La sottile politica persecutoria del regime sovietico mi si palesò per la prima volta in occasione del trasferimento da Tambow a Oranki.

Finché la truppa era rimasta con gli ufficiali, a dispetto degli stenti, delle privazioni, della fame, della sete, delle malattie, della morte, la disciplina era sopravvissuta, era servita a cementare i prigionieri, a sottrarli alla propaganda di disfacimento morale dei commissari politici russi e dei fuorusciti italiani.

Devo dire, tuttavia, che anche separati dagli ufficiali, i soldati italiani - nella loro stragrande maggioranza seppero dignitosamente respingere qualsiasi compromesso, preferendo la fame a una facile e comoda defezione. E questo non deve essere dimenticato.

Arrivati alla piccola stazione di Tambow ci contammo. Eravamo centosettanta, all'incirca, tutti ufficiali. Al lager di Tambow erano rimasti il tenente Latino Latini, il tenente Giovanni Barberis, il sottotenente Mario Fabbrini, il sottotenente Nascimbene, il sottotenente Pesavento, il sottotenente Pambianchi, il sottotenente Melchiorre, il sottotenente Nervi, il capitano Bertolotti, il cappellano del Cervino e quello del gruppo Udine.

Su un binario morto spiccava la sagoma di un vagone. Un vagone-bagno. Ci spogliammo, ci illudemmo di lavarci con qualche cucchiaio d'acqua e il risultato fu che all'uscita dal carrozzone il nostro abbigliamento s'era ridotto di un terzo.

Qualche romeno o qualche guardia aveva fatto una cernita dei migliori indumenti, appropriandosene sbrigativamente.

Gli abiti che rimanevano erano fradici, perché erano stati disinfettati con della creolina.

 

 

 

 

 

 

(1) La fotografia è tratta dalla pubblicazione del Ministero della Difesa, CSIR-ARMIR. Campi di prigionia e fosse comuni, Gaeta 1996, 90.