Il nuovo ordine mondiale

 

Dopo i fatti del 1989, con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, molti hanno sperato in una nuova era di prosperità e di pace. L'inizio del nuovo millennio, nel caso ce ne fosse stato ancora bisogno, ha smentito questo auspicio. La logica del bipolarismo per oltre quaranta anni ha retto il mondo e ha condizionato fortemente la politica e la storia di molti popoli; la sua fine non poteva non rimettere in moto molti di quei processi sopiti che covavano sotto le ceneri, a cominciare dalle rivendicazioni nazionalistiche, alimentate o sostenute dalle tensioni politico-culturali e religiose.

Siamo immersi piú che mai in un’epoca di trasformazioni dalle quali scaturirà un diverso ordine mondiale. Riuscire a porre le basi per una soluzione realistica dei problemi contingenti è una sfida che ci impegnerà per lungo tempo e che richiederà piú che mai uno sforzo attento e intelligente. Potremmo essere tentati di rimandare questo compito o di affrontarlo in modo superficiale ma questo comporterà solo costi umani ed economici di gran lunga superiori: i problemi irrisolti si ripresenteranno nel futuro con maggiore virulenza e gravità. Non possiamo e non dobbiamo dunque permetterci alcuna superficialità, ecco perché è importante rispondere alle problematiche odierne esprimendoci al massimo delle nostre possibilità.

Il terrorismo che oggi ci insidia è anche la conseguenza di errori storici, di problemi politici e culturali irrisolti e incancreniti che interpellano i nostri popoli e le nostre coscienze. Sarebbe illusorio e pericoloso ritenere che le sue incognite siano risolvibili semplicisticamente in termini strategico-militari. L’intervento militare è talvolta inevitabile e necessario, soprattutto in un’ottica di contenimento e di emergenza, ma spesso non può risolvere la questione alla radice. La sfida può e deve essere affrontata anzitutto in un’ottica politica, culturale e di fede: sarà proprio su questi piani che potremmo davvero vincerla o perderla. Occorre identificare e perseguire non solo i responsabili del terrorismo, ma tutti quei processi politici, economici e culturali che ne alimentano in qualsiasi modo la fiamma. A ragione Paolo VI nella sua enciclica Populorum progressio (nn. 34, 76, 83, 87) ebbe saggiamente a ricordare che il nome nuovo della pace è sviluppo. Sviluppo a tutto campo, per tutti, nessuno escluso. Escludere popoli e nazioni dallo sviluppo significa porre le premesse per i futuri disordini: è una facile profezia.

Sarebbe un grave errore tuttavia cadere nella trappola politica e mediatica, fin troppo rozza, consistente nell'identificare semplicisticamente buoni e cattivi. Il terrorismo è un problema serio e la politica globale messa in atto per combatterlo deve comprenderne tutta la complessità. Il rimedio in certi casi, alla lunga, potrebbe essere anche peggiore del male e le insistenti richieste di rinuncia alle garanzie democratiche in cambio di una maggiore ed illusoria sicurezza fanno pensare al peggio. Assieme al terrorismo dunque occorre combattere un altro pericolo, quello totalitario, cui tendono i nostri sistemi politici sempre più autoreferenziali. Occorre dunque cercare ed esigere la verità, la verità prima di ogni cosa, contro tutti i terrorismi e contro tutti i totalitarismi.

 

 

I pregiudizi ideologici

Per rispondere efficacemente a queste sfide però occorre anche sgomberare il campo da tutti quei pregiudizi culturali che da troppo tempo ormai paralizzano la coscienza politica e culturale dell’Occidente. Ci sono ideologie e movimenti che da decenni puntano il dito sulle responsabilità storiche del mondo occidentale e non sempre si tratta di sana e auspicabile autocritica ma, talvolta, di profonda e radicale delegittimazione: Occidens delendum est - l’Occidente deve essere distrutto, secondo alcune istanze politiche e culturali. A dirlo, molto prima delle organizzazioni estremistiche islamiche e non, sono i movimenti culturali, più o meno eversivi, che trovano spesso nell’ideologia marxista-comunista la loro matrice originaria. Uno dei frutti tipici di quell’ideologia è stato appunto l’anti-occidentalismo. Prima del suo sorgere lo spirito antieuropeo albergava piú che altro in quei contesti soggetti al dominio coloniale e imperialistico dei grandi stati nazionali come - almeno in tempi piú recenti - Regno Unito, Francia, Olanda e Belgio. Occorre sottolineare tuttavia che questo spirito antieuropeo, eccetto alcuni casi particolari, non partiva tanto da posizioni propriamente ideologiche, quanto piuttosto da una naturale e spontanea opposizione allo straniero occupante. Un’occupazione non di rado priva di scrupoli, mossa dal puro profitto economico e dagli interessi strategici e colpevole di una gestione politica e sociale a dir poco irresponsabile, quando non espressamente criminale.

Prima di continuare però occorre rammentare un dato storico: l'imperialismo non è certo esclusivo dell'Occidente. Anche l'Oriente ha conosciuto una sete di dominio e di potere non meno feroce e omicida. Ne sanno qualcosa i popoli che per secoli subirono dominazioni come quella mongola, araba, ottomana e piú recentemente nipponica. L'impero ottomano, ad esempio, cessò di rappresentare un pericolo per l'Europa solo agli inizi del Novecento, soprattutto dopo l'avvento della rivoluzione di Mustafa Kemal Atatürk. Lo spietato dominio ottomano - simboleggiato dai suoi “giannizzeri” - seminò il terrore in Occidente per circa seicento anni. Le sue armate giunsero fino alle porte di Vienna nel 1683, complice la Francia indolente di Luigi XIV, e furono respinte in extremis dalle truppe dell’imperatore Leopoldo I, alle quali si erano unite le armate tedesche e quelle polacche del grande Giovanni Sobieski, grazie ad un gioco di pazienti alleanze politiche, militari e religiose, sostenute dalla Santa Sede, e che sembravano umanamente irrealizzabili. Nonostante questa grande vittoria dell’Europa molti intellettuali dimostrano di avere una memoria corta, non cosí invece per le Crociate, assurte ad abusato luogo comune anticlericale. Questo a dispetto della loro funzione difensiva e controffensiva: la liberazione dei luoghi conquistati militarmente dagli eserciti mussulmani e la salvaguardia delle vie commerciali per l’Oriente. L’Europa insomma, nel grande club imperialista, assumerà un ruolo davvero preponderante in tempi relativamente recenti, grazie anche alle superiori conoscenze tecnologiche, incentivate dalla rivoluzione industriale, che favoriranno grandemente l’espansione coloniale ottocentesca. L’Occidente si assumerà cosí grandi responsabilità storiche ma non certo da protagonista unico della scena mondiale. Il mito dell’Oriente saggio e buono per definizione infatti, come il “mito del buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau e di una certa letteratura illuminista, è solo il parto di accese e ingenue fantasie occidentali.

