Solennità di Pasqua

16 aprile 2006

Centro Ippico Militare di Tor di Quinto - Roma

Il mistero pasquale che oggi celebriamo vede l’epilogo di quel dramma dove morte e vita si sono affrontate in un “prodigioso duello”, dove Cristo, l’agnello innocente, come dice l’antica sequenza Victimae paschali laudes (XI sec.), ha affrontato e sconfitto la morte per salvare noi peccatori. Quella di Cristo è stata anche una lotta fra la verità e la menzogna; una lotta che non è solo universale, di portata storica, ma che si ripercuote anche nella vita di ciascuno di noi e della quale siamo veri arbitri. Sta a noi scegliere da quale parte stare tra la vita e la morte, la verità e la menzogna. È importante ricordare che in noi non è scontato l’esito di questa lotta. L’apostolo Paolo scrive ai romani:

«Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo piú schiavi del peccato» (Rm 6,6). Il dono dello Spirito ricevuto in forza del Battesimo, infatti, ci da il pegno della vittoria, ma non ci esime dalla lotta. La nostra vita su questa terra è un perenne stato di guerra contro il male. Guai a noi se non combattiamo, in questa lotta non esiste spazio per la neutralità. E se temiamo di combattere per Cristo l’apostolo Paolo ricorda: «…voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,15-17).

L’amore di Dio ci ha destinato dunque alla gloria ma attraverso un cammino di umiltà, come insegna l’autore del libro dei Proverbi: «il timore di Dio è una scuola di sapienza, prima della gloria c’è l’umiltà» (Pr 15,33). Ma il timore di Dio che cosa è se non un dono dello Spirito Santo? Abbiamo bisogno dell’abbondanza dei doni dello Spirito se vogliamo uscire vittoriosi dalla lotta contro il male. Poco prima della sua passione Gesú parla agli apostoli del dono pasquale dello Spirito: «Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete piú; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato» (Gv 16,7-11). Anche noi, tutti noi, verremo convinti quanto al peccato, quanto al giudizio, quanto alla giustizia.

Quanto al peccato perché non abbiamo creduto veramente all’amore di Dio per noi, abbiamo ritenuto di essere noi soli i conoscitori e i garanti del nostro vero bene…; quanto alla giustizia perché conosceremo chiaramente che solo lui, il Figlio di Dio, è la nostra salvezza e la nostra santificazione, quanto al giudizio perché vedremo la differenza fra colui che ha scelto di servire Dio e colui che ha scelto di servire il male (cfr. Ml 3,18). Chiediamo in questo tempo di misericordia il dono pasquale dello Spirito. Solo lui può aiutarci ad abbracciare con amore il mistero di Dio. A nulla ci gioverà la conoscenza senza l’amore: Dio lo si abbraccia solo con la prova dell’amore nell’oscurità della fede, non con l’inevitabile constatazione della verità. Possa lo Spirito Santo illuminare i nostri cuori con la luce della sua grazia e condurci alla verità del suo eterno amore.

 

 

Festa della Esaltazione della santa Croce

Festa di corpo del Rgt. “Lancieri di Montebello” (8º)

14 settembre 2006

Parrocchia del Preziosissimo Sangue - Roma

Carissimi amici, vi ringrazio per la vostra partecipazione a questo momento di preghiera. Ringrazio il signor sindaco di Montebello con il gonfalone del Comune, ringrazio il signor generale Alexitch, il signor generale Venci, il signor Comandante, voi cari reduci di Porta San Paolo, ufficiali, sottufficiali, lancieri, amici dell’Associazione Nazionale di Cavalleria, socie del PASFA, amici tutti del Montebello: oggi, festa dell’esaltazione della santa Croce il Reggimento stretto attorno all’altare ricorda i suoi Caduti. Ricorda tutti i Caduti della sua lunga storia, in particolare quelli di porta San Paolo, che ne hanno onorato il nome in un momento tanto difficile e doloroso per la storia della Nazione. Lo facciamo per la prima volta qui, in questa parrocchia, perché la nostra storia non è cosaprivata, è parte della storia della nazione, fa parte di un patrimonio comune che è giusto offrire, restituire alla comunità civile ed ecclesiale. È una storia intrisa anche di fede. Sarebbe cosa ardua, infatti, rischiare senza riserve la propria vita, senza il dono della fede, fosse pure piccola come un granello di senape... tuttavia irremovibile.

Cosí ricordiamo ancora le parole dell’apostolo Paolo che ci esorta ad offrire i nostri «corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo - aggiunge - il vostro culto spirituale» (cfr. Rm 12,1), la via maestra della croce. Una via che umanamente incute timore. Perché dunque oggi e sempre celebriamo la croce? L’origine liturgica della festa è connessa alla dedicazione della basilica del Sepolcro del Signore eretta dall’imperatore Costantino sui luoghi sacri della Crocifissione e della Resurrezione: il 13 settembre dell’anno 335. Il giorno seguente, 14 settembre, furono esposte alla pubblica adorazione le reliquie della santa Croce, le quali, come afferma la tradizione, furono ritrovate da sant’Elena il 14 settembre dell’anno 320. Una celebrazione tanto antica e tanto solenne dunque, specie fra i nostri fratelli delle chiese orientali.

