopo vedremo il perché di questa definizione) veniva celebrata anticamente nei monasteri della Palestina. All'inizio del secolo VIII si estese in tutto l'Oriente, da dove passò poi all'Italia meridionale, all'Irlanda e all'Inghilterra. Infine, attraverso le chiese e i monasteri tedeschi, raggiunse l'Italia del Nord. L'Immacolata è la Patrona e la gloria dell'Ordine francescano. Il capitolo generale dei francescani, già nel 1263, ne aveva introdotto la festa in tutto l'Ordine, contribuendo alla sua diffusione nel mondo. Verso il 1330, anche la Curia Romana, celebrava solennemente l'Immacolata.

Il Papa francescano Sisto IV, nel 1476, approvò la festa e ordinò di celebrarla in tutta la città di Roma. Solo l'8 dicembre 1854, con la proclamazione del dogma, divenne ovunque festa di precetto. Ma perché Maria ebbe un privilegio cosí grande? Ricordiamoci che la persona di Maria è comprensibile solo alla luce di Cristo. È significativo che i nostri fratelli orientali raffigurino sempre Maria insieme al bambino. Non troverete mai un'icona orientale dove Maria compaia da sola. La parola privilegio oggi non è ben vista e può trarci in inganno; questo dono Maria non l'ha avuto semplicemente per se stessa, ma anche per noi. Per tutti noi. Dio ha voluto Maria con i suoi doni straordinari per il nostro bene, a nostro servizio. Questa è la legge del corpo mistico di Cristo: la solidarietà, l'amore e il servizio vicendevoli.

Maria doveva essere in tutto degna della singolare grazia della divina maternità. Essendo naturalmente soggetta - come ogni creatura umana - al peccato d'origine, ne fu preservata immune, dice papa Pio IX: "...per grazia speciale e privilegio di Dio onnipotente in vista dei meriti di Cristo Gesú salvatore del genere umano" (cfr. PIO IX, bolla Ineffabilis Deus, 8 dicembre 1854, in Acta et decreta sacrorum Conciliorum recentiorum. Collectio Lacensis 6, 842). Questo grande dono dunque è stato concesso a Maria in previsione dei meriti di Cristo.

All'inizio di questa riflessione abbiamo detto che questa festa possiamo considerarla anche come la festa della riconquistata bellezza e purezza del genere umano. Abbiamo detto che Maria è l'icona, la figura della Chiesa. Maria è colei che in sé, ci mostra in anticipo ciò che noi diventeremo, ciò che Dio vuol fare dell'intera umanità. Tutto questo noi lo contempliamo già in Maria. Lei ci mostra in anticipo il futuro che Dio riserva anche a noi.  Affidiamoci alla preghiera ed alla intercessione di Maria, nostra sorella e nostra madre, diamo con lei gloria a Dio, questo è il suo compito materno: condurci a Cristo. Il Concilio Vaticano ci incoraggia ricordandoci che Maria: «...assunta in cielo [...] non ha deposto questa missione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci i doni della salvezza eterna. Nella sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora pellegrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata» (LG 62).

 

 

Domenica, 9 dicembre 2001

Rgt. Allievi Brigadieri CC - Vicenza

«Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare...» (Lc 3,1). L'evangelista Luca, parlando di Giovanni il Battista, colloca cosí, dal punto di vista storico, l'inizio della sua missione. Dio entra nella storia umana e fa di questa tragedia un dramma salvifico. I vangeli non sono dei testi storici nel senso che noi oggi diamo a questo termine. Ciò che interessa agli evangelisti non è il puro dato storico, ma la storia letta attraverso la fede. La storia ci dice che nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, un uomo chiamato Giovanni, diede avvio alla sua missione, alla sua predicazione. La fede ci dice che quell'uomo era il precursore del Messia liberatore, di colui che Israele aspettava. E cosa predicava Giovanni?

 Un battesimo di conversione per il perdono dei peccati (cfr. Lc 3,3). Il battesimo di Giovanni era solo un invito alla conversione, non conferiva il perdono dei peccati. Giovanni sapeva bene di non essere il Messia. Infatti interrogato a proposito rispose: «Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è piú potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco» (Mt 3,11). Ora, dobbiamo evitare di commettere l'errore di ritenerci estranei a questo invito alla conversione.