 

 

L'anti-occidentalismo marxista-comunista

Con l’avvento dell’ideologia marxista-comunista sorgerà un anti-occidentalismo più radicale e soprattutto piú generalizzato. Il mondo occidentale, vittima del suo stesso liberismo sfrenato, genererà in sé il male ideologico che gli avvelenerà la vita e ne minerà l’unità, la coscienza e l’identità fino ai nostri giorni. L’Occidente verrà dipinto cosí come il portatore di tutti gli errori e di tutti gli orrori: secoli e millenni di civiltà verranno sconfessati e denunciati dai novelli ideologi che guarderanno a Oriente come al luogo della salvezza e della libertà. L’Unione Sovietica di Lenin, di Stalin e Breznev, la Cina di Mao, il Vietnam, la Cambogia, perfino Cuba e le nuove teologie della liberazione accenderanno le speranze mal riposte - historia docet - di molti occidentali, pronti a farne propaganda, piú o meno in buona fede, ma spesso ben lungi dal farne l’esperienza sulla propria persona. L'unica grande assente dalla lista dei "paradisi socialisti" sarà sempre la Corea del Nord, una penosa satrapia troppo impresentabile, anche per i comunisti occidentali più intransigenti. Criticare la civiltà e la cultura occidentali dall’interno del loro contesto liberale non è poi cosí rischioso e molti intellettuali vengono assecondati da lobby culturali e politiche, che si pretendono alternative e che sono avide di novità, tanto piú gradite quanto piú dissacranti. Anche a livello filosofico, sociologico e scientifico sorgeranno teorie e movimenti che getteranno le basi per una critica radicale e non di rado con esiti devastanti.

Un vasto movimento culturale e d’opinione - ancora oggi - ha preso come obiettivo la delegittimazione dell’Occidente e della sua cultura a cominciare dalle sue radici cristiane; un movimento che paradossalmente è nato e si è affermato proprio nelle fertili scuole e nei raffinati collegi e campus universitari occidentali. Si tratta di storia recente dunque e mentre il blocco comunista, a partire dagli anni ‘50, si avviava verso un’era impressionante di militarizzazione forzata, nel mondo occidentale il fenomeno pacifista esplodeva con tempismo quasi perfetto: un pacifismo a senso unico però che si è sempre guardato bene dall’agire oltre la “cortina di ferro”. Cosí scriveva, infatti, il giornalista e storico Indro Montanelli nel 1988:

«Secondo qualcuno, è stato il diffondersi dei movimenti pacifisti che ha costretto le classi dirigenti di tutto il mondo a prendere atto della ribellione delle coscienze a qualsiasi forma di violenza. [...] L'ipotesi è un'autentica bufala molto facile da smascherare. I conflitti che fin qui insanguinavano il mondo si svolgevano in terre e latitudini in cui di pacifismo non c'era neanche l'ombra. La propaganda e i movimenti pacifisti attecchiscono e si sviluppano nei paesi democratici dove la pace c'è già. Una volta che alcuni loro adepti italiani vollero andare a propagandarli nella Russia di Breznev furono impacchettati e rispediti al mittente» (cfr. MONTANELLI I., Oggi, 31 agosto 1988).

Sí, l'Occidente ha le sue responsabilità, ma ha anche meriti incontestabili, come l'aver portato al mondo intero l'ideale della dignità dell'uomo e della libertà, con tutti i valori che ne conseguono, uniti ad una sincera capacità autocritica mai vista prima nella storia: i grandi sistemi culturali dell'Oriente concepiscono l'autocritica dell'individuo di fronte al sistema, quasi mai quella del sistema stesso. Goffredo Parise, nel suo libro Cara Cina (Longanesi 1966) affermò che l'Occidente dalla Cina deve apprendere lo stile, la Cina dall'Occidente deve apprendere la libertà. È vero, l'Occidente e l'Oriente devono sapersi integrare l'uno con l'altro dando al mondo la possibilità di respirare con entrambi i polmoni. Anche l'Oriente ha le sue responsabilità, ha i suoi meriti incontestabili... e i suoi gravi, gravissimi errori storici. Perché le grandi civiltà che pure ha espresso sono scomparse o non sono state capaci di evolversi? Perché l'Islam fin dal suo sorgere ha coltivato un'aggressiva politica imperialistica? Perché pur avendo trasmesso parte dell'antica cultura greca non ha sentito l'esigenza di integrarla in un autentico processo evolutivo? Perché non è sorta dalle sue istanze la scintilla del moderno progresso scientifico, tecnologico e culturale? Perché non ne è scaturita la stessa scintilla della libertà che è nata per esempio dalla Rivoluzione Americana? Perché non ne è sorta la chiara percezione della dignità dell'uomo, che invece verrà sancita inequivocabilmente da tutte le legislazioni occidentali? Il fatto è che il problema dell'Islam è l'Islam stesso, ciò che molti, anche in Occidente, non hanno il coraggio di affermare.

 

 

Islam, scienza e cristianesimo

Vale la pena di riportare un cospicuo testo che tuttavia è di estrema chiarezza circa la problematica del rapporto tra l'Islam e la scienza. Un dissidio che non ha trovato risposte e che il cristianesimo invece è riuscito a superare brillantemente, preconcetti ideologici a parte. Così scrive Frank J. Typler, fisico matematico alla Tulane University di New Orleans:

«Nel 1982 l’Istituto di studi politici di Islamabad, in Pakistan, raccomandò che i libri di testo scientifici venissero modificati per sottolineare che ogni mutamento era dovuto non all’azione della legge fisica ma a Dio:

C’è un veleno latente nel sottotitolo L’energia causa i mutamenti, perché dà l’impressione che l’energia, piuttosto che Allah, sia la vera causa. Analogamente, è antiislamico insegnare che la combinazione di idrogeno e ossigeno produce automaticamente acqua. Il punto di vista islamico è questo: quando gli atomi di idrogeno si avvicinano agli atomi di ossigeno, per volontà di Dio, si forma acqua.

