Martedí, 18 marzo 2003

Esequie del generale C. A. Luciano Fortunato

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Dare una degna sepoltura ai propri cari è un’opera di misericordia corporale, è un dovere umano è cristiano che implica anche un’opera di misericordia spirituale: la preghiera, pregare Dio per i vivi e per i morti. È per me un onore presiedere questo rito con il quale salutiamo e onoriamo il Generale C. A. Luciano Fortunato. Non lo dico solo come cappellano militare ma anche da semplice cittadino. Se la nostra generazione ha potuto godere della pace, della serenità, se ha potuto costruire il proprio futuro lo deve anche a uomini come il Generale Fortunato, perciò dico che dobbiamo non solo pregare per lui ma anche ringraziarlo di fronte a Dio.

 Molte persone, che occupavano posizioni ben piú importanti degli uomini di Porta S. Paolo, in quei giorni preferirono la fuga all’assunzione delle proprie responsabilità. Quanti di loro invece hanno sofferto per la "salvaguardia delle libere istituzioni" per le quali hanno giurato. Dobbiamo ricordarlo. Ora però dobbiamo pensare alla cosa piú importante. Tutto è importante nella vita ma ciò che è importantissimo diceva Papa Giovanni è l’altra vita. Nel libro dei Salmi troviamo questa preghiera: aiutaci Signore a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (cfr. Sal 90,12). E cosa significa contare i nostri giorni se non rendersi conto della nostra piccolezza e dei nostri limiti? E cosa significa sapienza del cuore se non saper amare?

Dunque dimostra saggezza colui che non confida piú solo in se stesso; impara ad amare chi sa guardarsi attorno volgendo gli occhi sugli altri e soprattutto su Dio. Ecco, vivere la nostra fede è difficile perché non è una fede fatta di formule pronte e di risposte facili ma richiede questo continuo sforzo di crescita interiore; ci chiede di imparare ad amare, sempre di piú. E questo deve farci capire anche quanto è grande il dono della vita, quanto è preziosa questa esperienza terrena. Solo il Signore conosce fino in fondo il cammino spirituale di questo nostro fratello. A noi ora non interessa e non compete giudicare questo fratello, una cosa però è certa, noi con la nostra preghiera, con i nostri sacrifici, con le nostre opere di carità, possiamo aiutarlo a incontrare Dio, a raggiungere quella perfezione dell’amore che veramente gli apre le porte del regno dei cieli.

Sono davvero beati quelli che muoiono in pace con Dio, ecco perché questo è un momento solenne, non triste. Se ci soffermiamo a riflettere sul peso del peccato nella nostra vita quanto piú dobbiamo interrogarci su quanto abbiamo o non abbiamo amato? Se, per assurdo, non avessimo commesso alcun peccato ma fossimo vissuti senza amare non saremmo degni di Dio. Ecco come vogliamo e dobbiamo aiutare questo fratello: con la nostra preghiera, con l’intercessione della Chiesa. E la stessa cosa noi chiediamo a lui: ricordati di noi presso Dio ora che ti avvicini a Colui che è la Via, la Verità e la Vita (Gv 14,6).

 

 

Lunedí, 4 maggio 2003

Festa dell'Esercito.

Centro I.F. - Roma

Oggi, forse per la prima volta in questo contesto, celebriamo la festa dell'Esercito, della nostra Forza Armata, ma soprattutto, in questa sede, diamo a questa celebrazione un carattere che è anche religioso. Se nessuno può negare il valore sociale e simbolico di questa data, che ci aiuta a prendere coscienza non delle nostre "specialità", ma di una intera Forza Armata, è piú difficile comprenderne il valore religioso ed etico.

La storia, l'esperienza e - per noi anche e soprattutto la fede - ci dimostrano che le persone e le istituzioni umane non sono immuni da debolezze, da tentazioni e da pericoli. Tutte le realtà umane, abbandonate a se stesse, rischiano di perdere i loro riferimenti originari, i loro ideali, il loro fine. Spesso il tentativo di rimediare a questo destino storico conduce a vedere nella conservazione delle stesse istituzioni il loro fine ultimo. Queste sono le conseguenze del peccato nella vita individuale e sociale. Conseguenze che possono arrivare a generare delle realtà che con un linguaggio teologico si chiamano "strutture di peccato", ossia strutture dove l'individuo, nonostante la sua libertà non riesce a sottrarsi alla logica del male.

Ecco perché per noi è importante affidare le nostre persone e le nostre istituzioni a Dio. È esattamente questo che chiediamo al Signore nella preghiera: aiutarci a tutelare l'identità dell'istituzione e a far sí che essa realizzi i suoi fini autentici nella vita del paese. Nella storia dell'Italia democratica e repubblicana non credo che ci siano dubbi circa i fini e i valori. La nostra Forza Armata può e deve essere la "roccaforte, l'arsenale della democrazia e della libertà", non per niente nel giuramento affermiamo di votarci alla "salvaguardia delle libere istituzioni". Tutti conosciamo i problemi che affliggono le nostre istituzioni ma nonostante questo abbiamo il dovere di essere amanti e custodi gelosi della loro libertà e della loro dignità che poi è quella di ogni cittadino.

Ebbene, «in questa grande casa che è la Chiesa, [vi sono] molte professioni. La casa di Dio [...] accoglie cacciatori, viandanti, architetti, muratori, agricoltori, pastori, atleti e soldati. Questa breve frase: Fa' attenzione a te stesso (1Tm 4,16), si addice a tutti, perché a ciascuno dà coscienza della sua opera e dà diligenza nel proprio ufficio. [...] Se soldato, prendi parte al travaglio del Vangelo (2Tm 1,8), combatti la buona battaglia contro gli spiriti del male, contro le passioni [...], e rivestiti di tutta l'armatura di Dio: non lasciarti coinvolgere dalle faccende mondane, per piacere a colui che ti ha scelto per la sua milizia [...]. Non mi basterebbe il giorno se volessi esporre tutti gli uffici di coloro che collaborano al Vangelo del Cristo e insieme la forza del precetto che a tutti si addice: «Fa' attenzione a te stesso!»» (cfr. BASILIO IL GRANDE, Omelia «Fa' attenzione a te stesso, 4-5».

 

 

Mercoledí, 2 luglio 2003

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Celebrazione in suffragio del sottotenente Andrea Millevoi, medaglia d'oro al v. m.

Ogni anno attendiamo questo appuntamento che contribuisce ad arricchire la vita del Reggimento. L’arricchisce perché ci aiuta a fermarci e a riflettere - e questo è un bene - soprattutto in questo momento storico che vede le Forze Armate impegnate quasi al di là delle proprie forze. Lavorare è importante, è un dovere, ma certamente non manca al proprio dovere colui che sa fermarsi per riflettere, per verificare la propria vita. E cosa vuol dire riflettere? Domanda apparentemente retorica, forse però non tutti hanno presente l’etimologia della parola, dal latino re-flectere: volgere indietro. Dobbiamo saper esaminare il percorso fatto e interrogarci sulla sua bontà.

 Guai all’uomo che non ha mai dubbi, che crede di non aver mai bisogno di fare il punto della situazione, che non interroga mai la propria mente e il proprio cuore. Ecco, proprio questi due elementi - la mente e il cuore - sono piú che mai necessari a chi sceglie la vita militare. Senza intelletto ogni impresa, ogni tattica, ogni strategia sarebbe impossibile. Senza cuore cesseremmo d’essere uomini, veri soldati, per diventare mercenari senza scrupoli.