Anche i giudei fecero questo sbaglio perché si sentivano al sicuro essendo figli di Abramo, ma Giovanni disse loro: «Fate [...] frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi...» (cfr. Mt 3,8-10). Noi corriamo il rischio di dire: "Abbiamo già ricevuto il battesimo in Spirito Santo e fuoco"!

Ma questo aggrava le cose. È una grave responsabilità aver ricevuto invano il battesimo in Spirito Santo e fuoco. Infatti, dovremmo essere già uno specchio terso, senza macchia, dell'amore di Dio. A nulla serve vantarsi di essere di Cristo se non viviamo conformemente a Lui. Dice Origene: «A che ti serve [cristiano] che Cristo sia venuto un tempo nella carne, se non è venuto anche nella tua anima? Preghiamo dunque perché ogni giorno il suo avvento si compia in noi, affinché possiamo dire: «Non sono piú io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20)» (cfr. ORIGENE, In Luc., 22, 1-5).

La salvezza che Cristo ha portato deve diventare la nostra salvezza altrimenti a nulla ci giova. Quindi quando chiediamo al Signore: "...venga il tuo regno" impegniamoci a edificarlo cominciando dal nostro cuore. È questo l'invito che ci fa Giovanni Battista: esaminare noi stessi ed eliminare tutto ciò che impedisce all'amore di Dio di rinnovarci. Solo cosí lo Spirito Santo potrà operare in pienezza, come ha operato in Maria. Nessuna persona piú di lei si sarebbe potuta vantare: figlia di Abramo nella fede, della casa di Davide, piena di grazia, madre del Signore. Eppure, lei "figlia del suo Figlio" - dice Dante - non confidò in queste cose ma volle essere soprattutto discepola di Cristo. Infatti, dice S. Agostino:

«Fu per lei maggiore dignità e maggiore felicità essere stata discepola di Cristo che essere stata madre di Cristo. [...] Osserva se non è vero ciò che dico. Mentre il Signore passava, seguito dalle folle, [...] una donna esclamò: «Beato il grembo che ti ha portato!» (Lc 11,27). [...] E perché la felicità non fosse cercata nella carne, che cosa rispose il Signore? «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28). Anche Maria proprio per questo è beata, perché ha ascoltato la parola di Dio e l'ha osservata» (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, Disc. 25, 7-8; PL 46, 937-938).

 

 

Giovedí, 20 dicembre 2001

Precetto natalizio

Caserma Ederle USA Setaf - Vicenza

Benvenuti in questa cappella. Forse per la prima volta da quando esiste la SETAF, noi italiani ci ritroviamo per trascorrere un momento di preghiera semplice e sereno, in preparazione al Natale. Spero che non sia un'eccezione. Ringrazio in modo particolare i nostri colleghi americani, soprattutto il mio confratello, monsignor Chilen, per averci offerto questa opportunità.

I would like to take this moment to thank you all for this opportunity to be here today. Thanks, in particular to father Chilen. I wish you a merry Christmas and a happy new year.

La storia del popolo d'Israele è una storia densa di attesa, una continua ricerca del Messia, del Liberatore: «Venga per noi un uomo alle porte della città». Questa era la preghiera degli ebrei dell'VIII secolo che soffrivano sotto la crudele dominazione assira. Questa è anche e sempre la nostra preghiera. Anche noi, con il profeta Isaia diciamo: «Se tu [o Dio] squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19). Sembra di cogliere in queste parole il desiderio dell'impossibile, eppure, questo è quello che lo Spirito Santo vuole offrirci.

Noi viviamo troppo spesso di ricordi e quando parliamo del Natale, sono ingenui, dell'infanzia. Dimentichiamo facilmente che, anche nella vita spirituale, occorre crescere... «in sapienza, età grazia» (Lc 2,52) per arrivare... «tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Questo è il compimento, la realizzazione profonda della nostra persona, questa è l'opera d'arte che lo Spirito Santo vuole creare in noi. Lui è come uno scultore che trae dalla ruvida pietra un'opera d'arte, anche se... il Signore ha preferito la creta, per non incorrere nello stesso inconveniente del David di Michelangelo.