Il sottinteso è che Dio potrebbe cambiare idea un istante dopo, e l’acqua non si formerebbe piú. Il teologo musulmano Abu Hamid Mohammed al-Ghazali (1058-1111), famoso per aver favorito l’accoglienza del sufismo (misticismo musulmano) nell’islam ortodosso, scrisse un libro, L’incoerenza dei filosofi, in cui attaccava l’idea di causa ed effetto, e ne concludeva che la conoscenza scientifica è impossibile. Invece di seguire i filosofi naturali (o scienziati) e dire che il fuoco brucia il cotone, sosteneva:

«Questo lo neghiamo, dicendo: l’agente della combustione è Dio, mediante la creazione del nero nel cotone e la separazione delle sue parti, ed è Dio che ha fatto bruciare il cotone, o tramite la mediazione degli angeli o senza mediazione. Perché il fuoco è un corpo morto, che non ha azione, e qual è la prova che sia l’agente? In effetti i filosofi [gli scienziati] non hanno altra prova che l’osservazione del verificarsi della combustione, quando c’è contatto con il fuoco, ma l’osservazione dimostra soltanto una simultaneità, non un rapporto di causa ed effetto, e in realtà non c’è altra causa che Dio. I teologi sufi seguirono al-Ghazali insistendo che le leggi fisiche non esistono perché Dio distrugge e ricrea l’universo in ogni istante».

Nel corso dei miei studi piuttosto ampi sull’islam, non sono mai riuscito a trovare una sola scoperta scientifica significativa compiuta nell’intera storia della civiltà islamica fino al XX secolo. Gli esempi di risultati scientifici documentati da parte di studiosi islamici sono sostanzialmente banali. Tutta la fisica e tutta l’astronomia moderne derivano dall’opera dei cristiani Galileo (1564-1642) e Copernico (1473-1543), che in pratica erano all’oscuro dell’«opera» degli «scienziati» islamici, e presero invece le mosse dall’opera dei greci Archimede (290-211 a.C.) e Tolomeo (100-170 d.C.), rispettivamente. Dal punto di vista della scienza, la civiltà islamica è come se non fosse esistita. Attribuisco questo fatto alle dottrine teologiche islamiche, appena richiamate, contrarie all’idea di leggi naturali confermate a livello sperimentale, e anche al fatto che, in tutta la storia islamica, chiunque fosse in disaccordo con la teologia prevalente è stato sempre considerato un apostata, e un numero schiacciante di giuristi islamici ha convenuto che la pena per l’apostasia sia la morte. Nessuno cercherà le leggi di natura se anche il solo ipotizzare che esistano lo rende soggetto alla pena capitale. Nel 1983 si tenne in Kuwait un convegno di diciassette rettori di università arabe. Il principale argomento di discussione fu la domanda «La scienza è islamica?». La delegazione saudita sostenne che la risposta è no, essendo la scienza intrinsecamente laica e quindi, per ciò stesso, in contrasto con il credo islamico.

C’è una leggenda (falsa), forse messa in circolazione da critici cristiani dell’islam, secondo la quale, quando gli eserciti musulmani conquistarono la capitale dell’Egitto Alessandria, il loro capo, il secondo califfo Omar (‘Umar ibn al-Khattab, 586-644), ordinò che i libri della biblioteca fossero bruciati per scaldare l’acqua per il bagno dei soldati musulmani. Se i libri erano in contrasto con il Corano, erano eretici, e se erano in accordo con esso, erano superflui. In entrambi i casi dovevano essere distrutti. In realtà, la grande biblioteca di Alessandria aveva cessato di essere menzionata da testimoni oculari fin dal 100 a.C. circa, e nell’elenco dei capi bibliotecari non ci sono nomi successivi a quell’epoca, e quindi probabilmente la biblioteca aveva cessato di esistere verso il 100 a.C., forse distrutta durante il regno caotico del re egizio Tolomeo VIII, noto alla storia come Tolomeo lo Psicotico. (Non sto scherzando, questo era veramente il soprannome datogli dagli storici greci dopo la sua morte; la parola usata era psychon, che può essere tradotta anche con «ostile».) Cosí né i cristiani (che ne sono stati spesso accusati) né i musulmani furono responsabili della distruzione della grande biblioteca. La pretesa che fanatici religiosi abbiano bruciato la biblioteca è un mito. Ma ci fu una differenza cruciale tra le reazioni dei cristiani e dei musulmani a questo mito. I cristiani sentirono l’esigenza di scusarsene; molti studiosi musulmani, invece, prendendo per vero il mito, lo citarono con approvazione. In effetti, i libri in disaccordo con il Corano andavano distrutti, e non c’era alcun bisogno di leggere altri libri oltre il Corano.

C’è una sola eccezione alla regola che non vi siano stati e non vi siano importanti scienziati musulmani: Mohammed Abdus Salam (1926-1996). Salam fu uno dei principali creatori del modello standard della fisica delle particelle [...]. Salam ricevette meritatamente il premio Nobel per la fisica nel 1979 per le sue ricerche sul modello standard [...]. Salam era un musulmano nel senso che si definiva tale, e tutti coloro che lo hanno conosciuto sono convinti che fosse assolutamente sincero nel considerarsi un musulmano.

Salam è l’eccezione che conferma la regola. Con un atto del parlamento pakistano, nel 1974 la setta islamica ahmadi, cui Salam apparteneva, fu dichiarata eretica e soggetta a persecuzione. Pervez Hoodbhoy, coautore con Salam di Islam and Science, ha riferito sul suo sito web nel 2002: «Al mio vicino della porta accanto, un ahmadi, hanno sparato al collo e al cuore ed è morto sulla mia automobile mentre lo portavo all’ospedale. La sua unica colpa era di essere nato nella setta sbagliata». Salam lasciò il nativo Pakistan negli anni ‘50, rendendosi conto che, in quel paese, fare della fisica sul serio sarebbe stato impossibile. Se fosse rimasto in Pakistan e avesse ugualmente raggiunto i risultati che poi ottenne come professore di fisica all’Università di Londra, sarebbe diventato il piú eminente ahmadi del Pakistan e, come tale, sarebbe probabilmente andato incontro alla stessa sorte del vicino di Hoodbhoy.