 La storia invece - anche la cronaca recente - ci dice che è proprio della nostra tradizione militare portare il senso di umanità là dove sembrerebbe impensabile, là dove altri lo hanno perso. È in questa tradizione che s’inserisce, senza dubbio, la storia del sottotenente Andrea Millevoi. Il nostro Reggimento grazie a lui si è arricchito umanamente, ma ha anche acquisito un debito morale. Sarà una benedizione se sapremo onorare questo debito. Quelli che sono caduti ci hanno offerto la loro vita. Dobbiamo meritarcelo questo dono, non possiamo permetterci di sprecarlo, di sprecare la nostra vita, senza pagarne le conseguenze. Cosí possiamo rafforzare quella solidarietà spirituale che ci muove anche a pregare per i nostri cari, per quelli che ci hanno lasciato.

 Questa è l’altra ragione per cui siamo qui e per cui ha senso anche fare una sosta. Dice la Scrittura (l’abbiamo sentito nella prima lettura): «...se egli non avesse sperato che i caduti risorgeranno, sarebbe stato superfluo e sciocco pregare per i morti» (cfr. 2Mac 12,44). La fede non da’ una risposta ai piccoli perché della nostra vita: perché è successo questo o quel fatto? I piccoli perché li lasciamo ai ciarlatani. La fede offre una risposta alle grandi domande della vita; ci aiuta a camminare, ci ricorda un rapporto che continua, un amore che non finisce. C’invita a guardare alle persone che amiamo e che non sono piú con noi, a pensare al loro volto, alla loro bellezza, sotto un’altra luce, ma con la certezza incrollabile che, anche se appare troppo bella per essere vera, non per questo cessa di essere una realtà.

 

 

Solennità di S. Gabriele, Patrono dell'Arma delle Trasmissioni

29 settembre 2003

3º Rgt. Trasmissioni - Roma

Il 6 aprile 1956 Papa Pio XII volle assegnare come Patrono degli uomini delle Trasmissioni l'Arcangelo Gabriele, facendo riferimento ai messaggi che nella Bibbia vennero affidati all'Angelo, primo fra tutti l'annuncio della nascita del Messia. Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato si parla di un evento, della comunicazione piú straordinaria che sia mai stata data nella storia umana: l'evento dell'incarnazione per cui Dio si fa uomo per salvare l'uomo. Noi viviamo in un'epoca nella quale la comunicazione è piú che mai vitale. Pensiamo ad Internet, l'unico strumento realmente democratico di comunicazione dove tutti possono diventare protagonisti e non solo consumatori.

Il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali nel documento Chiesa e Internet (nn. 2 e 12) ci offre alcune riflessioni su questa realtà. La storia delle comunicazioni umane somiglia a un lungo viaggio che conduce l'umanità dall'orgoglioso progetto di Babele, con la sua carica di confusione e di mutua incomprensione (cfr. Gn 11, 1-9), fino alla Pentecoste e al dono delle lingue: la restaurazione della comunicazione si incentra su Gesú per l'azione dello Spirito Santo. Nella vita, nella morte e nella risurrezione di Cristo, la comunicazione fra gli uomini ha trovato il suo vertice in Dio, il quale è diventato uomo e fratello. I mezzi di comunicazione sociale svolgono un ruolo in questa storia.

Il Concilio Vaticano II afferma che nella misura in cui può contribuire ad ordinare meglio l'umana società, il progresso è di grande importanza per il regno di Dio. I mezzi della comunicazione sociale possono contribuire ad estendere e a consolidare il Regno di Dio. Questo vale in modo particolare per Internet, che contribuisce ad apportare cambiamenti rivoluzionari nel commercio, nell'educazione, nella politica, nel giornalismo, nel rapporto fra nazioni e culture. Sono cambiamenti che riguardano non solo il modo in cui le persone comunicano, ma anche quello in cui interpretano la propria vita. Riflettendo su Internet, cosí come su altri mezzi di comunicazione sociale, ricordiamo che Cristo è il "perfetto Comunicatore", la norma e il modello del cristiano nel comunicare.

L'amore è relazione, implica capacità di relazionarsi, si potrebbe dire che è essenzialmente comunicazione: donazione reciproca fra un io e un tu per arrivare ad un "noi". La comunicazione piú alta non è neutra o puramente tecnica. La comunicazione nella sua espressione piú alta è personale ed è sempre un messaggio di amore, non è mai neutro. Cosí, nella Scrittura, soprattutto nel Vangelo, la comunicazione di Dio all'uomo è sempre un annuncio di salvezza. Questo è il nostro ideale: fare della nostra vita - pur in mezzo alle difficoltà del mondo - una comunicazione, un annuncio coraggioso dell'amore di Dio, dunque... "Non [...] vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1Pt 3,14-15).

 

 

Giovedí, 30 ottobre 2003

Festa dell'Arma di Cavalleria

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Ogni anno celebriamo la festa di questa antica e nobile Arma di Cavalleria. Ricordiamo i fatti singolari e drammatici di Pozzuolo del Friuli che salvarono i destini della nostra Nazione. Quando penso a quei luoghi - che ho visto da cappellano della Brigata omonima - e a quei fatti, sorgono nell’animo due sentimenti. Uno lieto ed uno un po’ velato di tristezza. Dico velato di tristezza perché penso a quell’epoca tragica, marchiata a fuoco dal dolore e dalla sofferenza. Quante volte nelle città e nei paesi del Friuli ho letto "Via Ragazzi del ‘99". È una sofferenza che ha lasciato tracce tangibili nei sacrari, nei monumenti di cui è disseminato il nostro Paese. Non c’è comune in Italia che non abbia il suo monumento ai Caduti, le sue lapidi, anche nelle chiese. I Caduti della prima grande e atroce guerra moderna della storia.

 Ricordo sempre con commozione i sacrari di Redipuglia e di Oslavia, dove piú volte ho celebrato la Messa. Però c’è anche un sentimento lieto, quando penso che i nemici di una volta oggi si ritrovano insieme a pregare, a visitare le tombe dei loro Caduti. Questo è il segno di una vittoria e di una conquista piú grande. Perché... noi, nei fatti di Pozzuolo del Friuli celebriamo la vittoria della nostra Patria; nella preghiera unanime dei nemici di ieri e degli amici di oggi, celebriamo una vittoria dell’umanità. Ricordando sempre però la nostra storia.

 Il cammino di un popolo verso la dignità e la libertà, purtroppo, spesso non avviene in modo indolore. La Costituzione che oggi abbiamo e che, soprattutto alle ultime generazioni, può apparire scontata non è stata scritta con un poco di inchiostro: la verità è che è stata scritta con tanto, tantissimo sacrificio. Noi godiamo oggi a piene mani di un patrimonio culturale, giuridico e umano immenso che ci è stato donato ma che altri hanno pagato a caro prezzo. Sappiamo quanto vale e quanto è costata un’ora sola della nostra libertà? Ci sono persone alle quali sembra insolito parlare di valori come la libertà all’interno di un contesto militare. Il mondo militare in molti richiama idee opposte a quelle di libertà. Ma nello Stato democratico è vero proprio il contrario. Noi abbiamo rinunciato a una parte della nostra libertà per garantire quella degli altri concittadini. Per noi le Forze Armate sono una garanzia di libertà e questo è un motivo di onore.

 Pensiamo al giuramento, quando abbiamo pronunciato le parole: "per la salvaguardia delle libere istituzioni". Istituzioni di cui dobbiamo essere tutti, anche nel nostro piccolo, custodi gelosi, anche critici, ma di una critica costruttiva. Soprattutto non dimentichiamoci di un dovere troppo spesso trascurato, quello della preghiera. Dice l’apostolo Pietro: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re» (1Pt 2,13-1).

 

 

Martedí, 18 novembre 2003

Celebrazione in suffragio dei caduti italiani di Nassiryia (Iraq).