Se in noi non c'è questa evoluzione interiore tutto il resto è vano; saremo - dice l'apostolo Paolo - come... «fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14). Abbiamo detto che lo Spirito vuole fare di noi un'opera d'arte. Quando si parla di Dio e della sua "santa operazione" (come dice Francesco d'Assisi), non si esagera mai nel parlare di arte, di bellezza. La bellezza, insieme al vero e al bene, si addice a Dio in sommo grado, anzi, in Lui il vero, il bene e il bello diventano una cosa sola. In una lettera pastorale di due anni fa il Card. Martini proponeva alla riflessione dei suoi fedeli proprio questa tematica: "Quale bellezza salverà il mondo"?

La risposta la troviamo nel mistero dell'Annunciazione, il preludio del Natale, il momento in cui Dio si fa Uomo, si fa immagine, da invisibile diventa visibile e si fa bellezza visibile: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [...] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (cfr. 1Gv 1,1.3). Questa è l'esperienza che hanno fatto gli apostoli.

Una bellezza sobria, matura; che ci libera dalle immagini infantili per porci di fronte all'Immagine per eccellenza. Cristo è l'icona vivente di Dio! Lui è la risposta alla nostra preghiera, lui è l'elemento unificante della vita spirituale: «E il Verbo si fece carne [dice l'apostolo Giovanni] e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). E questo è vero, perché grazie allo Spirito, la nostra liturgia non è un vuoto e nostalgico ricordo ma diventa memoriale, cioè presenza che si rinnova in questo luogo e in questo momento.

L'apostolo Giovanni ci ricorda che: «...noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo cosí come egli è» (1Gv 3,2).

 

 Cappella di Reggimento

Rgt. «Lancieri di Montebello» (8º) Cappella di Reggimento

 

 

 

 

Domenica, 3 marzo 2002

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Le letture di questa terza domenica di Quaresima hanno in comune due aspetti: uno simbolico che è quello dell'acqua e uno concreto che è quello dell'amore di Dio per l'uomo. L'acqua ha un significato salvifico perché è un elemento essenziale alla vita: dove c'è l'acqua c'è la vita. Il popolo di Israele fece in mezzo al deserto la terribile esperienza della sete. Attraversare il deserto significa fare l'esperienza della vicinanza della morte, un'esperienza che ci aiuta a comprendere davvero il valore della vita. E non crediate che il deserto sia solo un'arida distesa di sabbia. Ci sono molti tipi di deserto. Per un naufrago il deserto è la desolata distesa dell'oceano. Può diventare un deserto anche una grande città se ci perdiamo senza avere niente in tasca.

Per un ventenne l'anno del servizio militare può diventare un deserto. In ogni caso, qualunque sia il nostro deserto, la prima cosa da cercare è l'acqua. Vi siete mai chiesti perché la Scrittura dice che il popolo d'Israele ha impiegato 40 anni per attraversare il deserto e arrivare alla terra promessa? In 40 anni, anche andando a piedi, si fa il giro del mondo. Quello che la Scrittura vuol dirci è che tutto l'arco della vita umana è un deserto, un deserto da attraversare per giungere alla terra promessa. Quarant'anni era la vita media di un uomo all'epoca di Gesú. Ecco perché i "40 anni" sono un simbolo biblico dell'intera durata della vita umana.

Dunque, ci piaccia o no, tutti stiamo attraversando il deserto: ognuno ha il suo deserto, ma tutti dobbiamo organizzarci per attraversarlo nel migliore dei modi. Anzitutto dobbiamo trovare l'acqua... è una questione di vita o di morte e non è una cosa facile. Bisogna sapere dove trovarla, quella buona, quella di sorgente, non quella delle pozzanghere. Era questo che cercava di fare la donna samaritana andando tutti i giorni ad attingerla dal pozzo, fino a quando... qualcuno un giorno non gli propose qualcosa di diverso. Qualcosa che sconvolge tutte le consuetudini e gli usi umani, anche quelli apparentemente sacri. Gli parlò di un'acqua nuova, del dono dello Spirito, che anche noi ci prepariamo a ricevere nella Pentecoste. Lo Spirito è l'acqua della vita che ci disseta e che, ancor piú, ce ne rende pure portatori, sicché anche gli altri possono attingerne dalla nostra persona.