Muzaffar Iqbal, in un libro intitolato anch’esso Islam and Science, non menziona neppure una volta il massimo scienziato islamico di tutti i tempi, Abdus Salam, anche se il libro fu scritto nel 2002, in gran parte proprio per contraddire quello di Hoodbhoy e Salam, e pretendeva di costituire un esame approfondito delle conquiste scientifiche dell’islam. Iqbal menziona soltanto Hoodbhoy. Salam era un eretico, e quindi non un musulmano. Nel loro libro, Hoodbhoy e Salam avevano mostrato come pressoché tutti gli scienziati musulmani oggi considerati significativi fossero stati perseguitati al loro tempo. Come i difensori contemporanei dell’islam, il fisico francese cattolico Pierre Duhem (1861-1916) tentò di dimostrare che gli studiosi medievali cristiani avevano dato importanti contributi alla fisica, per esempio introducendo il concetto di inerzia. Né gli studiosi musulmani della cosiddetta Età dell’oro dell’islam (ca. 700-1100) né gli studiosi medievali cristiani diedero alcun contributo significativo alla fisica. Come ho sottolineato in precedenza, né Copernico né Galileo erano al corrente di questi «contributi significativi».

Nondimeno, la scienza moderna è stata una creazione della civiltà cristiana. Il periodo creativo della fisica e dell’astronomia greche ebbe termine intorno al 100 a.C. Questa data finale è importante, perché a volte si sostiene che fu l’ascesa dei cristianesimo a porre fine alla scienza greca. Non è cosí, come mostra il seguente elenco di fisici e astronomi greci, con le rispettive date di nascita e morte:

Pitagora di Sarno (580-500 a.C.), il primo grande matematico greco. La sua scuola scoprí il teorema che porta il suo nome e dimostrò l’esistenza dei numeri irrazionali.

Socrate (470-399 a.C.)

Platone (428-347 a.C.), il filosofo che era convinto che tutta la fisica dovesse basarsi sulla matematica.

Teeteto di Atene (417-369 a.C.)

Eudosso di Cnido (395-337 a.C.)

Aristotele (384-322 a.C.), il filosofo che sostenne che il moto non può essere descritto dalla matematica. I principali oppositori di Galileo erano seguaci di Aristotele.

Euclide di Alessandria (attivo tra il 323 e il 285 a.C.)

Aristarco di Sarno (attivo tra 310 e il 230 a.C.), il primo a proporre un sistema solare eliocentrico.

Archimede di Siracusa (290-211 a.C.)

Apollonio di Perga (260-190 a.C.)

Ipparco di Nicea (200-127 a.C.)

Ipsicle di Alessandria (190-120 a.C.)

Fine dei periodo creativo della scienza greca (ca. 100 a.C.)

(Fine della grande biblioteca di Alessandria)

Erone di Alessandria (attivo intorno al 60 d.C.)

Tolomeo di Alessandria (100-170 d.C.)

Diofanto di Alessandria (attivo intorno al 250 d.C.)

Pappo di Alessandria (attivo intorno al 320 d.C.)

Ipazia di Alessandria (370-415 d.C.), uccisa da una folla di cristiani.

Queste date indicano che le vite dei matematici e dei fisici elencati - al tempo dei greci non c’era distinzione tra le due categorie - si sovrapposero parzialmente, e che essi avrebbero potuto conoscersi» (cfr. TYPLER F. J., La fisica del cristianesimo..., Mondadori Ed., Milano, 2008, 138-142).

Il contrasto fra i valori e la prassi in Occidente purtroppo può essere bruciante, ma è molto piú bruciante il silenzio - quando non addirittura la negazione teorica e pratica - di molte culture e legislazioni orientali. Ancora oggi, molti paesi orientali, quelli islamici per primi, non hanno sottoscritto la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, altri hanno proposto una serie di vaghe "dichiarazioni islamiche dei diritti dell'uomo", con il serio limite di essere ambigue quanto a terminologia, formulazioni e contenuti. Il problema oltretutto è che per l'Islam «"l'azione di Allah nella storia coincide con l'azione dei suoi fedeli, le vittorie dei suoi fedeli sono le sue vittorie, ma anche le sconfitte dei suoi fedeli sono le sue sconfitte. Gravato da una cosí pesante responsabilità, l'uomo musulmano ha finito per non osare piú nulla di radicalmente nuovo". E questo spiega l'immobilismo della sua "cultura" rispetto, per esempio, a quella giapponese. Da questa frustrazione nasce l'odierno terrorismo integralista, che ha il fine dichiarato della restaurazione del califfato» (cfr. RONZA R., Il Giornale, 17 luglio 2005).

 

 

L'integrazione possibile

Nonostante questo, secoli di civiltà occidentale ci impediscono di procedere per semplicistiche contrapposizioni: non si tratta di decidere fra Occidente e Oriente, ma di capire come integrare l'uno con l'altro in un dialogo fecondo per entrambi. Non si può certo disprezzare il patrimonio dell’Oriente, ma non si può neppure delegittimare quello dell’Occidente che ha dato all’umanità un patrimonio perenne e intramontabile di cultura e di civiltà. Difendere questo patrimonio è un dovere per tutti, degli europei per primi. E invece c’è una parte dell’Occidente che, pur vivendoci agiatamente, odia l’Occidente. Alcuni mass-media, opinion leaders e intellettuali vogliono imporre il teorema ideologico per cui l’Occidente cristiano è sempre e comunque colpevole. Assistiamo cosí ad un liberalismo sempre piú impotente che ha rinunciato alla difesa di se stesso sfoggiando un laicismo tanto presuntuoso e settario quanto debole ed esitante di fronte agli attacchi dell’ideologia islamica fondamentalista. Un’ideologia apprezzata - ormai è evidente - anche per il suo anti-americanismo. L’impressione però, confortata dalla storia recente, è che questo apprezzamento costi e costerà sempre piú caro a tutto l’Occidente e, alla lunga, all’intero ordine mondiale.