Centro I. F. - Roma

Sento il dovere di ringraziarvi per questo momento di preghiera che avete voluto inserire in questa giornata. La pietà nei confronti dei nostri fratelli caduti è sempre una cosa gradita agli occhi di Dio. Questo gesto di misericordia spirituale porta con sé una grande benedizione. In occasioni come questa è difficile trovare le parole adatte, ma non possiamo solo tacere, anche se spesso il silenzio, unito alla preghiera è, fra tutte, la cosa migliore per momenti di cosí grande dignità. Ieri, nella camera ardente allestita presso l'altare della Patria, è stato uno spettacolo commovente quale la Nazione non vedeva da tempo. Sono momenti in cui si avverte la propria piccolezza, ma se con spirito di fede pensiamo al tributo che possiamo offrire a questi nostri fratelli, c'è una consolazione davvero grande.

Ho saputo che in mezzo a noi non mancano persone che hanno conosciuto da vicino i caduti di Nassiryia: i carabinieri e quelli della gloriosa Brigata Sassari. Questo contribuisce a dare al nostro momento di preghiera un maggior rilievo. Preghiamo soprattutto perché questi fratelli - come dice la Scrittura - siano liberati da ogni macchia di peccato e possano presentarsi al Signore per ricevere il premio che meritano coloro che hanno dedicato la loro vita al servizio della Patria. Come uomini e come cristiani dobbiamo raccogliere le nostre energie migliori per far fronte a questo momento cosí difficile.

Ci troviamo di fronte ad un nemico che cerca di innescare la spirale dell'odio. Un odio che vuole varcare i confini delle nazioni, delle culture, delle stesse fedi religiose. No! È troppo grande la nostra storia, la nostra cultura, la nostra fede, per cedere a questo disegno tanto miserabile quanto barbaro. Troppe volte nella nostra storia recente abbiamo inghiottito il boccone amaro del terrore. Troppe volte l'abbiamo conosciuto. Ma noi non perderemo nulla del nostro equilibrio, della nostra dignità, della nostra voglia di vivere, del nostro amore per la vita, per l'umanità. Non perderemo nulla di tutto questo... Anche perché sappiamo rispondere con la luce e con la forza della fede, della ragione, della civiltà e del diritto a questa sfida. Anche se questa non è una Caporetto voi, con la vostra opera, potete aiutare la nazione a capire qual è oggi il nostro Piave, dov'è che oggi, noi tutti, possiamo e dobbiamo fare barriera perché niente di estraneo all'umanità e alla civiltà possa passare.

 

 

Solennità della Santa Madre di Dio

1 gennaio 2004

Parrocchia San Giuseppe - Bologna

L'inizio dell'anno civile nell'antica Roma era legato ai festeggiamenti pagani. I cristiani attraverso il digiuno e la penitenza intendevano riparare per i peccati commessi in questo giorno. Negli antichi sacramentari romani si trovano formulari della Messa che racchiudono la supplica per la difesa contro il ritorno all'idolatria. Con la fine dell'antico paganesimo scompare il carattere penitenziale di questo giorno e la Chiesa celebra ora, il primo gennaio, l'ottava del Natale, dando alla liturgia un senso mariano: Maria medita nel suo cuore il mistero di Cristo, manifesta Cristo al mondo; e indica ai credenti come devono vivere il dono del tempo, orientati a Cristo. Maria poneva il suo cuore in Dio e perciò è stata degna madre del Salvatore e nell'ordine della grazia lo è di tutti noi.

Anche noi cerchiamo, rispondendo all'invito della Chiesa, di meditare queste cose nel nostro cuore, soprattutto la piú importante, quella che ha conseguenze profondissime nella nostra vita: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Cerchiamo di non dimenticare queste parole, fossero pure le uniche che ricorderemo e coltiveremo per tutto l'anno, perché porteranno un frutto straordinario. Queste parole divine ci ricordano che Dio non è lontano da noi, dalla nostra vita quotidiana, da ciò che ci è piú caro. Queste parole ci ricordano che Dio è entrato nella nostra storia, nella nostra vita, e si pone davanti a noi come un segno. Anche per noi valgono le parole di Simeone: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).

Certo Lui è venuto per la nostra salvezza, non per la nostra condanna. Siamo noi che ci condanniamo se rifiutiamo di farci illuminare dalla sua luce. E allora teniamo queste parole vive nella memoria, cerchiamo di dar loro uno spessore, dei colori; cerchiamo di animarle con la nostra immaginazione. Un tempo fra gli scopi che si prefiggevano i predicatori cappuccini non c'era solo quello di offrire delle valide riflessioni ma - cosa ben piú importante - quello di insegnare alla gente a pregare. Non con preghiere fatte di parole da ricordare a memoria, essi, infatti, insegnavano alla gente la cosiddetta orazione mentale: secoli prima del Concilio Vaticano II avevano capito molto bene che tutto il popolo di Dio era chiamato alla santità e alla preghiera.

E allora, preghiamo con il nostro cuore di fronte alle icone che il meglio della nostra intelligenza e della nostra immaginazione possono ricreare nella nostra mente, ecco cosí siamo tutti iconografi: vediamolo questo Verbo che si fa carne, gustiamo che cosa significa poter dire: mio fratello e mio Dio! Certo scopriremo di essere poveri ma la grazia di Dio viene in nostro aiuto santificando il nostro pensiero, i nostri affetti, la nostra intelligenza e facendo sbocciare il fiore della pace che deve nascere anzitutto dentro di noi. «Il figlio di Dio - dice S. Atanasio -, si fece figlio dell'uomo perché i figli dell'uomo, cioè di Adamo, divenissero figli di Dio» (cfr. ATANASIO, De incarnatione, 8). Chiediamogli di poter gustare tutto questo pur vivendo in mezzo alle cose di questo mondo. È Lui infatti la prima, l'unica, la vera consolazione, la vera gioia come c'insegna il Vangelo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesú Cristo» (Gv 17,3).

 

 

Domenica, 4 gennaio 2004

Parrocchia San Giuseppe - Bologna

«Viene nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (cfr. Gv 1,9). Citando questo passo di Giovanni, usiamo volutamente il presente, perché queste parole non riguardano solo il passato, ma anche la nostra epoca. La Chiesa in questa seconda domenica del tempo di Natale desidera che ci fermiamo a riflettere sulla venuta di Cristo: non è un fatto da commemorare storicamente, ma una realtà con cui confrontarsi. Dobbiamo però liberare il nostro cuore dalle incertezze che ci portiamo dietro dall'infanzia: siamo chiamati a diventare adulti nella fede e nella carità. Siamo chiamati a prendere posizione di fronte a Cristo e c'è un solo modo realistico per farlo: riconoscere i nostri peccati perché lui possa trovarci nella verità. Non è dunque difficile accogliere Lui che è pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1,14).

Parliamo di un incontro preparato e voluto da lungo tempo. Il libro del Siracide ci parla già del mistero della Sapienza che pone la sua tenda in mezzo agli uomini: «...il creatore dell'universo mi diede un ordine, il mio creatore mi fece posare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele» (Sir 24,8). Sembra di cogliere un'allusione al mistero dell'Incarnazione, dove la natura divina e la natura umana si sono finalmente unite in modo perfetto. Papa S. Leone Magno (440-461) ne parla in uno dei suoi sermoni: «[Si unirono] con un legame tanto stretto, che la gloria non consumò la natura inferiore né l'assunzione diminuí la natura superiore. [...] dalla maestà viene assunta l'umiltà, dalla forza l'infermità, dall'eternità la mortalità; e per cancellare il debito della nostra condizione, la natura passibile si è unita alla natura inviolabile: il Dio vero e l'uomo vero sono presenti nell'unico Signore» (cfr. LEONE MAGNO, Sermoni, 21). Eppure nonostante questo - dice S. Paolo - il mondo... «con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio» (cfr. 1Cor 1,21): ecco la mentalità di questo mondo. In Giovanni il termine «mondo» non designa solo l'universo o il genere umano, ma anche l'insieme di coloro che rifiutano Dio e perseguitano con odio Cristo e i suoi discepoli. Certo sappiamo bene che le vie di Dio sono diverse (cfr. Is 55,9) dalle vie degli uomini, ma sappiamo anche che ciò che è impossibile all'uomo è possibile a Dio. L'uomo non può arrivare fino a Dio, ma Dio può arrivare all'uomo, per salvarlo, dovunque e comunque si trovi.