«Chiunque beve di quest'acqua [cioè quelle cose a cui noi siamo abituati ad attingere per non "morire", ognuno di noi lo sa] avrà di nuovo sete; ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai piú sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,13-14). Sorgente che zampilla per la vita eterna! Non fuori di noi, ma dentro di noi. Non momenti di euforia per vincere la noia del quotidiano - momenti che ci stordiscono e ci lasciano vuoti - ma la fonte stessa della vita e della felicità. Per cui l'apostolo Paolo dice: «La speranza [...] non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (cfr. Rm 5,5).

 

 

Domenica, 21 aprile 2002

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

«In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7). Con queste parole Gesú definisce se stesso, in modo unico ed esclusivo. La verità non conosce il plurale. Infatti, poco dopo dice: «Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati» (Gv 10,8). Invece per Lui non succede cosí, perché... «le mie pecore [dice] ascoltano la mia voce e mi seguono» (cfr. Gv 10,27). C'è un rapporto appassionato dunque, fatto di ascolto e di conoscenza reciproca. Ma c'è anche qualcosa di piú profondo che Gesú vuol dirci attraverso queste parole. Questo passo del Vangelo precede un brano piú ampio che va dal v. 22 al v. 39 del 10º capitolo. Gesú si incontra con i giudei, che sono desiderosi di conoscere la sua persona non per amarlo, ma per avere in mano qualcosa con cui poterlo condannare.

Da tempo erano nell'incertezza e cercavano di porgli la domanda definitiva: "Sei tu il Messia"? Solo dinanzi al Sinedrio gliela porranno in modo chiaro; per ora si accontentano di allusioni e di sottintesi. Per evitare dei malintesi, Gesú ricorre spesso al cosiddetto «segreto messianico» e impone il silenzio a tutti quelli che, direttamente o indirettamente, a causa delle sue opere, potrebbero affermare che Lui è il Messia. Ora Lui, con queste parole, risponde in modo implicito. Ci fa capire che le domande sulla sua persona hanno una risposta: sia nelle parole, sia nelle opere, che sono molto piú eloquenti. Il problema però non sta nelle risposte, ossia, in ciò che Lui può dire di sé. Il problema sta nel cuore di coloro che lo ascoltano.

Nessuno può comprendere davvero una persona se non ha almeno un po' di disponibilità nei suoi confronti. Cosí è di Cristo, se lo Spirito di Dio non ci mostra la via verso di Lui, vero Dio e vero uomo. Dobbiamo chiedere questo dono allo Spirito Santo. Quelli che cercano di conoscere sinceramente Gesú e lo accolgono crederanno. Troveranno dentro di sé la risposta al suo mistero (1Gv 5,10). Questa non è mistica astratta. Conoscere il volto di Dio significa conoscere anche se stessi, conoscere la dignità della propria persona e quindi... corrispondere alla propria vocazione. Lui ci ha detto: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).

Questa è la felicità! Vivere in pienezza; essere totalmente realizzati nel proprio essere. La sua parola non convinceva i giudei, perché non soddisfava le loro concezioni ristrette, basate sulla pura giustizia. Solo l'amore salva l'uomo. Il giudizio privo di amore condanna e distrugge. L'uomo bisogna salvarlo, superando i sistemi politici, ideologici o religiosi che possono inquadrarlo. E questo non è facile, perché noi siamo sempre inseriti in un sistema che ci può condizionare. È a questo che allude l'apostolo Paolo quando parla del "mondo", dello "spirito del mondo" (1Cor 2,12).Quello spirito che ridicolizza ogni sforzo verso il bene, ogni scelta di altruismo, ogni spinta ideale; quello spirito che ci spinge alla mediocrità per deriderci quando siamo sprofondati nella debolezza. Quando siamo stanchi di lottare, ricordiamoci delle parole di Gesú, del nostro vero Pastore: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 13,33).