Ma è bene ricordare cosa dice anche il mondo pagano della croce affinché, direbbe l’Apostolo: «...siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,1-19). Scrive Cicerone: «Triste è lo spettacolo dei pubblici supplizi, triste la privazione dei beni, triste l’esilio; tuttavia in ogni disgrazia rimane un residuo di dignità. La morte [naturale], quando si presenta, può essere subita con dignità, la tortura invece, l’impiccagione e il nome stesso della croce non giungano mai al cittadino romano [...] la menzione stessa è assolutamente indegna di un cittadino romano» (Cfr. M. T. CICERONE, Pro Rabirio perduellionis reo, 16-17,1-8). Cosí il Signore trasfigura un simbolo di morte [il serpente] in un simbolo di salvezza. Cristo, l’agnello immolato, è colui che trasfigura un simbolo di morte in un segno di salvezza. Una volta, dicono i Padri, dall’albero del paradiso Satana trasse la vittoria, da lí anche sorgeva la morte; ora, dall’albero Satana viene sconfitto e dall’albero della Croce risorge la vita. Quella vita vera che noi imploriamo per i nostri Caduti, per tutti noi.

Oggi, di fronte alla Croce imploriamo dal Signore anche il dono di un nuovo Pastore che regga questa Chiesa militare; la regga secondo il suo cuore in questo presente cosí fragile e incerto. Un presente che tuttavia non deve incuterci paura... perché siamo uomini di fede. «La fede non vuol farci paura; vuole piuttosto (...) chiamarci alla responsabilità. Non dobbiamo sprecare la nostra vita, né abusare di essa; neppure dobbiamo tenerla per noi stessi; di fronte all’ingiustizia non dobbiamo restare indifferenti, diventandone conniventi o addirittura complici. Dobbiamo percepire la nostra missione nella storia e cercare di corrispondervi. Non paura ma responsabilità (...). Quando, però, responsabilità e preoccupazione tendono a diventare paura, allora ricordiamoci della parola di San Giovanni: ‘Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri. Dio è piú grande del nostro cuore ed Egli conosce ogni cosa’ (cfr. 1Gv 3,20)» (S. S. BENEDETTO XVI, Omelia nella S. Messa celebrata a Regensburg, 12 settembre 2006).

 

 S. Michele arcangelo

S. Michele arcangelo, patrono della Polizia di Stato

 

 

 

Solennità di S. Michele, Patrono della Polizia di Stato

29 settembre 2006

Centro I. F. - Roma

Sono ormai quasi sessanta anni che la Polizia di Stato ufficialmente venera san Michele Arcangelo quale suo patrono. Una scelta ben motivata dai testi biblici (Ap 12,7-10) dove san Michele appare quale difensore della giustizia. Michele (Michahel in latino - Quis ut Deus) è colui che per primo si oppone a Lucifero che vuole sovvertire l’ordine della creazione. Papa Paolo VI, nell’udienza pubblica del 15 novembre 1972, affermò: «Quali sono oggi i bisogni maggiori della Chiesa? Non vi stupisca come semplicista, o addirittura come superstiziosa e irreale la nostra risposta: uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il demonio [...] Il male non è piú soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore [...]. Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente esso pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni» (PAOLO VI, Udienza generale del mercoledí, 15 novembre 1972 in Insegnamenti, X (1972), 1168-1170).

Noi tutti in realtà siamo minuscoli attori di uno scontro che va molto oltre questo orizzonte visibile: minuscoli ma importanti nella storia umana. Michahel... è colui che annienta il maligno: «Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra» (Ap 12,9). L’autore dell’Apocalisse ci dice che la grande lotta per il bene iniziata e vinta nel cielo attende il suo compimento quaggiú: attraverso la nostra coscienza, la nostra libertà e il nostro coraggio.

In questa lotta Michahel non è solo l’invocazione di un essere che sta accanto a noi come presenza di luce e di amore ma è al tempo stesso preghiera e atto di coraggio: è un grido di guerra contro il male. Chi pretende di sostituirsi a Dio? Ecco, noi tutti siamo esposti alla tentazione del male. Siamo tentati tutti i giorni di sostituirci a Dio. Ogni volta che crediamo di poter risolvere i nostri problemi mettendo da parte Dio... in realtà cerchiamo di sostituirci a lui. Il male nella storia non è frutto di una sorta di patologia ma di una opzione lucida secondo la quale l’uomo per realizzarsi non ha altro che se stesso, senza alcuno scrupolo ...etsi Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Quante delle nostre scelte vengono poste... etsi Deus non daretur? Ma questa è una strada che termina solo nella solitudine e nella desolazione.

Ecco dunque l’intensità della lotta che dobbiamo condurre. Nessuno di noi ha mai visto Dio, ma tutti siamo chiamati a vivere come se lo fosse... etsi Deus daretur: cosí tutta la vita diventa un grande atto di fede e di amore. Poche altre categorie di persone hanno la possibilità, come il sacerdote e il poliziotto, di toccare con mano la nobiltà e la miseria dell’uomo: non lasciamoci mai esaltare troppo dall’una, né demoralizzare dall’altra. Sia in un caso che nell’altro perderemmo di vista la verità sull’uomo ma - ciò che è peggio - la demoralizzazione può portare a lungo andare all’immoralità: non facciamoci contagiare cosí dal male. Tocchiamo l’oro senza perdere la testa, tocchiamo il fango senza rimanerne invischiati. Solo a questa condizione potremmo davvero combattere contro il male, anzi molto di piú: portare il bene là dove ora c’è il male.