Non esiste disperazione e miseria umana che Dio non possa curare, non c'è niente che Dio non possa salvare. Non esiste pianto che Dio non sappia tramutare in sorriso. È questa certezza che nella lettera agli Efesini muove Paolo a gioire perché Dio «...ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesú Cristo» (Ef 1,4-5). Questo Gesú, che fra qualche giorno contempleremo nel mistero dell'Epifania è il Dio-con-noi venuto ad offrirci la salvezza. Perciò - dice il salmista - «Se oggi sentite la sua voce, non indurite il vostro cuore» (cfr. Sal 95,8).

 

 

Venerdí, 2 aprile 2004

Precetto pasquale

Centro I. F. - Roma

Grazie per la vostra partecipazione a questo incontro di preghiera. Vogliamo prepararci insieme alle celebrazioni pasquali ormai prossime e riflettere sulla nostra realtà quotidiana, ma alla luce della fede. Quando si affrontano momenti difficili, come questi, si ha bisogno piú che mai di punti di riferimento certi. L'esperienza ci insegna che di fronte ai problemi piú gravi della vita il potere umano serve a poco. Per questo il salmo 147 dice che il Signore... «Non fa conto del vigore del cavallo, non apprezza l'agile corsa dell'uomo» (Sal 147,10). Può darsi che qualcuno oggi confidi in mezzi ben piú potenti ma il salmo 20 ammonisce: «Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli, noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi» (Sal 20,8-9).

Il salmo 144 ci ricorda invece chi è Colui che può aiutarci a condurre la buona battaglia: «Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia» (Sal 144,1). Ma di quale guerra e di quale battaglia parliamo? Dice l'apostolo Paolo: «La nostra battaglia [...] non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male» (Ef 6,12-13). Non parliamo di superstizioni o paure ancestrali, ricordiamo, infatti, che dietro la cattiveria umana c'è spesso un potere malvagio di gran lunga piú profondo. Un potere del quale l'uomo è in ultima analisi sempre vittima piú o meno inconsapevole. Ecco perché la prima battaglia la dobbiamo condurre dentro di noi. Noi per primi dobbiamo liberarci dal male con l'aiuto di Dio. Non facciamo l'errore di credere che questo sia solo un pio discorso.

È una riflessione che si concretizza se comprendiamo che abbiamo bisogno di forza morale, di motivazione, di equilibrio. Abbiamo bisogno di affrontare le sfide che la vita ci impone non mossi dall'emotività, dal risentimento o solo dalla logica e dal calcolo: nulla di quanto accade deve compromettere la nostra serenità interiore; l'azione e la ragione non devono estinguere quanto di meglio abbiamo: la capacità di amare, di costruire, di perdonare, di camminare in avanti, sempre. Che fallimento... se la nostra azione e la nostra operazione perdono di vista ciò che è l'uomo con tutta la sua ricchezza interiore. Questa, con l'aiuto della grazia di Dio, è l'arma piú potente che abbiamo: la risorsa umana. Le nazioni sono grandi se hanno uomini grandi. Abbiamo bisogno di coltivare le risorse umane. La misura dell'amore che deve ispirarci la troviamo nella Passione che il Signore affronta per la nostra salvezza.

Forse qualcuno, pensando alla Croce, porrà l'accento sul concetto di espiazione dei nostri peccati. Sí, la crocifissione è anche questo, ma... soprattutto e molto di piú... è il prezzo che il Signore ha voluto pagare per attirare l'attenzione del nostro cuore. In un'autentica theologia crucis la Passione è la risposta di Dio al dolore umano. Quella croce di cui Cicerone diceva che... «la menzione stessa è assolutamente indegna di un cittadino romano e di un uomo libero» (cfr. MARCUS TULLIUS CICERO, Pro Rabirio perduellionis reo, 16-17,1-8). La crocifissione molto piú che ristabilimento della giustizia e dell'ordine morale è la libera scelta di un amore che ci chiama singolarmente per nome. Haec est fides victoria nostra (1Gv 5,4): questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede! Questo è il punto da cui possiamo partire per guardare alla luce della Pasqua, preludio della nostra risurrezione: «e noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).

 

 

Solennità di Pasqua, 11 aprile 2004

In occasione dei campionati internazionali di ippica.

Ippodromo Militare di Tor di Quinto - Roma

Questo giorno è un giorno di grazia e di liberazione. Liberazione dalla paura, dal peccato e dalla morte. In questo giorno Dio salva l'umanità dal potere del male. Cosí il nostro Dio, vero Dio e vero uomo, rivela la profondità del suo amore per noi, un amore eterno, un amore incondizionato. L'apostolo Paolo, scrivendo ai romani, ci ricorda che: «Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morí per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,6-8).

Dio ci ama, non per la nostra giustizia, non per la nostra bontà. No! Dio ci ama perché Lui è amore. Di fronte a questa verità la nostra conversione è quanto mai urgente: il nostro contributo al corpo mistico della Chiesa, al progresso spirituale dell'umanità è essenziale: noi siamo poca cosa in questo mondo, ma nello spirito possiamo essere grandi: il cuore umano, per la grazia di Dio può essere piú grande di tutte le cose. Cari fratelli e sorelle, l'amore di Dio è la vera ragione della nostra vita. La morte non avrà l'ultima parola nella nostra vita. Cristo, infatti, è davvero risorto, alleluia.

This day is a day of grace and liberation! Liberation from the fear, from the sin, from the death! In this day God saves the mankind from the power of the evil! In this way our God, true God and true man, reveal the depth of his love, an eternal love, an unconditional love. The apostle Paul, writing to the Romans, remembers us: «When we were still helpless, at the appointed time, Christ died for the godless. You could hardly find anyone ready to die even for someone upright; though it is just possible that, for a really good person, someone might undertake to die. So it is proof of God's own love for us, that Christ died for us while we were still sinners» (Rm 5,6-8).

The Lord loves us, not for our justice, not for our goodness. No! God loves because He is love! In front of this truth our conversion is necessary and important: our contribution to the mystical body of the Church, to the human spiritual progress is essential: we are little thing in this world, but in the spirit we can be great: the human heart, for the grace of God, can be greater than all the things! Dear brothers and sisters, the love of God is the true reason for our life! Death won't have the last word in us! Christ is risen indeed, hallelujah!

 

 Ippodromo Militare di Tor di Quinto

Ippodromo Militare di Tor di Quinto

 

 

 

Martedí, 4 maggio 2004

Festa dell'Esercito

Centro I. F. - Roma

Grazie per la vostra partecipazione a questo incontro di preghiera. Quello che la liturgia ci propone oggi è un brano impegnativo. Anche noi ci chiediamo chi è Cristo e ciascuno deve rispondere a questa domanda che riguarda anche le nostre realtà ultime. E noi che cosa siamo ai suoi occhi? Anche questa è una domanda importante: dobbiamo essere consapevoli della nostra vera identità. Noi possiamo e dobbiamo vedere la nostra professione, la nostra vocazione alla luce della fede. Non ha alcun dubbio il Concilio Vaticano II quando afferma:

«Coloro [...] che, dediti al servizio della patria, esercitano la loro professione nelle file dell'esercito, si considerino anch'essi come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch'essi veramente alla stabilità della pace» (GS 79).