 

 

Solennità di S. Giorgio martire, Patrono dell'Arma di Cavalleria

23 aprile 2002

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Carissimi amici del Montebello, signor Generale della Brigata Granatieri di Sardegna, signor Comandante, cari reduci di Porta San Paolo, amici dell'Associazione Nazionale di Cavalleria, ufficiali, sottufficiali, lancieri: benvenuti a questo appuntamento, momento di preghiera e di amicizia per tutta l'Arma di Cavalleria.

San Giorgio fu un uomo d'armi della Cappadocia dove subí il martirio durante la persecuzione di Diocleziano. La tradizione intorno alla sua figura è carica di elementi leggendari; in particolare dal sec. XII si introdusse il motivo mitologico dell'uccisione del drago, simbolo del male, della paura che disgrega e rende impossibile la vita civile, rispecchiato costantemente nell'iconografia del santo. Il suo culto si estese dalla Chiesa orientale a quella occidentale per opera dei crociati. Divenne patrono dell'Inghilterra nel sec. XIII. Il sepolcro è custodito a Lod, nei pressi di Tel-Aviv. Pio XI con decreto dell'11 agosto 1937 - vista la ricchissima tradizione storica - lo nominò patrono dell'Arma di Cavalleria.

Noi veneriamo i santi perché sono un esempio completo di umanità e di amore. La santità non è altro che la perfezione dell'amore che si dona, si offre senza riserve. Le letture che abbiamo ascoltato ci parlano proprio delle lotte che deve sostenere un autentico "guerriero dello spirito". Inutile illudersi, se non si è soldati dentro, se non abbiamo tempra interiore, a nulla valgono spade e corazze: la paura attraversa qualsiasi corazza meglio di qualunque proiettile. L'umanità si è sempre nutrita di ideali alti, raggiungibili o meno, questo ha un'importanza relativa, ciò che conta è tendere con decisione alla meta. Scegliamo bene, dunque, i nostri modelli. I valori a cui la Cavalleria di tutti i tempi e di tutti i luoghi si è sempre ispirata li conosciamo bene:

- amore e protezione dei deboli e dei poveri;

- fedeltà alle istituzioni;

- amore per la vita civile e per le manifestazioni piú nobili del cuore umano.

Viviamo in un'epoca che dissacra e deride tutto ma questo non ha importanza. Quello che conta è vivere con dignità, poter dire in ogni momento di aver dato il meglio di sé, di averci provato ostinatamente e - con l'aiuto di Dio - questo è possibile, un passo dopo l'altro.

Sarebbe veramente da stolti - e sarebbe imperdonabile - vivere indegnamente solo perché siamo circondati da un mondo che propone l'indegnità. A noi spetta il compito difficile di proporre valori che il mondo ritiene superati. Non ha importanza se spesso le nostre parole sembrano inutili. Noi mettiamole in pratica. Il mondo è migliorato sempre grazie a poche persone che hanno avuto il coraggio di fare tanto, di andare contro corrente, e che hanno avuto la pretesa di cambiare davvero se stessi prima ancora che gli altri. Anche questa è una grazia di Dio, un dono che Lui ci farà se vorremo entrare nel numero di quei pochi che hanno avuto il coraggio di fare tanto, memori del Vangelo: «Chi [...] mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32).

 

 Stendardo dei Lancieri di Montebello

Stendardo dei «Lancieri di Montebello»

 

 

 

Domenica, 9 giugno 2002

In occasione del matrimonio di un sottufficiale del Reggimento

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Carissimi, non capita spesso di celebrare un matrimonio in questa cappella militare, abbiamo dunque un motivo in piú per essere felici. È un luogo essenziale e povero, direi davvero francescano. È un'essenzialità questa - tipica della vita militare - che non deve deluderci. Serve, infatti, ad insegnarci a distinguere ciò che è importante da ciò che è secondario. Questo è importantissimo anche nel matrimonio. Nella lettura che avete desiderato c'è una frase importante: «Dio è piú grande del nostro cuore» (1Gv 3,20) ed è cosí perché «Dio è amore» (1Gv 4,8).