 

 

Lunedí, 27 novembre 2006

S. Messa di suffragio del gen. C. A. Pietro Giannattasio

Rgt. “Lancieri di Montebello” (8°) - Roma

«A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!» (Mt 25,6). Carissimi, nella Sacra Scrittura compare spesso il linguaggio nuziale sia per raffigurare il rapporto fra Dio e l’uomo fedele, sia per raffigurare quello fra Dio e il suo popolo: «Poiché tuo sposo è il tuo creatore, - dice il profeta Isaia - Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra» (Is 54,5). Cosí il Signore stabilisce con il suo popolo un’alleanza, stabilisce un vincolo di amore con ciascuno di noi, un vincolo che in Cristo è diventato indissolubile, con l’umanità, con ogni uomo segnato dalla grazia del battesimo. Nella storia di ogni persona si ripete dunque questa storia di amore e di compassione divina. Dio vuole stringere un’alleanza con noi.

Una realtà che ai nostri occhi spesso appare contrassegnata dalla debolezza e dalla follia. Certo, chi non ha fede ha paura e cade, ma chi crede sa bene che «...la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio» (1Cor 3,19). Continua l’apostolo Paolo dicendo: «...ciò che è stoltezza di Dio è piú sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è piú forte degli uomini» (1Cor 1,25). «Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse piú forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. [...] Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza» (BENEDETTO XVI, omelia per l’inizio del ministero petrino - 24 aprile 2005).

Anche per noi vale la parola che il Signore rivolse all’apostolo Paolo: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Quella debolezza che si manifesta nella nostra umanità destinata a tornare alla terra. Dice l’Apostolo: «In realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita» (2Cor 5,4). Essere terra e tornare alla terra ripugna alla nostra natura e apparirebbe come una sconfitta definitiva se non fosse per quella “potenza divina che si manifesta pienamente nella debolezza umana». Perché in verità Dio ama questa terra che siamo noi e che è destinata a fiorire per l’eternità. Dice il profeta Isaia di questa terra:

«Nessuno ti chiamerà piú Abbandonata, né la tua terra sarà piú detta Devastata, ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4). Lui, lo Sposo, ci ammonisce con severità: «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13), ma sostiene anche la nostra debolezza con la sua tenerezza quando ci ricorda: «Questa [...] è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,40).

 

 

Precetto natalizio

Giovedí, 21 dicembre 2006

Parrocchia Preziosissimo Sangue - Roma

È significativo che la liturgia odierna ci proponga il tema nuziale espresso cosí bene nel Cantico dei cantici. Non siamo fuori tema, perché la Chiesa attende il suo Sposo. Noi attendiamo colui che ci salverà, in tutti i sensi in cui una persona può essere salvata. «Dio è amore» (1Gv 4,8) dice l’apostolo Giovanni: questa è l’essenza del messaggio della Scrittura. Nessuno, mai, prima di Cristo ha parlato all’umanità dell’amore di Dio (cfr. Gv 7,46). Quanto è importante questo! E quali riflessi può avere nella vita di coloro che hanno un cuore retto, sincero! Le grandi anime mistiche parlano di un luogo nell’uomo, la “punta dell’anima”, il piú puro, dove Dio prende dimora. Sí, “Dio è amore” (1Gv 4,8) e noi siamo stati creati a sua immagine e somiglianza. Nasce da qui quella profonda esigenza di dare e di ricevere amore che anche la psicologia constata in noi. Uno psicanalista, René Spitz, ha studiato nei bambini la cosiddetta «sindrome da ospedalizzazione».

Soffrono di questa sindrome quei bambini che hanno conosciuto l’amore della loro mamma e poi per qualche motivo ne sono rimasti privi. Il bambino sente profondamente la mancanza dell’amore materno e, pur ricevendo ogni genere di cure - igieniche, di alimentazione, mediche - non progredisce nel suo sviluppo ma subisce una sorta d’involuzione. Spesso si ammala e muore. È come se questi bambini volessero gridare: “Meglio morto che senza amore”! Ma questo non riguarda solo i bambini, riguarda anche gli adulti, tutti noi. Siamo tutti dei mendicanti di amore! Solo che lo cerchiamo spesso, troppo spesso, da chi non ce lo può dare. Solo Dio è la fonte perenne dell’amore. «Quien a Dios tiene nada le falta sólo Dios basta! A colui che ha Dio nulla manca, se hai Dio nel cuore basta il suo amore» (Cfr. S. TERESA DI GESÚ, Opere, Roma 19858, 1511).

È vero, ci sono anche i cosiddetti duri..., ma esistono anche i surrogati dell’amore, lo sappiamo. La ricchezza, il potere, il piacere... solo che alla fine dei conti si rivelano per quello che sono... miseri surrogati. Amare o morire dunque. Nessuno ci inganni su queste cose. Prima di Cristo l’amore aveva praticamente due sinonimi... eros e filia, ad indicare uno l’amore carnale e possessivo, l’altro l’amore di amicizia, selettivo, esclusivo. Nel mondo civile c’erano la legge e il suo culto; nel mondo cosiddetto barbaro la legge del piú forte e il suo culto. Oggi c’è chi sogna implicitamente questo mondo, quando parla di fondazione di un’etica laica, senza Cristo, quasi fosse una novità. È una storia vecchia invece, di millenni. Già la filosofia antica tentò di dare un’etica al mondo e pur toccando vertici altissimi non ci riuscí. Dovremmo parlare di uomini come Socrate, Platone, Aristotele, L. A. Seneca..., tanti altri... Ma il mondo pagano non seppe dare un significato e un senso alla vita, non seppe dare un’anima al mondo. Fu il diritto di Roma piuttosto a dare, non tanto un’anima, quanto un ordine esteriore al mondo antico, la pax romana... durante la quale nacque Cristo. Scrive l’apostolo Paolo: «...il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio» (1Cor 1,21).