Realisticamente parlando l'Occidente, con gli Stati Uniti fra i primi, ricopre un ruolo fondamentale nella storia dell'umanità; che può e deve essere integrato e corretto ma che non può essere sostituito - a breve - da altri sistemi politici culturali, se non altro perché tali sistemi, al momento, semplicemente non esistono o sono ben lontani dall'essere compiuti. L'Occidente ha certamente bisogno di una critica seria e costruttiva ma è illusorio pensare che si possa avere un futuro senza il suo apporto decisivo: il crollo dell'Occidente, fosse pure limitato al solo contesto nord-americano, alla fine potrebbe rappresentare un trauma pericoloso per il mondo intero. Ecco perché è insensato gridare: Occidens delendum est. L'obbiettivo può essere uno solo: migliorare e progredire, non certo corrodere e distruggere. I manovali del terrore in ultima analisi non possono vincere e la loro tattica suicida è un segno eloquente di questa intrinseca debolezza, di questo "vuoto d'umanità" che lascia dietro di sé solo la morte, senza alcuna speranza e senza nessuna compassione. I manovali del terrore agiscono cosí a causa di una concezione raccapricciante di un "credo" per il quale la vita umana, anche la piú innocente, non ha autentico valore e dignità. Quante giovani vite sacrificate nei suoi innumerevoli falò del terrore, contro i quali dobbiamo ricordare il monito biblico: «Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia [...] perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore» (Dt 18,10-12). Questo secolo rischia di vedere il collasso dell'Islam, per la sua infedeltà alle istanze spirituali più profonde dell'uomo, ma anche quello dell'Occidente come lo conosciamo oggi, per la sua infedeltà alle sue radici fondamentali che sono cristiane. La speranza è che la Cristianità, come seppe far rinascere la civiltà dalle rovine dell'antico impero romano, possa fare altrettanto da quelle della modernità atea e materialistica.

 

 

La guerra "giusta"

«Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, suo figlio o la sua figlia [...] perché chiunque fa queste cose è abominio al Signore» (Dt 18,10-12). Quella del Deuteronomio, prestata a questo contesto, è una parola che condanna la fede negli idoli e i sacrifici umani agli dei falsi. Non è falsa una fede che chiama santa una guerra e martire un assassino suicida? Non è corretto condannare sic et simpliciter una fede religiosa in quanto tale, ma è lecito, anzi doveroso, giudicare la condotta dei singoli. È possibile accettare che alcuni, per giustificare azioni in sé disumane, dichiarino di conformare la loro condotta ai precetti di una religione? Se cosí fosse, infatti, si porrebbero due alternative: o quell'asserzione è palesemente infondata, e allora essa dovrebbe essere inequivocabilmente condannata dagli altri correligionari; oppure quell'asserzione è vera e allora ci sono buoni motivi per ritenere quella fede decisamente inaccettabile.

Nessuna guerra è santa essendo radicalmente inficiata da un’intrinseca ingiustizia. L’unico vero sconfitto di ogni guerra è l’uomo, l’unica vera vincitrice di ogni guerra è la guerra stessa e ciò è il colmo dell'iniquità. Una guerra al piú può essere riconosciuta come evitabile o inevitabile, quindi purtroppo necessaria, ma non santa. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al riguardo afferma:

«Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. "Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa" (GS 79)» (n. 2308).

«Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente:

- Che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo.

- Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci.

- Che ci siano fondate condizioni di successo.

- Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini piú gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione.

Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della "guerra giusta". La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune» (n. 2309).

Non deve trarre in inganno l'espressione "guerra giusta" usata spesso in passato nel contesto ecclesiale. L'aggettivo "giusta" è riferito non alla guerra in sé - cosa intrinsecamente cattiva - quanto alle sue cause che possono essere giuste o ingiuste o - se si preferisce - ragionevoli o irragionevoli. L'aggettivo "giusto" in questo caso non vuole essere tanto un qualificativo morale quanto un'indicazione di plausibilità delle sue cause: la causa può essere giusta, ma mai la guerra in sé, con le sue dinamiche irrimediabilmente disumane e perciò anticristiane. Poste queste necessarie premesse prenderemo in considerazione l'atteggiamento profetico che Francesco di Assisi manifestò dinanzi al drammatico conflitto che già ai suoi tempi infuriava fra l'Occidente e il mondo islamico in pieno espansionismo, perché di espansionismo condotto manu militari si trattava e non certo di pacifica espansione.

 

 

 Assedio della Città santa

L'Assedio della Città santa

 

 

 

Francesco d'Assisi e la quinta crociata

Francesco era ben cosciente del pericolo rappresentato dall'espansionismo islamico tanto che, ancora giovanissimo, nel 1204 o nella primavera del 1205 decise di recarsi in Puglia per combattere fra le fila di Gualtiero di Brienne (1Cel 4: FF 325). Giunto a Spoleto, un'esperienza interiore straordinaria sconvolse i suoi progetti, spingendolo a tornare ad Assisi, dove iniziò un cammino di conversione che lo trasformò da aspirante cavaliere e uomo d'armi in uomo evangelico, autentico portatore di pace. Una pace vera però, sofferta, fatta di innumerevoli gesti concreti di riconciliazione e di giustizia, non un pacifismo velleitario e ideologico. Furono numerosi nella sua vita i frutti di pace e un episodio, in particolare, li riassume idealmente tutti: quello del lupo di Gubbio (Fior. XXI: FF 1852). Il momento culminante del famoso fioretto vede Francesco indurre il popolo e il lupo a stringere un patto di pace: il lupo depone la sua ferocia e i cittadini si impegnano a nutrirlo ogni giorno. E questo dura per due anni, finché l'animale muore di vecchiaia portando con sé il ricordo di Francesco, che egli risvegliava con la sua ormai mite presenza. Alcuni storici ipotizzano che il lupo in questione fosse in realtà un pericoloso brigante della zona aiutato dal santo a reinserirsi nel corpo sociale. Quale che sia la realtà storica resta il valore indiscusso di una vita spesa per il ristabilimento della pace individuale e sociale: una pace garantita dalla fede e da un rinnovato senso di giustizia.