Voi non siete l'Amore, né io, né tutti noi; Dio è Amore... e in questo momento voi state unendo i vostri cuori a Lui, attraverso i vostri stessi cuori. Il matrimonio cristiano è un legame a tre, non a due. Ecco perché proclamiamo: "Quello che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi" (Mt 19,6). È un compito arduo per le forze umane. Se c'è un punto in cui tutti sperimentiamo la nostra debolezza è proprio questo: la capacità di amare, soprattutto quando costa. Ma il Signore è qui proprio per noi, proprio perché siamo malati abbiamo bisogno del medico. Solo Lui può insegnarci ad amare, sempre, tutti.

La fedeltà nel matrimonio cristiano, non poggia sulle forze o sull'entusiasmo umano, ma anzitutto sulla fedeltà e sull'amore di Dio che per primo metterà la sua dimora in mezzo a voi. "Dove due o piú sono uniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro" (cfr. Mt 18,20). Voi avete scelto di amarvi proprio nel suo nome, non dimenticatelo.

Voglio misericordia e non sacrificio diceva in nome di Dio il profeta Osea (cfr. Os 6,3-6). L'amore verso il prossimo vale piú di tutti i sacrifici rituali: «L'acqua spegne il fuoco che divampa, cosí l'elemosina espia i peccati (Sir 3,29).

Coltivate prima di tutto questo amore divino; se non l'avete ancora trovato, cercatelo, chiedetelo insistentemente, insieme, nella preghiera e nell'Eucaristia, perché possa darvi forza e coraggio nelle avversità. Chi potrà ringiovanire continuamente il vostro affetto, se non Colui che è "l'eterna giovinezza", la fonte di ogni amore autentico?

Questo varrà anche nelle difficoltà che troverete con i figli che Dio vi donerà, una vita nuova di cui non sarete mai padroni ma solo custodi. Spetta anche a voi difendere il dono della vita, la vostra dignità di sposi e di genitori cristiani. Non cedete mai alla tentazione di abdicare dalle vostre funzioni. Non rinunciate ad essere i protagonisti della vostra famiglia e dell'educazione dei vostri figli, delegandola ad altri. Non esiste scuola o altra istituzione che abbia il diritto di sostituirsi a voi. Sappiate farvi aiutare ma mai sostituire.

Abbiate fiducia e Dio sarà con voi in questo compito stupendo come lo è stato con la santa famiglia di Nazaret. Il suo dono per voi, per la vostra fedeltà, il premio per il cammino che avete cominciato a percorrere è davvero grande. Dice il Signore: "Siate fedeli fino alla morte e vi darò la corona della vita" (cfr. Ap 2,10).

 

 

Domenica, 7 luglio 2002

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Amministrazione del sacramento della Confermazione ad alcuni militari

«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Questo passo del Vangelo viene chiamato dagli esegeti "l'inno di giubilo". Gesú gioisce perché attraverso di Lui il Padre si è manifestato ai piccoli, agli umili. Dopo l'inizio del suo ministero pubblico aveva incontrato un'ostilità crescente, soprattutto da parte delle autorità. Solo le persone umili lo avevano accolto. Non è facile essere "umili", cioè avere un'autentica conoscenza di sé. L'umiltà è una conquista del cuore umano illuminato dalla grazia di Dio. L'umiltà non ha nulla a che vedere con l'ingenuità o con l'ignoranza; richiede un cuore maturo e soprattutto un cuore grande. Solo cosí l'uomo può vedere il mistero di Dio.

Quando diciamo "vedere Dio" non stiamo parlando di misticismo astratto, ma dello stile di vita del cristiano che vive il quotidiano alla luce dell'eterno, per cui anche la piccola realtà della nostra vita è importante, perché è posseduta e amata da Dio. Un giorno l'apostolo Filippo fece un domanda inconsueta a Gesú: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). La risposta - che vale anche per noi - la conosciamo: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Vedere - nella mentalità semitica - significa possedere in pienezza.