O se volete... non ha trovato un senso. Continua Paolo: «...è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (1Cor 1,21). E cosa è la predicazione, se non... “parlare di Dio” con amore. Ma prima ancora bisogna “parlare a Dio” con amore! E invece no! Sapete qual è la verità? È che molto prima che noi parliamo con Dio... parliamo di Dio... molto prima... è Lui che parla a noi con amore! Questa è la verità. Questa è la ragione per cui l’antico mondo pagano si tuffò fra le braccia di Cristo e conobbe un nuovo amore: l’agape, l’amore disinteressato per l’altro fino all’oblio di se stessi. Cristo non offre una dottrina, un’etica o un’ideologia, ma l’amore infinito di Dio che tutto rinnova, tutto ricolma di senso, tutto restituisce a dignità.

Quella dignità che il paganesimo moderno teme e vorrebbe cancellare dalla storia... se solo potesse farlo. Perché Cristo da fastidio al mondo, perché reclama spazio, è esclusivo, scuote la politica, l’economia, il diritto... Perché nella storia si parla solo di anti-Cristo e non c’è un anti-dio per le altre religioni? Perché questo mondo cerca di rimpiazzare Cristo con mille altre cose neutre, astratte, innocue, pluraliste? Stiamo attenti ad un malinteso pluralismo... vogliono scardinare la fede in Cristo per vuotare il nostro cuore e ridurlo ad un “pantheon in sedicesimo” dove c’è posto per tutto... tranne che per Cristo. E una volta che il nostro cuore sarà vuoto... cosa lo riempirà? Il Vangelo, la testimonianza apostolica, ci parla di un Dio fattosi uomo che ha voluto amare - e quindi condividere - in tutto la vita dell’uomo (tranne che nel peccato perché sarebbe un non senso): vedere, sentire, soffrire, gustare, toccare, capire tutto con un cuore divino e umano al tempo stesso.

Scrisse Giovanni Papini: «...il Messia che tutti aspettavano nel deserto dei secoli e che alla fine è giunto... è proprio quello che sta dinanzi ai [loro] occhi, coi piedi nella polvere della strada. Il re puro, il sole di giustizia, il principe della pace, quello che Dio doveva mandare al suo giorno, che i profeti avevan predetto [...] e avevan visto scendere sulla terra come una folgore, nella pienezza della vittoria [...]; che i poveri, i feriti, gli affamati, gli offesi, aspettavano di secolo in secolo come l’erba secca aspetta l’acqua, come il fiore aspetta il sole, come la bocca aspetta il bacio e il cuore la consolazione; il Figlio di Dio e dell’uomo, l’uomo che nasconde Dio nella sua scorza di carne, il Dio che ha ravvolto la sua divinità nel fango di Adamo, è lui, il dolce fratello quotidiano, che si specchia [...] negli occhi stupefatti dei prescelti» (Papini G., Storia di Cristo, Firenze 1961, 337-340).

 

 

Precetto pasquale

Venerdí, 30 marzo 2007

Centro I. F. - Roma

Le letture che abbiamo ascoltato ci introducono nel clima della settimana santa, una settimana di Passione che ha mutato il corso della storia. Il profeta Geremia descrive drammaticamente la congiura che cresce intorno a lui. Circa 600 anni dopo quelle parole descriveranno nitidamente la congiura contro il Cristo, il Figlio di Dio. Commetteremmo un errore se pensassimo al ricordo della Passione come ad una semplice rievocazione del passato. La Passione di Cristo nel corpo della Chiesa, infatti, oggi è perfino cronaca: in molti paesi del mondo “essere di Cristo” non è affermazione scontata e gratuita. L’apostolo Giovanni riporta la terribile minaccia dei giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33). Questo dice oggi il mondo: Cristo che è uomo... si fa Dio e pretende una parola esclusiva, una parola ultima su di esso... su di noi!

Questa “scorrettezza” politica e mediatica suona come nuova “bestemmia” contro quel nuovo “culto” che è l’umanesimo senza Dio... che non ha piú nemmeno la pretesa di essere razionale: esige legittimità insindacabile, infatti, in nome di una libertà individuale sempre piú intollerante a qualsiasi legge. A ragione dice l’apostolo Paolo: «L’uomo naturale (...) non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito» (1Cor 2,14). Ma credere non è follia! «Ciò che è stoltezza di Dio - dice l’Apostolo - è piú sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è piú forte degli uomini» (1Cor 1,25). La sapienza di Dio agli spettacoli del mondo oppone un altro spettacolo: «...quia spectaculum facti sumus mundo et angelis et hominibus» (1Cor 4,9): «...poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini». Di quale spettacolo parla Paolo?

Il Santo Padre ce ne offre una sintesi straordinaria quando afferma che: «...noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di piú bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di piú bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui» (cfr. BENEDETTO XVI, Omelia, 24 aprile 2005). Diventare un luogo vivo e privilegiato della presenza di Dio... donare Dio agli altri... questa è la vera vita, la chiave della felicità. Una felicità che nessuno può toglierci, che si costruisce giorno per giorno nella fedeltà alla propria vocazione, attraverso il lavoro quotidiano, non al di fuori di esso o nonostante esso. Dobbiamo reagire alla pericolosa eresia di uno spiritualismo disincarnato che indica la felicità nella fuga dalla realtà. Dio non lo si trova in cima all’ideale, lo si trova in fondo al reale. Quel reale, quell’umano dove lui si è incarnato, ha sofferto, ha amato... dove ha vinto, dove è nostro amico e compagno di cammino.