Se dovessimo fare un bilancio dei luoghi e delle nazioni dove la nostra presenza, la nostra uniforme è stata sinonimo di pace, libertà e sicurezza, l'elenco sarebbe ormai davvero lungo. C'è veramente di che essere orgogliosi e di che ringraziare Dio che opera cose grandi anche attraverso di noi. C'è un passo nel Vangelo che ci aiuta a riflettere ulteriormente sulla nostra vocazione, lo troviamo nel Vangelo di Luca, relativamente alla predicazione di Giovanni il battista: «Lo interrogavano anche alcuni soldati: "E noi che dobbiamo fare"? Rispose: "Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe"» (Lc 3,14). Una risposta dall'apparenza semplice ma non certo priva di significato per uomini disprezzati dai giudei al pari dei soldati romani e dei pubblicani.

Giovanni, pur cosí esigente dal punto di vista della fede e della morale, non dice loro di abbandonare la professione militare, ma sottolinea tre punti fondamentali:

- non maltrattate nessuno: questo significa chiaramente che una cosa è l'uso della forza quando è comandato dalla legittima autorità e ben altra cosa è l'uso arbitrario e privato di essa;

- non estorcete niente a nessuno: anche in questo caso si tratta di rifuggire dall'uso arbitrario della forza; non si può mettere a rischio la propria e l'altrui vita se non quando è richiesto dalle circostanze e comandato dalla legittima autorità e neppure si può ledere arbitrariamente l'altrui diritto alla proprietà e ai beni essenziali;

- contentatevi delle vostre paghe: denota l'autenticità della vocazione del soldato.

La professione militare - se è autentica - non può sottostare alla speculazione economica, non può ridursi a mera fonte di guadagno e, soprattutto, il soldato, in ultima analisi, non lega la sua scelta alla moneta ma a dei principi morali: il vero soldato non potrà mai essere un mercenario e mutare la sua fedeltà in cambio di un compenso economico. Questo significa anche che il soldato deve poter vivere solo del suo lavoro: è una professione che ha una dignità e che esige dunque un riconoscimento. Solo a queste condizioni è possibile essere davvero - come insegna la Chiesa - ministri della sicurezza e della libertà dei popoli.

 

 

Solennità di S. Matteo apostolo, Patrono della Guardia di Finanza

21 settembre 2004

Centro I. F. - Roma

Il 10 aprile 1934, papa Pio XI, con breve pontificio, dichiarava l'apostolo Matteo Patrono presso Dio della Guardia di Finanza,'auspicio che sul suo esempio, tutti gli appartenenti a questo Corpo, potessero unire'esercizio fedele del dovere verso lo Stato alla sequela Cristo. I vangeli non sono prodighi particolari circa la vita Matteo, il pubblicano, detto anche Levi, figlio Alfeo (Mc 2,14). Sappiamo bene che egli non godeva di buona fama presso i suoi concittadini. I pubblicani erano persone che i costumi o la professione malfamata (Mt 5,46) rendevano "impure", quindi da evitare. In particolare erano sospettati di non osservare le numerose norme sulla purità legale riguardanti l'alimentazione: ecco perché non era possibile, ed era scandaloso, mangiare insieme con loro.

Ma ciò che forse era considerato piú odioso era l'esazione feroce delle tasse ai propri fratelli di fede in nome e per conto, non certo di Israele, ma dell'odiato invasore romano. Scrive san Giovanni Crisostomo: «L'attività del pubblicano era [...] assai vergognosa e veniva esercitata con arroganza; si trattava di un impudente traffico che procacciava un illecito guadagno, di un vero e proprio furto, praticato sotto la protezione della legge» (cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matth., 30, 1). Perché allora chiamare al servizio del Vangelo un uomo cosí mal visto? È evidente che il Signore non segue le regole del politically correct. C'è una sola spiegazione possibile, che lascia interdetta una morale tanto povera quanto chiusa qual è quella legalista dei farisei. È una spiegazione che ci riguarda da vicino:

«La divinità venne all'umiltà, perché l'umanità arrivasse alla divinità, venne il giudice al pasto dei rei, perché il reo pervenisse ad una sentenza di umanità» (cfr. S. PIER CRISOLOGO, Sermo 30, 3-5). Quello di Cristo è un tribunale davvero paradossale, dove per essere assolti bisogna dichiararsi colpevoli. Perché dire di essere innocenti significherebbe mentire alla Verità stessa. Infatti dice il libro dei salmi che. «Il Signore dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio: se c'è uno che cerchi Dio. Tutti hanno traviato, sono tutti corrotti; piú nessuno fa il bene, neppure uno» (Sal 14,2-3). Infatti l'apostolo Paolo scriverà ai romani: «Dio [...] ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!» (Rm 11,32). Misericordia, ecco la parola chiave che non può essere fraintesa con un'assoluzione generale - more humano - perché passa attraverso la conversione radicale della persona.

Ecco la lezione data ai dottori della legge che giudicano: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13). Qui Gesú cita un passo del profeta Osea: «.poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio piú degli olocausti» (Os 6,6). Dio non vuole il sangue versato e non saprebbe che farsene di una giustizia che ristabilisce l'ordine delle cose ma lascia immutato ciò che piú conta: il cuore umano. Questa è anche la sola ragione che poteva spingere Matteo, il pubblicano, ad un mutamento cosí radicale. «Anch'io, come Levi, - scrive sant'Ambrogio - ero piagato dalle vostre stesse passioni. Ho trovato un Medico, il quale abita in Cielo e diffonde sulla terra la sua medicina. Lui solo può risanare le mie ferite, perché non ne ha di proprie. Lui solo può cancellare il dolore del cuore, il pallore dell'anima, perché conosce i mali nascosti» (AMBROGIO, In Luc. 5, 19.27).

 

 

Solennità di S. Michele, Patrono della Polizia di Stato

29 settembre 2004

Centro I. F. - Roma

Il 29 settembre 1949 Papa Pio XII scelse quale Patrono della Polizia di Stato S. Michele Arcangelo riferendosi ai testi biblici (Ap 12,7-10) dove egli appare quale difensore della giustizia. Michele (Michahel in latino - Quis ut Deus): è la prima creatura - come si desume dal testo biblico - che si è opposta e ribellata alla logica del male. Il Papa S. Gregorio Magno (vissuto fra il 540 e il 604) dice: «L'esistenza degli angeli è attestata da tutte le pagine della Scrittura» (34, in Evang., n. 9). Per farcene un'idea valida dovremmo esaminare circa 135 passi dell'AT e 172 passi del NT, in totale 307 passi, senza contare tuttavia i riferimenti indiretti. Anche la riflessione filosofica postula una gerarchia, una gradualità nella scala degli esseri, che induce ad ammettere la loro esistenza.

Noi avvalendoci dell'insegnamento dei Padri e dei Dottori della Chiesa, possiamo dire sinteticamente che la loro natura è puramente spirituale e che gli aspetti dominanti nel loro essere personale sono la carità, la sapienza, la potenza, in una armonia cosí perfetta da riflettere in modo straordinario la perfezione di Dio. Bisogna dire tuttavia che per quanto la loro natura sia singolare non lo è da meno quella umana dove lo spirito e la materia si fondono in maniera perfetta riassumendo l'intero ordine universale della creazione, quella visibile e invisibile, quella materiale e quella spirituale.

La Sacra Scrittura ci trasmette i nomi dei tre arcangeli - Michele, Raffaele e Gabriele -; di qui il culto particolare che si cominciò a rendere loro. Il culto di san Michele era diffuso in Oriente già nel IV secolo; ne danno testimonianza molte chiese dedicate all'arcangelo. In Occidente, soprattutto in Italia, il culto di san Michele risale fin dall'inizio del V secolo. A Roma, la festa in suo onore veniva celebrata il 29 settembre, giorno della consacrazione della basilica dedicata a san Michele, presso la via Salaria. Oltre alla liturgia, anche il magistero pontificio è intervenuto piú volte, nel corso dei secoli, per definire la dottrina a loro riguardo. A noi però, in questo momento, interessa la testimonianza della liturgia perché esprime in modo evidente un rapporto di comunione.