Non si tratta di vedere una realtà esterna, ma della pienezza della verità e della vita - o in una parola dell'Amore divino - che mi possiede e mi trasforma radicalmente. È questo lo Spirito di cui parla il Libro della Sapienza, che «...tutto rinnova e attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti» (Sap 7,27). È questo lo Spirito che di una sconosciuta ragazza albanese di nome Agnes ha fatto Madre Teresa di Calcutta. È questo lo Spirito che di Francesco di Pietro di Bernardone ha fatto Francesco d'Assisi. È questa - e solo questa - la vera fonte della gioia e a noi il Signore dice: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9).

Dunque è questa la ricerca della nostra vita: come posso vedere il volto di Cristo, quindi, come posso vedere il Padre, come posso realizzarmi nell'Amore? Perché vedere Dio implica questo e Lui ha la risposta per la domanda piú importante della nostra vita. «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9), [ha visto] «...la via, la verità e la vita» (cfr. Gv 14,6). Infatti Lui solo può dire: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,29-30). Cos'è questo giogo dolce, questo carico leggero? Il giogo non è una bella cosa, di per sé è un segno di schiavitú. Non in questo caso però, perché il giogo di cui parla Gesú è quello dell'amore di Dio, dell'amore fraterno, ecco perché è un giogo dolce. Ha il suo peso ma lo si può portare con gioia, perché come dice S. Agostino: «...dove si ama non si fatica e se si fatica, la stessa fatica è amata» (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De bono viduitatis, CSEL 41: Cl. 0301, cap.: 21, par.: 26, pag.: 338, lin.: 17).

 

 

Solennità di S. Barbara, Patrona della Marina Militare

4 dicembre 2002

Centro SMD - Roma

Il 4 dicembre 1951 papa Pio XII - considerando la grande tradizione storica - nominò S. Barbara patrona della Marina Militare, degli Artiglieri, dei Genieri e dei Vigili del Fuoco. La invochiamo per liberarci dalla morte improvvisa, dalla morte che corre come il fulmine. Della sua vicenda terrena purtroppo non sappiamo molto. Sono passati circa 1700 anni e le poche notizie pervenuteci sono frammentarie. Le migliori fonti di informazione sulla sua vicenda umana e spirituale sono contenute in quattro Codici: Codice Vaticano Barberino Greco IV, 38 (ff. 33-38); Codice Vaticano Barberino Latino n. 2268 (ff. 1-6); Codice dell'Archivio Capitolare di Rieti (ff. 35v-38v) e Codice Alessandrino n. 96 (ff. 369-373; 375-380). Il documento piú interessante è del VII secolo, risale quindi a circa 400 anni dopo. Non mi dilungo sulle tradizioni che circondano la sua figura perché a noi interessa l'essenziale: il nostro progresso spirituale.

Anche nella vita spirituale occorre crescere... «in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52) per arrivare... «tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Questo è il compimento, la realizzazione profonda della nostra persona, questa è l'opera d'arte che lo Spirito Santo vuole fare in noi, come uno scultore che trae dalla ruvida pietra un'opera d'arte. Se in noi non c'è questa evoluzione interiore tutto il resto è vano; perché siamo - direbbe l'apostolo Paolo - come... «fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14). Ora guidare le persone nelle vie dello spirito è molto piú difficile che condurre una grande nave. Questo di condurre le anime è un dono che solo il Signore può farci. Poco fa ho detto che Lui vuol fare in noi qualcosa di bello, di buono. Quando si parla di Dio non si esagera mai nel parlare di bontà. La bontà, insieme al vero e al bello, si addice a Dio in sommo grado, anzi, in Lui il vero, il bene e il bello diventano una cosa sola. Perché cerchiamo Dio cosí? Perché questa è l'unica via che può toccare il nostro cuore: non parlo di cuore come "sentimentalismo" ma come nucleo piú profondo e vero della nostra persona.

Il Natale che si avvicina sempre piú è il momento in cui Dio fa Uomo, immagine; da invisibile diventa visibile e sperimentabile per coloro sono messi cammino a cercarlo. S. Barbara testimone di questa realtà: una realtà vale la pena dare vita, perché dà senso alla nostra vita. muore solo amano. Ma morire cosí... vivere, morte santa l'unica non può farci paura. È vissuto con amore, ad occhi aperti, tutta dignità. subíto: ci conceda vivere quaggiú Dunque Cristo risposta preghiera, grande possiamo fare quaggiú: chiedere amare noi diventano cosa sola. Dice Signore: «Se qualcuno vuol venire dietro me, rinneghi se stesso, prenda sua croce ogni giorno mi segua. Chi vorrà salvare propria perderà, perderà vita salverà» ( Lc 9,23-24).