«Voi avrete tribolazione nel mondo [dice il Signore], ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Quel mondo che confida nel potere politico, economico, mediatico e con esso misura tutte le cose... «Noi, invece, [dice il Santo Padre] abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità» (cfr. RATZINGER J. Card., Missa pro eligendo Romano Pontifice, Omelia, 18 aprile 2005). Ecco, a noi il Signore dice: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32).

 

 Bandiera a mezz'asta

Bandiera a mezz'asta per il venerdì santo

 

 

 

 

Solennità di S. Giorgio martire, Patrono dell’Arma della Cavalleria

23 aprile 2007

Rgt. “Lancieri di Montebello” (8º) - Roma

Carissimi amici del Montebello, l’11 agosto 1937 Papa Pio XI - considerata la ricchissima tradizione storica - nominava San Giorgio patrono dell’Arma di Cavalleria. Prima ancora che un’Arma tuttavia la Cavalleria era ed è uno stile di vita: essa ha contribuito a formare l’anima della civiltà occidentale (vedasi lo studio del Vauchez A., in R. FOSSIER, Il risveglio dell’Europa (950-1250), Torino 1985).

Dalla tradizione cavalleresca discendono numerosi princípi che hanno ispirato le leggi e le convenzioni di guerra: il divieto di uccidere o maltrattare il prigioniero che si arrende, di abusare della forza, di fare del male agli anziani, alle donne e ai bambini. Sul campo di battaglia si è esposti al rischio di commettere ogni atrocità; ciò che lo impedisce, prima ancora delle leggi e delle convenzioni, è qualcosa di radicato nella coscienza del combattente, qualcosa di “estetico”, un equilibrio interiore che nei secoli è stato definito “onore militare”.

La Cavalleria, sempre piú strutturata, fu un frutto della cultura cristiana che seppe fare di un’Europa divisa un continente via via unito e dove perfino la guerra conobbe regole e limiti severi. Non abbiamo il tempo materiale per accennare al ruolo di papa Gregorio VII e dei suoi predecessori nel rifondare moralmente la Cavalleria e nell’istituzionalizzarla (cfr. LIBERTINI D., Nobiltà e Cavalleria nella tradizione e nel diritto, Tivoli 1999, 108-114); non abbiamo tempo sufficiente per accennare alla cosiddetta “Tregua di Dio”, dove il permesso di combattere, sotto pena di scomunica, solo in alcuni periodi dell’anno; l’obbligo di liberare a Pasqua tutti i prigionieri; il divieto di coinvolgere nelle operazioni i civili, rendevano gli orrori della guerra piú sopportabili (cfr. i canoni dei concili di Charroux (909), Le Puy (990), Elne (1027) e Nizza (1041). Cfr. et SEMICHON E., La paix et la trêve de Dieu: Histoire des premiers développements du tiers-états par l’Eglise et les associations, 2.me ed., Paris, 1869; HUBERTI L., Gottes und Landfrieden, Ansbach, 1892. Il concilio ecumenico del 1179 estese poi tale istituto alla Chiesa intera con il canone XXI, De treugis servandis che venne inserito nelle Decretali di Gregorio IX (X. I, tit., De treuga et pace)).

Alla parola “cavaliere” si accompagnarono cosí valori e princípi di fondo che non erano piú quelli della violenza gratuita, ma quelli della lealtà e della giustizia, della generosità e del valore. Che ne è oggi della Cavalleria? C’è chi sostiene che le sue ultime vestigia siano scomparse con gli abomini della guerra moderna.

Cosa c’è di leale nelle moderne armi da fuoco, nelle armi di distruzione di massa? Non si tratta di auspicare il ritorno alle tecniche belliche del passato - ciò che sarebbe patetico - si tratta invece di ribadire con forza i princípi umanitari che devono moderare anche la guerra. La Cavalleria non è finita, i suoi valori non sono estinti: tutti i princípi dell’antica Cavalleria si sono riversati nel diritto umanitario di cui dobbiamo essere custodi zelanti.

Abbiamo una tradizione illustre nel nostro passato, ma ora abbiamo un presente e un futuro da onorare: la Cavalleria non è finita, ha solo cambiato volto. La sfida che ci attende è quella di coniugare sapientemente tutta la ricchezza del passato con quella del presente: questo è il nostro futuro. Questo è il messaggio di pace che la Chiesa nei secoli continua a portare e a ricordarci attraverso le indimenticabili parole del Santo Padre all’inizio del suo pontificato:

«Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse piú forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano cosí, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini. [...] Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita [...]. Non vi è niente di piú bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di piú bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con Lui» (cfr. BENEDETTO XVI, Omelia per l’inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005).

 

 

Venerdí, 4 maggio 2007

Festa dell’Esercito

Centro I.F. - Roma

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Queste parole tratte dal discorso evangelico delle beatitudini possono apparire in contraddizione con quella che è a prima vista la professione militare. Eppure la storia del cristianesimo ci ha dimostrato non di rado il contrario. Il calendario liturgico è ricco di figure eroiche che hanno raggiunto le vette della santità.