Ma qual era l’atteggiamento di Francesco di Assisi di fronte al problema posto all’epoca dal mondo islamico in continua e violenta espansione? Qual era il suo atteggiamento di fronte alle crociate? Ebbene proprio la Quinta crociata si svolse in un arco di tempo dal 1217 al 1221 ed ebbe come primo obiettivo la conquista del porto egiziano di Damietta. Il piano strategico, piuttosto ardito, prevedeva un attacco all’Egitto e la presa del Cairo per assicurarsi il controllo della penisola del Sinai. Questo piano tuttavia non poté essere portato a compimento a causa del mancato invio dei rinforzi promessi dall’imperatore Federico II dopo la presa di Damietta, che quindi verrà nuovamente persa nel 1221. Il 24 giugno 1219 le cronache affermano che Francesco si imbarcò ad Ancona con dodici compagni per raggiungere Acri e poi Damietta, dove l’esercito crociato si schierava contro l’esercito mussulmano. Francesco visitò il campo crociato ma, a quanto ci risulta, restò amareggiato dalle faziosità e dalle divisioni interne: predisse cosí una disfatta che la realtà non tardò a confermare (29 agosto 1219; cfr. FF 617). Non dovevano certo essere rilievi inconsistenti e anche secoli dopo l’ambasciatore imperiale a Costantinopoli, verso il 1554, rilevava:

«Là [presso i turchi] troviamo le risorse di un potente impero: forze intatte, abitudine alla vittoria, resistenza alla fatica, unità, disciplina, frugalità, vigilanza. Qui, povertà pubblica, lusso privato, fiacchezza, morale a pezzi, scarsa resistenza e preparazione; i soldati sono insubordinati, gli ufficiali corrotti; vigono il disprezzo per la disciplina, la sregolatezza e l'imprudenza; ubriachezza e condotta dissoluta sono generalizzate, e, quel che è peggio, il nemico si è abituato alla vittoria e noi alla sconfitta. Possono esserci dubbi sui risultati? L'unico punto a nostro favore è la Persia; perché il nemico, benché impaziente di attaccare, deve tuttavia tener d'occhio questa minaccia alle sue spalle. Ma la Persia può solo rimandare il nostro destino; non può salvarci. Quando i turchi avranno regolato i conti con la Persia, ci salteranno alla gola, col sostegno di tutta la potenza dell'Oriente; quanto siamo impreparati a questo evento non oso nemmeno immaginarlo!» (The Turkish Letter of Ogier Ghislain de Busbecq, Imperial Ambassador at Costantinople 1554-1562, tradotto dal latino da Edward Seymour Forster, Oxford 1927, 112, riportato da LEWIS B., Il suicidio dell'Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Milano 2002, 11).

È noto che Papa Onorio III non riconobbe la Quinta crociata come legittima. Proprio in attesa di quello scontro Francesco ottenne dal legato pontificio (il benedettino portoghese Pelagio Galvao, cardinale vescovo di Albano di cui si tratta in DONOVAN J. P., Pelagius and the fifth Crusade, Filadelfia 1950) di potersi recare, a suo rischio e pericolo, in visita al sultano Melek-el-Kamel. Francesco, accolto da questi con raffinata ospitalità, poté parlare del Vangelo ma non vedendo frutti di conversione poco dopo fece ritorno al campo cristiano. Il 5 novembre 1219 Damietta venne conquistata dai crociati. Anche in questa occasione Francesco espresse disapprovazione per gli eccessi compiuti e per la condotta delle truppe. Nel gennaio 1220 cinque frati inviati in Marocco vennero uccisi dai mussulmani: furono i primi martiri dell'Ordine francescano; primi di una lunga serie di vittime e di dialoghi infruttuosi. Prima di riflettere sui fatti appena esposti tuttavia sarà bene leggere una delle cronache piú interessanti dell'epoca. Si tratta della Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier (il testo tradotto in italiano è reperibile in FF 2231-2234).

Il testo originale della Chronique è in francese antico ed è riportato da GOLUBOVICH G., Biblioteca biobibliografica della Terra Santa e dell'Oriente francescano (d'ora in poi BBT), I, 10-13, a cui è bene rifarsi per avere notizie piú ampie. Ernoul, continuatore del lavoro dell'arcivescovo Guglielmo di Tiro, trascorse gran parte della sua vita in Oriente dove si era recato come scudiero di Baliano II d'Ibelin e fu pertanto un testimone oculare di parecchi avvenimenti tra la terza e la quinta crociata, che egli narrò nella sua Cronaca, giunta a noi attraverso la trascrizione di Bernardo il Tesoriere che sembra l'abbia scritta dal 1229 al 1231, benché secondo alcuni autori l'opera sia databile tra il 1227 e il 1229. Interessante, anche per la bibliografia, l'opera di RUNCIMAN S., A History of Crusades, II, London 1965, 477-478; idem, III, London 1965, 481-482.

La stessa sobrietà del racconto di Ernoul sembra possa escludere dubbi circa la veridicità del medesimo. Bisogna notare tuttavia che il testo originale che va dal 1184 al 1197 è andato perduto e se è giunto fino a noi lo dobbiamo ad una versione dell'Eraclito di Guglielmo di Tiro e all'opera dello stesso Bernardo il Tesoriere che nel 1231 ne riprese il testo e lo compendiò. Questo testo, in francese antico, venne poi pubblicato nel 1871 a Parigi da L. de Mas-Latrie. Quanto all'Eraclito succitato, si tratta della volgarizzazione in francese della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, scritta da Guglielmo di Tiro e delle sue continuazioni fino al 1291. La prima di tali continuazioni, quella in cui si trova la notizia su san Francesco, giunge fino al 1231.

In merito all'opera BERNARDI THESAURARII, Liber de Acquisitione Terrae Sanctae, in BBT, I, 13-14 si deve rilevare che il testo latino è dell'epitomatore fra' Francesco Pipino da Bologna, O.P. che narra i fatti dal 1195 al 1230. Pipino, che tradusse l'opera attorno al 1320, attribuisce esplicitamente il racconto dell'episodio a Bernardo il Tesoriere. Benché la trascrizione di Bernardo si collochi negli ultimi anni del decennio 1220-1230, la notizia che ci interessa appare ritrascritta nella forma originale: a garantircelo è proprio il fatto che Francesco vi appare ancora come uno sconosciuto, assimilabile a qualsiasi altro chierico, a differenza di quanto si vedrà a proposito della non molto piú tardiva testimonianza contenuta nella Storia di Eraclito. Una raccolta abbastanza completa delle testimonianze sull'episodio di Damietta si trova nella già citata opera di GOLUBOVICH G., BBT, I, 2-84. Per una diligente analisi delle fonti invece, nell'intento di scoprire il senso della ricerca del martirio da parte di san Francesco, vedasi OKTAVIAN VON RIEDEN, Das Leiden Christi im Leben des hl. Franziskus, in CF, XXX (1960), 365-370, dove si trova anche un'esauriente bibliografia. Interessante anche l'articolo di CROIZY-NAQUET C., Deux représentations de la troisième croisade: l'histoire de la guerre sainte et la Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier, in Cahiers de civilisation médiévale, 44 (2001), 313-327.