Un rapporto che, a dispetto delle nostre riflessioni timide e balbettanti, evidenzia la legge della carità che unisce noi, le creature piú umili a loro, ben piú grandi, ma grandi soprattutto nell'amore. «Gli spiriti immortali e beati, - scrive sant'Agostino nel De civitate Dei - che abitano le sedi dei cieli e godono della partecipazione al loro Creatore - per la cui eternità sono saldi, nella cui verità sono certi, per il cui dono sono salvi - amano con grande misericordia noi, mortali e miseri, desiderando che diventiamo beati e immortali; [...]. Con loro, infatti, noi formiamo l'unica città di Dio, della quale si dice nel salmo: Di te si dicono cose stupende, città di Dio (Sal 86,3)» (cfr. AGOSTINO D'IPPONA, La città di Dio, 10,7).

 

 

Venerdí, 22 ottobre 2004

Esequie del capitano Andrea De Sanctis

Centro Ippico Militare di Tor di Quinto - Roma

Carissimi genitori, familiari e amici di Andrea, Signor Ministro della Difesa, signor Generale Comandante di ComFoTer, signor Generale della Brigata Granatieri di Sardegna, signor Comandante, cari reduci di Porta San Paolo, amici dell'Associazione Nazionale di Cavalleria, ufficiali, sottufficiali, lancieri: rendiamo omaggio a questo nostro fratello che ha combattuto la sua buona battaglia (2Tm 4,7). Vi porgo anche i saluti e le condoglianze del nostro Ordinario Militare, impossibilitato ad intervenire a causa di altri impegni fuori sede. In momenti come questo sento ancora piú viva l'insufficienza della mia persona di fronte al ministero affidatomi.

Mi tirerei indietro se non fossi consapevole del bene che Dio opera sempre a dispetto della nostra debolezza. Egli vi conceda la grazia che sorpassa ogni desiderio. Ricordiamo con simpatia un uomo mite, semplice, che amava la sua professione e viveva lo spirito della cavalleria. Un uomo distinto, che non amava il rumore, un uomo che è passato accanto a noi - direi - quasi in punta di piedi, con discrezione. Non ci rendiamo ancora conto del vuoto che ha lasciato. Sembra quasi che davanti a noi ci sia come uno stendardo caduto sul campo di battaglia e questo ci rattrista... ma noi siamo cristiani, noi portiamo le stellette, siamo anche combattenti dello spirito.

E in questa battaglia contro il male, che conduciamo quotidianamente, la resa non è mai contemplata. Saremmo vili se vedendo cadere un nostro compagno o lo stendardo ci facessimo cogliere dalla paura e fuggissimo. Dice l'apostolo Paolo: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura» (Rm 8,15). La morte di ogni uomo è sempre un attentato contro Dio, contro l'umanità, contro la fede. È sapete qual è la tentazione che lo spirito del mondo vuole insinuare con la morte? Quella della resa morale e spirituale. Ecco perché l'atteggiamento del mondo oggi dinanzi alla morte è quello della paura; il mondo vuole far finta di non vedere la morte. Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura. Se lo stendardo dovesse cadere in battaglia lo si solleva nuovamente riprendendo la lotta con piú coraggio di prima. E allora vogliamo lottare?

Ufficiali, sottufficiali, lancieri... vogliamo rendere onore a Dio e a questo fratello raccogliendo la sfida e lottando... con fede, con speranza, con carità? Facciamo del nostro meglio per essere degni di questo dono cosí grande della vita. Gli onori militari che ora rendiamo sono di un momento, ma gli onori che rendiamo con una vita degna sono per l'eternità. Voglia il Signore che questo fratello, aiutato dalla nostra preghiera, dal nostro sacrificio, possa fare sue quanto piú è possibile le parole benedette dell'apostolo Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2Tm 4,7-8).

 

 Marina Militare

Marina Militare

 

 

 

Solennità di S. Barbara, Patrona della Marina Militare

4 dicembre 2004

Centro I. F. - Roma

Celebriamo questa solennità in comunione di spirito con tutti i marinai che oggi onorano Dio festeggiando la loro patrona: santa Barbara. Lo facciamo anche alla presenza della bandiera che abbiamo deposto sull’altare, come offerta gradita a Dio. Una bandiera che sventola nei mari di tutto il mondo e certamente anche nei cuori di tantissimi marinai che lavorano, soffrono e rischiano la vita lontano dalle loro case.

 Nella simbologia biblica il mare che si presenta con una superficie affascinante e ingannevole è qualcosa di inquietante; è l’espressione del caos primordiale che attende la parola ordinatrice di Dio: la parola che trae la bellezza dal caos informe. È in questo mare, spesso tempestoso, che la nave rappresenta la salvezza. Presso gli antichi pagani Platone parlava della "nave dello stato" e dei vantaggi che essa offriva se governata da un buon timoniere.

 È nella Sacra Scrittura tuttavia che la nave assume l’immagine dell’arca della salvezza. Nel libro dei Proverbi il "sentiero della nave in alto mare" (Pr 30,19) è una di quelle cose che l’uomo non può comprendere: in esso si allude al dramma della vita umana e delle sue vie misteriose che solo Dio può conoscere; solo lui può far sí che la nostra nave raggiunga il porto sicuro, attraverso le ingiustizie di questo mondo. È nel Vangelo, infine, che Cristo, il Verbo fatto carne, si rivolge a degli umili pescatori per fare di loro gli apostoli del regno di Dio. Spesso la barca, specie quella di Pietro, diventa anche il luogo da dove viene annunciata la Parola di Dio.

 E la barca di Pietro, che diventa immagine della Chiesa, è ancora una volta l’arca della salvezza, sempre agitata dai flutti, ma sempre vittoriosa. Anche l’apostolo Paolo usava spesso l’immagine della nave nei suoi scritti e nella sua predicazione: chi ripudia la fede e la buona coscienza - dice nella 1Tm (1,19) - farà naufragio: non raggiungerà cioè il vero scopo della vita. Anche la virtú teologale della speranza, grazie alla quale desideriamo e aspettiamo la vita eterna e tutti i suoi beni senza alcun male, è simboleggiata dall’ancora: un’ancora sicura e salda.

 Se solo alcuni sono chiamati ad entrare a far parte della "gente del mare" tutti però sono chiamati a salire a bordo della barca di Pietro, dove troveranno il loro rifugio e la loro salvezza. Questa barca è al tempo stesso rifugio e premio: il rifugio che conduce al premio. È ad essa che dobbiamo aspirare ed è questa l’eredità spirituale e preziosa che invochiamo per i nostri caduti. Noi preghiamo sempre per loro, affinché abbiano il premio delle loro fatiche e al tempo stesso chiediamo a loro di pregare per noi: perché sappiamo seguirli e pure superarli nella strada della perfetta carità.

 S. Barbara è stata una testimone del Vangelo, della sua realtà: una realtà per cui vale la pena di dare la vita, perché Dio è il senso della nostra vita. Lei ci insegna che Cristo è la risposta ai nostri desideri, alle nostre aspirazioni, alle nostre preghiere... tutte... soprattutto alla piú grande che possiamo fare: chiedere di vivere e di amare nella sincerità e nella purezza. Dice il Signore: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,23-24).