Ancor di piú sono gli uomini che si sono sacrificati con generosità per compiere la loro missione di pace, di giustizia, di libertà. Papa Giovanni Paolo II di f. m. ebbe a dire: «Chi meglio di voi, carissimi militari [...], può rendere testimonianza circa la violenza e le forze disgregatrici del male presenti nel mondo? Voi lottate ogni giorno contro di esse: siete infatti chiamati a difendere i deboli, a tutelare gli onesti, a favorire la pacifica convivenza dei popoli. A ciascuno di voi si addice il ruolo di sentinella, che guarda lontano per scongiurare il pericolo e promuovere dappertutto la giustizia e la pace» (cfr. GIOVANNI PAOLO II, Giubileo dei militari e delle forze di polizia, Omelia, 19 Novembre 2000). Il ruolo di sentinella, di custode del proprio fratello (cfr. Gen 4,9), richiede anzitutto la vigilanza interiore, la vigilanza su se stessi, senza la quale è impossibile essere un vero soldato, temprato e pronto a tutti i combattimenti. Ecco perché il Papa ebbe a ricordare, in occasione del Sinodo della Chiesa militare, che:

«Il mondo militare, nel passato come nel presente, si presenta spesso come veicolo di evangelizzazione e luogo privilegiato per raggiungere le vette della santità: penso ai centurioni del Vangelo, penso ai primi soldati martiri e a quanti nel corso della storia, servendo un sovrano terreno, hanno imparato a diventare soldati e testimoni dell’unico Signore, Gesú Cristo» (cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso del S. Padre alla Chiesa militare, 6 maggio 1999). Veicolo di evangelizzazione perché la vita disciplinata e ordinata del militare è una delle migliori propedeutiche alla santità: l’ascetica è la premessa indispensabile della mistica. Le figure vicine e lontane nel tempo che celebriamo ce lo testimoniano brillantemente. Tutto questo se ci rallegra ed incoraggia nella nostra vocazione non ci priva certo di quel necessario realismo che ci contraddistingue.

Il Pontificio Consiglio Iustitia et Pax, nel documento sul commercio internazionale delle armi ci ricorda che: «In un mondo segnato dal male e dal peccato, esiste il diritto alla legittima difesa mediante le armi. Questo diritto può diventare un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile. Soltanto questo diritto può giustificare il possesso o il trasferimento delle armi. Non è tuttavia un diritto assoluto; esso è accompagnato dal dovere di fare il possibile per ridurre al minimo, fino ad eliminarle, le cause della violenza» (Pontificio Consiglio Della Giustizia e della Pace, Il commercio internazionale delle armi. Una riflessione etica, LEV, Città del Vaticano 1994, 11-12). Eliminare le cause della violenza: a ragione pertanto diciamo: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

 

 

Precetto pasquale

Mercoledí, 12 marzo 2008

Centro I. F. - Roma

Nel drammatico dialogo che si snoda tra Gesú e i giudei, lungo l’8° capitolo del Vangelo di Giovanni, si percepisce tutto il contrasto fra la verità e la menzogna, fra la libertà e la schiavitú. È un contrasto che tocca inevitabilmente anche la nostra vita. Siamo chiamati ad una scelta, non sprechiamo dunque il tempo che ci è dato in dono. Camminiamo verso la verità e la libertà finché ne abbiamo il tempo. Siamo viaggiatori nello spazio ma ancor piú nel tempo. L’uomo ha sempre sognato di viaggiare nel tempo, dimenticando troppo spesso che per questo non occorrono nuove tecnologie. L’uomo ha nella sua stessa costituzione interiore questa facoltà. Una facoltà spesso trascurata che si chiama memoria. Grazie ad essa l’uomo resta intimamente padrone del suo passato e può disporre in pienezza di sé e del proprio futuro. È cosí che torniamo indietro sui nostri passi, riflettiamo, ci pentiamo dei nostri peccati e apriamo il nostro cuore alla misericordia di Dio, a colui che ci libera dal tedio del tempo, dai ricorsi della storia: i nostri peccati sono ricorrenti e rendono tristi i tempi.

«“Tempi cattivi, tempi infelici!”, dicono gli uomini. Viviamo bene, e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi: come siamo noi, cosí sono i tempi» (cfr. S. AGOSTINO, Discorsi, 80,8). È Cristo, dicevano gli antichi padri, che ha spezzato la circolarità del tempo e gli ha dato un senso univoco. Cristo ha sottratto l’uomo alla schiavitú pagana (e neopagana) del destino, del fato, della tristezza del non senso, e lo ha restituito a se stesso, alla sua dignità: finalmente capace di donarsi a Dio e al suo prossimo. Per questo l’apostolo Paolo scrive ai fedeli di Efeso affinché siano «...in grado di comprendere [...] quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità [del]l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché - aggiunge - siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19). Solo cosí si può gustare il senso dell’esistenza, istante per istante. Cosí si scopre che il caso in ultima analisi non esiste e che invece tutto si ricapitola nella sapienza e nell’amore divino.

Non di meno Cristo ci libera dal sonno mortale delle ideologie e delle tante filosofie di questo mondo. Cedere alle ideologie vuol dire abdicare alla propria dignità di uomini ragionevoli. Nessuna dottrina umana può rispondere alla complessità, intesa anche come ricchezza, della vita umana. Credere in una ideologia è irrazionale tanto quanto illudersi di trovare la panacea o la pietra filosofale capace di trarre l’oro dai metalli vili. Il secolo appena trascorso ha visto il crollo di quasi tutte le grandi ideologie del Novecento; in realtà restano tante altre ideologie non meno pericolose: il relativismo, il liberismo, l’ideologia di genere, solo per citarne alcune. Sono strade che il mondo persegue nell’illusoria ricerca di una felicità e di una liberazione svincolata dalla verità, come in una corsa sempre piú sfrenata ad occhi chiusi.