 

 

La «Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier»

«1. Ora vi dirò di due chierici che si trovavano nell'esercito a Damiata. Un giorno si recarono dal cardinal (legato), e gli manifestarono la loro intenzione di andare a predicare al Sultano; ma volevano fare questo con il suo beneplacito. Il cardinale rispose che, per conto suo, non avrebbe mai dato né licenza né comando in tale senso, perché non voleva concedere licenza che si recassero là dove sarebbero stati senz'altro uccisi. Lo sapeva bene lui, che se ci andavano, non ne sarebbero tornati mai piú. Ma essi risposero che, se ci andavano, lui non avrebbe avuto nessuna colpa, perché non era lui che li mandava, ma semplicemente permetteva che vi andassero. E tanto lo pregarono che il cardinale, constatando che avevano un proposito cosí fermo, disse loro: «Signori miei, io non conosco quello che voi avete in cuore e quali siano i vostri pensieri, se buoni o cattivi; ma se ci andate, guardate che i vostri cuori e i vostri pensieri siano sempre rivolti al Signore Iddio». Risposero che non volevano andare dal Sultano, se non per compiere un grande bene, che bramavano portare a compimento. Allora il cardinale disse che potevano pure andarci, se lo volevano, ma che non si pensasse da nessuno che era lui a inviarli.

2. Allora i due chierici attraversarono il campo cristiano, dirigendosi verso quello dei Saraceni. Quando le sentinelle del campo saraceno li scorsero che si avvicinavano, congetturarono che certo venivano o come portatori di qualche messaggio o perché avevano intenzione di rinnegare la loro fede. Si fecero incontro, li presero e li condussero dal Sultano. Introdotti alla presenza del Sultano, lo salutarono. Il Sultano rispose al saluto e poi domandò loro se intendevano farsi saraceni oppure portavano qualche messaggio. Essi risposero che giammai si sarebbero fatti musulmani, ma piuttosto erano venuti a lui portatori di un messaggio da parte del Signore Iddio, per la salvezza della sua anima. E proseguirono: «Se tu, sire, vorrai credere alle nostre parole, noi consegneremo la tua anima a Dio, perché ti diciamo in verità che se tu morrai in questa legge che ora professi, sarai perduto né mai Dio avrà la tua anima. Proprio per questo noi siamo venuti. Ma se ci darai ascolto e vorrai comprendere, noi ti mostreremo con argomenti irrefutabili, alla presenza dei piú saggi dottori del regno, se li vorrai convocare, che la vostra legge è falsa». Il Sultano rispose che egli aveva dignitari maggiori e minori della sua legge e gli incaricati del culto e non poteva neppure ascoltare quello che essi volevano dire, se non alla loro presenza. «Molto bene, - risposero i due chierici -. Mandali a chiamare, e se noi non riusciremo a dimostrare con solidi argomenti che è vero quanto asseriamo, che cioè la vostra legge è falsa, sempre che vogliano ascoltare e comprendere, ci faccia pure mozzare la testa». Il Sultano allora convocò nella sua tenda i dignitari e sapienti. E cosí si trovarono insieme alcuni dei maggiori dignitari e dei piú saggi del suo regno e i due chierici.

3. Quando furono radunati insieme, il Sultano espose il motivo per cui li aveva convocati ed ora erano qui alla sua presenza, quello che i due chierici gli avevano proposto e la ragione della loro venuta alla sua corte. Ma essi gli risposero: «Sire, tu sei la spada della legge: a te il dovere di custodirla e di difenderla. Noi ti comandiamo, da parte di Dio e di Maometto, che ci ha dato questa legge, di far subito decapitare costoro. Quanto a noi non ascolteremo mai quello che essi dicono. Ma anche te mettiamo sull'avviso di non ascoltarli, perché la legge proibisce di prestar orecchio ai predicatori di altra religione. Se poi c'è qualcuno che voglia predicare o parlare contro la nostra legge, questa stessa stabilisce che gli sia mozzata la testa. Per questo ti comandiamo, da parte di Dio e della legge, che tu faccia subito tagliar loro la testa, come è prescritto».

4. Detto questo, presero congedo e se ne andarono senza piú voler ascoltare nessuna parola. Rimasero soli il Sultano e i due chierici. Allora il Sultano disse loro: «Signori miei, mi hanno detto, da parte di Dio e della legge, che io devo farvi decapitare, perché cosí è prescritto. Ma io, per questa volta andrò contro la legge; non sia mai che io vi condanni a morte. Sarebbe una ricompensa malvagia fare morire voi, che avete voluto, coscientemente, affrontare la morte per salvare l'anima mia nelle mani del Signore Iddio». Poi il Sultano aggiunse che se essi volevano rimanere con lui, li avrebbe investiti di vaste terre e possedimenti. Ma essi risposero che non volevano punto rimanerci, dal momento che non li si voleva né sentire né ascoltare, e perciò sarebbero tornati nell'accampamento dei cristiani, se lui lo permetteva. Il Sultano rispose che volentieri li avrebbe fatti ricondurre sani e salvi nell'accampamento cristiano. Ma intanto fece portare oro, argento e drappi di seta in gran quantità, e li invitò a prenderne con libertà. Essi protestarono che non avrebbero preso nulla, dal momento che non potevano avere l'anima di lui per il Signore Iddio, poiché essi stimavano cosa assai piú preziosa donare a Dio la sua anima, che il possesso di qualsiasi tesoro. Sarebbe bastato che desse loro qualcosa da mangiare, e poi se ne sarebbero andati, poiché qui non c'era piú nulla da fare per loro. Il Sultano offrí loro un abbondante pasto. Finito essi si congedarono da lui, che li fece scortare sani e salvi fino all'accampamento dei cristiani» (FF 2231-2234).