 

 

Lunedí, 20 dicembre 2004

Precetto natalizio

Centro I. F. - Roma

Riconoscere la gloria di Dio e contemplarla è la pace dell’uomo. Questa gloria, che per secoli è rimasta velata allo sguardo umano, assume un volto visibile, assume un volto umano. Dio si incarna nella storia rendendola storia di salvezza. Un’irruzione nella storia che nessuno potrà fermare, neppure i miseri calcoli politici di un re, sia esso Acaz o - secoli piú tardi - Erode... o noi stessi. È giusto pensare a momenti di sosta come questo ed è ancora piú giusto cercare di approfondire la propria fede. Non fermiamoci alla superficie di una tradizione, pur lodevole, ma cerchiamo davvero una luce interiore sempre piú intensa. Dobbiamo capire quel che celebriamo, capire che ciò che ci offre il Natale può e deve diventare un’esperienza quotidiana. Chi scopre il vero volto di Cristo celebra interiormente questa festa ogni giorno della sua vita. La nascita di Cristo, l’ingresso di Dio nella storia umana è anzitutto il segno di un "amore soprannaturale": qualcosa di infinitamente piú grande di qualsiasi amore umano.

 Un amore che ci interroga, ci provoca, che attende una risposta... personale: una risposta di fede e non semplicemente moralistica. Se la fede fosse riducibile alla morale forse ci sarebbero bastati gli antichi filosofi pagani, forse ci sarebbe bastata la legge di Mosè. Ma il senso della vita, la salvezza, non vengono dalla morale... dalla legge. Scrive l’apostolo Paolo ai romani: «Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesú Cristo nostro Signore!» (Rm 7,21-25).

 Ecco la nostra liberazione. L’amore di Dio in Cristo diventa visibile, diventa carne, diventa uomo... ma la sua carne è la nostra salvezza. Dio ama e attende una risposta a questo amore. Un amore che a differenza del nostro non è possessivo: è davvero diverso dal nostro. Grazie a lui non siamo piú schiavi della legge e del peccato. Afferma ancora san Paolo: «Prendendo [...] occasione [dal] comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto [...]. Ma, sopraggiunto [il] comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte» (Rm 7,8-10). Quello che preme a Dio non è il nostro peccato, ma il nostro cuore. Ecco perché la nostra fede non è "islam", cioè non è sottomissione: «Non vi chiamo piú servi, [dice l’apostolo Giovanni] perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Siamo chiamati all’incontro personale con Dio, al dialogo nella verità: nella Chiesa, infatti, non esiste il puro ritualismo. Rifuggiamo alla deriva individualista, alla religione falsa di un "dio a nostra immagine e somiglianza". È anche per questo che la Chiesa ci chiede sempre di confrontarci con un’altra persona, con il sacerdote, prima di amministrarci un sacramento, vuole, infatti, verificare la nostra fede. Anche in questo si manifesta la pedagogia divina che risponde alla verità profonda sull’uomo e sulla sua dignità. Non perdiamo mai di vista la dignità dell’uomo cosí come la fede ce la rivela. Su cosa si fondano del resto le nostre democrazie? Su valori cristiani fino a ieri ovvi e condivisi. Smantellare questi fondamenti è pericoloso e l’abuso della libertà degenera nel totalitarismo. È su queste cose che il Bambino che attendiamo... ci costringe a riflettere. Il Natale non è devozionismo: l’amore di Dio ci spinge all’amore concreto per l’uomo, fino alla crocifissione. Per noi la croce è segno irrinunciabile non solo per ragioni storiche e culturali - pure esse valide -, ma perché è il segno, l’unico segno, di un amore che non conosce confini.

 

 

Venerdí, 18 marzo 2005

Precetto pasquale

3º Rgt. Trasmissioni - Roma

Le letture che abbiamo ascoltato ci parlano dei momenti piú drammatici della vita del profeta Geremia: un testimone coraggioso e sincero della Parola di Dio, ma proprio per questo esposto all'odio dei suoi persecutori. È cosí profonda la sua sofferenza che il profeta invoca la vendetta di Dio. Anche nel Vangelo cogliamo un momento drammatico: uno scontro durissimo, fra Gesú e i giudei increduli. Increduli a tal punto da non accettare neppure l'evidenza dei fatti: «...anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me» (Gv 10,37). La risposta a queste parole è ancora un gesto di odio.

Gesú però, a differenza dell'antico profeta, non invoca vendetta. «Non sono venuto - dice - per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47). Se il mondo capisse, quanto è vicina la salvezza che il Signore gli offre! «...Non è in cielo, perché tu dica: "Chi per noi salirà in cielo, ce lo prenderà e ce lo farà ascoltare, affinché lo mettiamo in pratica?". Non è al di là del mare, perché tu dica: "Chi passerà per noi al di là del mare, ce lo prenderà e ce lo farà ascoltare, affinché lo mettiamo in pratica?". Perché la parola ti è molto vicina: è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,12-14). In interiore homine habitat veritas (cfr. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De vera religione, XXXIX, 72), diceva sant'Agostino: la verità, Dio, abita, si manifesta nel cuore dell'uomo.

Purché l'uomo sappia fermarsi, sappia ascoltare... Purché l'uomo non rinchiuda la voce di Dio negli spazi angusti di un momento formale e sterile. Noli foras ire, in teipsum redi (AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De vera religione, XXXIX, 72): non uscire fuori, rientra in te stesso. Non cercare Dio fuori, non andare lontano, magari in Oriente, a cercarlo chissà in quale paese esotico o nelle cose, negli innumerevoli idoli di questo mondo. Non cerchiamo forse la felicità dappertutto, ma proprio dappertutto, tranne che in Dio? La cerchiamo nel potere, nel possesso, nel piacere, dovunque, tranne che in Lui. E invece la felicità sta in Lui... e Lui è presente nel profondo del nostro cuore... in attesa di un poco di attenzione, di silenzio... di volontà. L'amore non è fatto di sentimenti... muove anche i sentimenti... ma è ben piú solido di loro, piú solido della roccia stessa. L'amore è fatto di volontà... volontà di bene.

La roccia non è in grado di volere, non può darsi l'essere, non può mutare di sostanza. L'uomo ogni volta che vuole può porre in essere qualcosa di nuovo. Certo, non possiamo trarre la materia dal nulla, ma possiamo porre in essere la forza piú grande dell'universo: possiamo decidere di voler bene, di amare. Questa è infatti l'opera piú grande della nostra vita. Dice l'apostolo Paolo: «Non abbiate debiti con nessuno, se non quello di amarvi gli uni gli altri. Chi infatti ama l'altro, compie la legge. Infatti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualunque altro comandamento trova il suo culmine in questa espressione: Amerai il tuo prossimo come te stesso. L'amore, infatti, non procura del male al prossimo: quindi la pienezza della legge è l'amore» (Rm 13,8-10).

 

 

Solennità di S. Giorgio martire, Patrono dell'Arma della Cavalleria

22 aprile 2005

Rgt. "Lancieri di Montebello" (8º) - Roma

Carissimi amici del Montebello, signor Generale della Brigata Granatieri di Sardegna, signor Comandante, cari reduci di Porta San Paolo, amici dell'Associazione Nazionale di Cavalleria, ufficiali, sottufficiali, lancieri: oggi abbiamo piú motivi per allietarci in questa festa che diventa ogni anno piú bella: il nostro Patrono San Giorgio e l'elezione del nuovo Papa. Abbiamo pregato insieme nei momenti piú importanti di questi ultimi giorni e ora ne godiamo i frutti. Il Signore ci ha donato veramente un Padre, un Pastore secondo il suo cuore, un uomo buono, di grande cultura e di grande mitezza; un uomo che ci dirà ciò di cui abbiamo davvero bisogno con verità e carità, che ci aiuterà a discernere coraggiosamente il bene dal male.