 

 

Solennità della B. V. M. di Loreto, Patrona dell'Aeronautica Militare

10 dicembre 2002

Centro SMD - Roma

Come è consuetudine celebriamo la solennità della Beata Vergine di Loreto, Patrona dell'Aeronautica Militare e della Cavalleria dell'Aria. È una devozione che trova il suo centro ideale a Loreto dove, secondo la tradizione, si trova la casa nazaretana della Madonna. Per secoli la versione popolare parla del trasporto miracoloso operato dagli angeli. La ricerca storica degli ultimi decenni, in base ai reperti archeologici e a numerose prove documentali, ci offre solidi argomenti per affermare che la Santa Casa, come tante altre reliquie della Terra Santa, è stata trasportata per nave, al tempo delle crociate. La versione popolare del trasporto da parte degli angeli molto probabilmente è nata dal fatto che nella vicenda ha svolto un ruolo primario la famiglia regnante dell'Epiro, la famiglia Angeli (in latino de Angelis), come risulta da un documento notarile del 1294.

Anche i graffiti presenti in diverse pietre sono simili ad altri ritrovati a Nazaret e questo conferma la tesi di un effettivo trasporto. Questo che possiamo definire un piccolo santuario biblico, cadde in mano ai mussulmani, poi venne traslato prima a Tarsatto in Dalmazia (1291), poi a Recanati e infine a Loreto (1295). Sappiamo pure che fin dal 1912 la Società Aviatori e Aeronauti si era affidata alla protezione della Madonna di Loreto. Fin dal 1915 la Santa Casa fu dipinta nelle carlinghe della XXV Squadriglia in segno di devozione verso la Madonna della "Casa volante". Finalmente, dopo la Grande Guerra, nel 1919, il tenente colonnello Ercole Morelli, dell'Aero Club d'Italia, fece un'esplicita richiesta rivolgendosi direttamente ad alcuni cardinali e vescovi. Benedetto XV la accolse volentieri ed emise cosí un Decreto il 24 marzo 1920.

Qual è il contenuto teologico di questa vicenda? Giunti a questo punto il dato storico ci interessa relativamente. Questo perché piú del solo dato storico è importante la lettura teologica del dato storico. La "traslazione" della Santa Casa, infatti, la sua discesa dal Cielo è l'illustrazione di uno degli articoli piú importanti del Credo cattolico: "...descendit de caelo": il Verbo di Dio per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo. Il suo discendere dal cielo, il suo farsi uomo, ponendo la sua dimora in mezzo agli uomini, come dice l'evangelista Giovanni (Gv 1,14), è il segno della traslazione, o meglio trasfigurazione, della natura umana. L'uomo per mezzo dell'amore di Dio passa dalla schiavitú alla libertà, dal peccato alla grazia, dalla tiepidezza al fervore, dall'egoismo alla solidarietà, in una parola dalla morte alla vita.

Questo è quello che ci dice il Signore: «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24). Qui Gesú non parla solo della risurrezione dei corpi ma prima di tutto di quella degli spiriti, di quella interiore che tocca ognuno di noi quando viene investito dalla luce di Dio. Si può dire che nella fede cristiana si realizza il passaggio dall'"Homo sapiens" all'"Homo amans". Dall'uomo secondo natura che è intelligente, all'uomo secondo Dio, che non è solo sapiente, ma anche capace di amare. L'uomo secondo Dio ha una sapienza che non ha l'uomo terreno: la sapienza del cuore! Si dice che la natura non fa salti, ma questo passaggio è di una verticalità assoluta e non è opera della natura, ma della grazia. Allora, se una cosí grande altezza ci spaventa facciamo nostra la preghiera di S. Agostino: "Dà ciò che comandi [Signore] e comanda ciò che vuoi" (cfr. AGOSTINO D'IPPONA, Le Confessioni, 10, 29).

[Continua...]