Cristo risorto invece ci invita a confrontarci con lui tenendo gli occhi aperti sulla realtà. Una realtà da osservare attentamente, costantemente e profondamente. È da questa costante e profonda osservazione del reale che non a caso nasce nel mondo cristiano anche la scienza moderna. Ma un mondo fondato sulla sola ragione sarebbe ancora troppo angusto, troppo freddo per essere vivibile. Non sarebbe un mondo a dimensione umana, e quindi, in un certo senso, non sarebbe ancora un mondo libero. Cristo ci ha insegnato a guardare in un modo nuovo, molto piú profondo: è lo sguardo dell’amore, quell’amore soprannaturale, incommensurabile per la sola ragione, che abbraccia l’uomo e il suo universo con la dimensione dell’infinito. Ecco il vero e definitivo spazio vitale dell’uomo. Scrive l’apostolo Paolo: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 17,18).

 

 

Solennità di S. Giorgio martire, Patrono dell’Arma della Cavalleria

23 aprile 2008

Rgt. “Lancieri di Montebello” (8º) - Roma

Ancora una volta il nostro Reggimento adempie ad una tradizione ormai piú che millenaria. Oggi tanti reparti di cavalleria, in tutto il mondo, onorano il loro Patrono, San Giorgio: espressione di una devozione ininterrotta che data fin dal IV secolo. Una devozione ampiamente testimoniata da numerosi documenti letterari, liturgici e archeologici. Fra le testimonianze piú antiche si annovera quella di Teodosio Perigeta: attesta che verso il 530 a Lydda, in Palestina, era già venerato il suo sepolcro (cfr. De situ terrae sanctae, in CSEL, XXXIX, Vienna 1898, 139): «in Diospolim, ubi sanctus Georgius martyrizatus est, ibi et corpus eius est et multa mirabilia fiunt»). Multa mirabilia fiunt: accadono molte cose meravigliose. Sí, accanto al corpo dei santi, di coloro che hanno amato Dio e il prossimo, accadono cose meravigliose, nonostante siano polvere.

Dio non ci dimentica; non dimentica neppure il nostro essere corporeo, nemmeno quando torna alla terra: su quella “terra” che l’ha amato in vita Dio veglia come su un tesoro geloso (Is 62,4); quella polvere, in attesa della risurrezione, diventa essa pure strumento della grazia divina. È cosí che accanto al corpo dei santi, degli amici di Dio, fioriscono sempre, nei secoli, opere di fede, di carità, frutti di civiltà: sono sorte e sorgono chiese, cattedrali, scuole, monasteri, ospedali, paesi e città. Potremmo citare altre fonti documentali circa la figura di san Giorgio ma in ultima analisi i documenti migliori e piú vividi sono quelli concreti, visibili ancora oggi, sparsi in tutto il mondo. Non c’è quasi luogo sulla terra che non abbia una chiesa o una cappella a lui dedicata; città e nazioni intere lo venerano da secoli come patrono.

Come spiegare tanta venerazione, in tutto il mondo, in tutte le epoche, se non ci fosse un riscontro storico? Perfino nella tradizione islamica a Giorgio è riconosciuto il titolo di “profeta”. Papa Pio XI di f. m. con decreto dell’11 agosto 1937 - considerata la ricchissima tradizione storica e liturgica - lo indicò a ragione quale patrono dell’Arma di Cavalleria.

Dice il Signore: «Non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,14-15). Possa la luce di san Giorgio rischiarare sempre il nostro cammino.

Ma il Signore dice anche: «Voi siete la luce del mondo... risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,14-16). Quali e quante sono le nostre opere? E come un giorno dovremmo riassumere la nostra vita?

Dalla risposta a queste domande dipende il nostro futuro, la nostra eternità. Una risposta che impegna per primi i ministri di Dio fino all’ultimo uomo di buona volontà. I fedeli hanno il diritto di avere ministri che siano veri amici di Dio, ma hanno anche il grave dovere di pregare affinché questo accada. Nulla di noi rimarrà in futuro, come nulla o quasi è rimasto di san Giorgio se non la carità e la bontà che ha saputo seminare nella sua vita. Cosí sarà di noi: resteranno i frutti delle nostre opere e da esse saremo riconosciuti: non dalla loro grandezza, ma dalla grandezza del cuore che le ha ispirate.

Pochi possono fare grandi opere; tutti possiamo essere grandi di cuore. Il cuore diventa grande quando accoglie Dio, e il Signore viene e ne fa la sua casa. Per questo è scritto: «Chi [...] mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32).

 

 

Giovedí, 15 maggio 2008

Chiesa della Scuola Cappellani Militari - Roma Cecchignola

«Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E impose loro severamente di non parlare di lui a nessuno» (Mc 8,29). Se agli apostoli, per un certo tempo, fu vietato di rivelare il Cristo, a noi, fin dall’inizio è stato impresso nel cuore il sogno, il desiderio, il mandato di rivelarlo e - ancor piú - di donarlo a tutti! Ecco la grandezza del dono che abbiamo ricevuto: scrive san Francesco nelle sue Ammonizioni: “...ogni giorno egli si umilia (cfr. Fil 2,8), come quando dalla sede regale (cfr. Sap 18,15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, cosí anche ora si mostra a noi nel pane consacrato” (FF 144). Guai a noi se ci abituiamo a cosí grandi e santi misteri diventando come il sale insipido di cui parla Gesú (Mt 5,13).