Ci parlerà non per compiacerci ma per aiutarci a capire quanto è buono, quanto è bello Dio. In lui abbiamo un uomo segnato, fra l'altro, dall'esperienza della guerra e che già a sedici anni ha indossato un'uniforme e che - ne sono certo - sentiremo vicino alla Chiesa Militare. Accompagniamolo sinceramente con la preghiera e con l'affetto, questo è quello che lui sta già facendo per noi e lo farà fino alla fine, come il suo predecessore. Noi facciamo la nostra parte, come uomini e come militari. Siamo in un periodo di difficoltà? Questo è un motivo di piú per dare il meglio di noi stessi. Se non facessimo cosí saremmo dei colpevoli. Portiamo la nostra uniforme con dignità. Ci si santifica attraverso, non nonostante, la propria professione militare.

Diventando militari abbiamo rinunciato ad una parte della nostra libertà, abbiamo scelto un servizio: abbiamo dei doveri nei confronti degli altri e in primo luogo nei confronti della Nazione. Non pensate a un invito retorico: oggi ci sono correnti di pensiero che insistono nell'insinuarci l'idea che amare la propria nazione, amare la propria cultura, la propria identità sia egoismo, sia quasi un peccato. Questa è una menzogna. L'amore comincia da coloro che ci sono vicini per estendersi ai piú lontani: giustamente parliamo di "amore del prossimo". L'amore che guarda solo lontano e non sa o non vuole vedere il vicino è falso. Il retto amore di sé non è di ostacolo all'amore per gli altri, anzi ne costituisce la naturale premessa. Ecco perché diciamo sempre: amate la nostra Nazione, la nostra cultura, la nostra identità, amiamo tutti... nella verità. Sappiate discernere: il vero altruismo non accetta schemi o preconcetti ideologici... mai!

Anche cosí conduciamo la nostra buona battaglia: esigendo chiarezza e non accettando equivoci. Il mondo migliora spesso grazie a poche persone che hanno il coraggio di fare tanto, di andare contro corrente, e che hanno la pretesa di cambiare davvero se stessi prima ancora che gli altri. Anche questa è una grazia di Dio, un dono che Lui ci farà se vorremo entrare nel numero di quei pochi che hanno avuto il coraggio di fare tanto. Non dimentichiamo mai la promessa di Dio: «Chi [...] mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32).

 

 

Sabato, 26 novembre 2005

S. Messa di suffragio del gen. C. A. Pietro Giannattasio

Rgt. “Lancieri di Montebello” (8°) - Roma

«Ricordati, Signore del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre» (Sal 25,6). Queste parole, tratte dal salmo 25, cariche di amore confidente, paiono quasi il lamento di un figlio verso il papà lontano; sono parole che sottolineano invece, in modo straordinario, la grandezza della paternità divina. Proprio a proposito dei salmi S. Agostino dice: «Per essere opportunamente lodato dall’uomo, Dio stesso si è lodato; e poiché si è degnato di lodare se stesso, per questo l’uomo ha trovato come lo possa lodare» (AUGUSTINUS, Expositio in Psal. 144, 1).

No, queste non sono parole umane, è Dio stesso, che ci insegna a parlare, a pregare con amore. Dio stesso ci ricorda che il suo amore è per sempre, Dio stesso attesta che non vuole ricordare i peccati della nostra giovinezza, che si ricorda di noi nella sua misericordia, che allevia le angosce del nostro cuore, ci libera dagli affanni e… vede la nostra miseria e la nostra pena.

Perciò, possiamo dire con fede: «O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce» (Sal 25,22). Quell’Israele, di cui parla il salmista, siamo noi, e lo siamo davvero se - direbbe l’apostolo Giovanni - «…attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1Gv 4,14), «Chiunque riconosce che Gesú è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. [Beati] Noi [se] abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi» (cfr. 1Gv 15-16).

E c’è una ragione profonda per questa beatitudine, perché - dice sempre l’apostolo Giovanni - «nell’amore non c’è timore» (1Gv 4,18), ecco «perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio» (1Gv 4,17). Quel «giorno [che] verrà come un ladro; [quando] i cieli con fragore passeranno, [e] gli elementi consumati dal calore si dissolveranno» (2Pt 3,10). Quel giorno che il mondo teme; quel giorno che il mondo cerca invano di occultare e dimenticare. Dimenticare è la parola chiave del mondo, non ricordare (che significa riportare al cuore): colui che crede di godere dell’avventura grande e straordinaria della vita per un caso, non ha nulla da sperare e tutto da temere.

Appellarsi al caso, in ultima analisi, significa rinunciare alla propria dignità intellettuale. Tornano alla mente le parole di Benedetto XVI che suonano come una professione di fede: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di piú bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di piú bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui» (BENEDETTO XVI, Omelia del 24 aprile 2005). Con Lui che ci assicura: «Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40).

Cosí possiamo fare eco con l’apostolo Paolo: «Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesú è morto e risuscitato; cosí anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesú insieme con lui. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole» (1Ts 4, 13-14.18).

 

 

Precetto natalizio

Giovedì, 15 dicembre 2005

Comando C4 S. M. Difesa - Roma

«Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,7). Carissimi, la prima lettura che abbiamo appena ascoltato ci parla in modo intenso e drammatico del rapporto fra Dio e l'umanità. Un rapporto fatto di passione divina e d'infedeltà umana il cui paradigma è quello del rapporto fra lo sposo e la sposa. Un tema nuziale dunque che solo apparentemente non sembra intonarsi all'attesa del Natale. Il Natale, infatti, richiama anzitutto alla nostra memoria l'immagine del bambino, l'immagine del Dio fatto uomo, fatto bambino, ma anche l'immagine della nostra giovinezza. Non dobbiamo dimenticare però che quel Dio fatto bambino, fatto uomo, vero Dio e vero uomo, è pure lo Sposo divino della Chiesa, dell'intera umanità. E se il peccato, la cattiveria umana, ci ha allontanato da lui, autore della vita e della felicità, il suo stesso amore ci raggiunge e ci riconquista. È lui che attraverso il profeta Isaia dice a ciascuno di noi: "ti riprenderò con immenso amore... ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te" (Is 54, passim).

Tutto il dramma della nostra vita si gioca fondamentalmente tra la nostra durezza di cuore e la sua capacità infinita di amare e perdonare. Questo è ciò che ci ha ricordato il Santo Padre all'inizio del suo ministero petrino: «Non è il potere che redime, ma l'amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse piú forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano cosí, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell'umanità. Noi [scandalizzati dal male nel mondo] soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall'impazienza degli uomini» (cfr. BENEDETTO XVI, omelia del 24 aprile 2005).

Per questo egli viene incontro a noi non nella trascendenza di un Dio irraggiungibile - ciò che qualunque mente umana avrebbe facilmente immaginato - ma nell'umiltà, nella benevolenza, nella dolcezza della sua e della nostra umanità: questo nessuna mente umana, nessun filosofo, nessun fondatore di religioni l'ha mai concepito. In alcune religioni orientali Dio si manifesta sí in sembianze umane, ma solo di dichiarata apparenza si tratta, non cosí, invece, noi abbiamo appreso dalla testimonianza degli apostoli: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [...] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1). E poco dopo aggiungerà: ".perché la nostra gioia sia perfetta" (1Gv 1,4).

«Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente [dice il Santo Padre], noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di piú bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di piú bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia con Lui» (cfr. BENEDETTO XVI, omelia del 24 aprile 2005). Questo è il segreto della felicità cristiana, della nostra grandezza evangelica. Lasciamo che questo amico divino cresca in noi. Non rattristiamoci mai per il tempo che passa, accettiamo con serenità, con coraggio, di morire ogni giorno di piú, sapendo che questo significa farsi piccoli per far crescere lui: perché cresca in noi l'amore. La sofferenza fa parte della nostra umanità, ma per noi che crediamo non e la sofferenza della fine ma della rinascita. Possa il Signore nascere e crescere sempre piú nei nostri cuori.

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