Se c’è amore non c’è abitudine, non si scivola nella banalità, non c’è noia. Il punto cruciale sta in quel “se...”! Se c’è - scrive san Carlo Borromeo - «Audi quid dicam. Si divini amoris igniculus aliquis in te accensus iam est, noli illum statim pródere, noli in ventum expónere; occlusum tene clibanum ne frigescat et calorem amittat; fuge, hoc est, quantum potes, distractiones; rémane cum Deo collectus, vana colloquia devíta» (cfr. Acta Ecclesiae Mediolanensi, Mediolani 1599, 1177-1178). È ciò che afferma l’Apostolo: «Non trascurare il dono spirituale che è in te» (1Tm 4,14) - scrive san Paolo a Timoteo e - «...ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). È importantissima questa costante vigilanza su di sé.

C’è una sindrome, cosiddetta del burnout, ben nota agli psicologi, forse non abbastanza ai ministri di Dio. Una sindrome che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto (helping profession), qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi a volte eccessivi che il lavoro comporta. Si caratterizza per esaurimento emotivo, depersonalizzazione, mancata realizzazione personale. Ecco, se noi ci “bruciamo” cosí rischiamo di diventare come l’abominio della desolazione... Il profeta Daniele designò con ciò l’altare pagano che Antioco Epifane fece erigere nel 168 a. C. all’interno del tempio di Gerusalemme (cfr. 1Mac 1,54). Non avvenga mai che ci avvicinino cercando Dio e trovino solo un uomo con la sua povertà e le sue debolezze... Uomini pieni di prudenza umana, politicamente corretti, buonisti, ma vuoti dello Spirito di Dio; amati dal mondo, sicuro, buoni solo per essere... gettati via e calpestati dagli uomini (Mt 5,13). E Dio non voglia che oltre alla povertà umana trovino addirittura il Maligno! Non sia mai, noi siamo chiamati a manifestare Cristo in tutto.

La Chiesa nel concilio di Trento ci esorta: «Sic decet omnino clericos in sortem Domini vocatos vitam moresque suos omnes componere, ut habitu, gestu, incessu, sermone, aliisque omnibus rebus, nil nisi grave, moderatum ac religione plenum prae se ferant; levia etiam delicta, quae in ipsis maxima essent, effugiant, ut eorum actiones cunctis afferant venerationem» (cfr. Acta Sacrosancti Concili Tridentini, Sessio XXII, Decretum de reformatione, c. I.). Il Vaticano II piú genericamente recita: «...ad illam semper maiorem sanctitatem nitantur...» (PO 12). Certo è difficile per noi peccatori incarnare Cristo nel quotidiano... È difficile vedere il Cristo in noi... Non siamo pronti come Maria nell’adempiere il nostro amoris officium (cfr. S. AUGUSTINUS, In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5: PL 35, 1967) la piú bella sintesi, forse, del sacerdozio cattolico. È lo Spirito Santo che, per Maria, e non senza di lei, ci aiuta a generare in noi il Cristo, giorno dopo giorno.

Tornando per un momento a quel “sé...” che non è mai scontato è bene sottolineare un altro pericolo che ci insidia. Siamo costantemente esortati ad amare e a servire; ogni giorno riceviamo in dono colui che è l’Amore, ma spesso, nella realtà quotidiana non sappiamo amare in pienezza come Cristo; spesso non siamo accettati e capiti; anche questo fa parte della vita del sacerdote: essere rifiutati in ciò che di piú bello e di piú grande possiamo offrire; anche da coloro che per primi dovrebbero capirci. È importante riflettere anche su questo aspetto della solitudine umana che fa parte della nostra vita. È un pezzo di quel deserto arido che inevitabilmente dobbiamo attraversare per scoprire Dio, per arricchirci della sua divina amicizia. Sí, accettiamo la perdita, a volte, di ogni umano conforto, ma per scoprire sempre piú profondamente gli abissi dell’amore divino. Cosí si scopre davvero che la felicità non sta nell’essere amati, ma anzitutto nell’amare gratuitamente, senza condizioni, come ama il Signore.

Non è un caso se nel cammino ascetico - anche in altre religioni - la castità è un traguardo fondamentale. Dietro ogni crisi, in ultima analisi, c’è sempre un crollo nella fede, ma soprattutto un crollo nell’amore: non crederemmo mai abbastanza nell’amore che Dio ha per la nostra persona, quell’amore che guarisce, quell’amore che Dio ha per il nostro prossimo e che vuole manifestare anche attraverso di noi. Talvolta siamo cosí presi dal nostro attivismo, dal nostro razionalismo, se non addirittura positivismo, da prendere troppo alla leggera la parola di Dio. Le nostre esegesi troppo spesso sono uno svuotare di significato, un continuo sminuire la Parola di Dio. Eppure il Signore parla chiaro, e forte. Nelle sue parole non ci sono mai vuoti spiritualismi, non ci sono incertezze, non ci sono astrattezze: sono parole sicure e concrete come la materia di cui siamo fatti:

“In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di piú grandi, perché io vado al Padre” (Gv 14,12)... “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14,21)... “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23)... “E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”“ (Mc 16,17-18).

Non sono parole pronunciate alla leggera, sono sfide che la forza dell’amore di Dio muove alla nullità della nostra fede. Sono parole che ci umiliano perché rendono evidente a tutti ciò che dovremmo essere e non siamo, ma - e questo è l’aspetto consolante - ci aiutano anche a capire ciò che invece possiamo e dobbiamo essere: «Io ho fatto la mia parte; - diceva Francesco ai suoi compagni - la vostra, Cristo ve la insegni» (LegM 14, 3: FF 1239).