Quello che colpisce in questo racconto è l’atteggiamento umile, deciso e sincero dei due chierici. Sono ben consci di portare un messaggio di verità ma questo non li rende sprezzanti. Al Legato chiedono il permesso di avviare un confronto rispettoso ma franco. Non tentano di accattivarsi la benevolenza del sultano. Essi si manifestano come uomini di dialogo ma anche come uomini concreti; per loro l’incontro deve portare ad una determinazione; è uno strumento di comunione e non una tattica d’elezione, fine a se stessa, per una politica irresoluta. Forse è per questo che di fronte ad un rifiuto netto non insistono e preferiscono lasciare il campo mussulmano. Colpisce anche l’atteggiamento del sultano, certo molto piú aperto e disponibile dei suoi ministri di culto, ma incapace di andare oltre i suoi schemi mentali per instaurare un dialogo impegnativo. In ogni caso i due chierici rifiutano nettamente la lusinga delle ricchezze ed evitano accuratamente che essa prevalga sul messaggio di fede di cui vogliono essere portatori autentici. Chiedono con semplicità solo un po’ di cibo per poter poi riprendere il cammino verso il campo crociato. La cronaca non riporta niente sul loro stato d’animo subito dopo l’incontro. Non è difficile tuttavia intuire il dolore per un’occasione di pace perduta. Più tardi Francesco condannerà la violenza che purtroppo si manifesterà nella battaglia di Damietta, tanto feroce quanto inutile. Francesco però non è un pacifista a senso unico: non contesta aprioristicamente la crociata, ne contesta semmai gli eccessi, le violenze inutili, come a dire che il cavaliere cristiano, anche nella tristezza di una guerra inevitabile, deve sempre distinguersi per senso di umanità e di giustizia. Lui che aspirava a diventare un vero cavaliere, lui che soffrí nelle carceri di Perugia, dopo la battaglia vissuta con le milizie di Assisi (FF 584), non concepiva l’uso gratuito e spregiudicato della forza senza misura e senza regole.

Francesco, con un gesto insolito e ardito, tenta cosí di capovolgere gli schemi secolari basati sulla guerra santa. Ernoul sembra voler sottolineare che il gesto dei "due chierici" è una sfida agli atteggiamenti mentali che stavano alla base dei rapporti tra il mondo cristiano e quello mussulmano dell’epoca. Una sfida che Francesco intende portare nell’ambito della comunione ecclesiale; tentativo in parte vanificato dalle resistenze del cardinale legato che non vuole assumersi la responsabilità di ufficializzare il gesto con il proprio consenso. Le plausibili diffidenze della controparte mussulmana, che si concretizzano nel proposito esplicito di eliminare i due chierici, sono personificate nei rappresentanti ufficiali della fede islamica. Tra i due mondi sembra che non vi sia possibilità d’intesa e su questo giudizio sono concordi anche le testimonianze di Giacomo da Vitry (FF 2210-2213) e Bernardo il Tesoriere (FF 2231-2234), nel testo riproposto quasi un secolo piú tardi dal domenicano Francesco Pipino da Bologna, che riecheggia da vicino il racconto di Ernoul.

Secondo alcuni autori (vedasi l’interessante contributo di BASETTI-SANI G., voce Saraceni, in AA. VV., Dizionario Francescano, Assisi 1983, col. 1647-1672) l’idea di un’intesa impossibile e quindi la conseguente necessità di affidarsi alle armi, verrà in seguito fatta propria dai francescani stessi fino al punto da attribuire a Francesco la giustificazione della crociata. A riprova di ciò essi adducono, per esempio, il testo di un ignoto scrittore francescano del secolo XIV, che attribuisce a frate Illuminato da Rieti, compagno d’avventura del Santo, la testimonianza che Francesco davanti al sultano avrebbe apertamente giustificato la crociata, in risposta ad un’obiezione in cui il sultano si appellava alla legge evangelica. La domanda che sorge inevitabile è se ciò sia vero o se non si volesse impedire a Francesco di dire ciò che allora non si voleva che dicesse. L’argomento addotto da questi autori, alla luce stessa dei testi citati come piú equilibrati e autentici, non elimina del tutto i dubbi. L’autore della Storia di Eraclito sottolinea il disgusto di Francesco per la condotta dei crociati. Il cronista sente il bisogno di dare una spiegazione morale circa l’esito catastrofico della quinta crociata e la trova nel malcostume introdottosi nel campo cristiano. Egli si avvale della presenza di Francesco per fare tale sottolineatura, essendo egli ormai un uomo autorevole, un personaggio noto, in grado di avallare una simile tesi. L’impressione che alcuni riportano insomma è che i cronisti, ciascuno a suo modo, interpretino i fatti in maniera tale da renderli accettabili per gli uomini dell’epoca. Sospetti legittimi, in parte anche scontati, la questione è se siano tali da rendere credibile uno stravolgimento cosí profondo del pensiero di Francesco. Perché invece non accettare piú semplicemente la tesi del realismo e della radicalità evangelica di Francesco?

Fra i testi sopra citati, c'è n'è uno che vale pena di esaminare. Si tratta appunto del documento noto come Verba fratris Illuminati socii b. Francisci ad partes Orientis et in conspectu Soldani Aegypti (tratto dal codice Vat. Ottob. Lat. n. 552), in BBT, I, 36-37. Al riguardo si può vedere anche il testo di OLIGER L. Liber exemplorum, op. cit. nn. 98-99, 250-251. Ecco il testo, reperibile nella traduzione italiana anche in FF 2690-2691:

«1. Diceva il ministro generale (san Bonaventura), che frate Illuminato, già compagno di san Francesco nella sua missione dal sultano d'Egitto, era solito narrare questi episodi. Mentre Francesco era alla corte, il sultano volle mettere alla prova la fede e la devozione che egli mostrava d'avere verso il Signore nostro crocifisso. Un giorno fece stendere nella sala delle udienze uno splendido tappeto, decorato per intero con un motivo geometrico a forma di croce, e poi disse ai presenti: «Si chiami ora quell'uomo, che sembra essere un cristiano autentico; se per venire fino a me calpesterà con i suoi piedi questi segni di croce intessuti nel tappeto, l'accuseremo di fare ingiustizia al suo Signore; se invece si rifiuta di venire, gli domanderò perché commette questa scortesia di non venire fino a me». Chiamato, Francesco, che era pieno di Dio e da questa pienezza era bene istruito su quanto doveva fare e su quanto doveva dire, andò dritto dal sultano. Quegli, ritenendo d'aver motivo sufficiente per rimproverare l'uomo di Dio perché aveva fatto ingiuria al suo Signore Gesú Cristo, gli disse: «Voi cristiani adorate la croce, come segno speciale del vostro Dio; perché dunque non hai avuto timore a calpestare questi segni della croce disegnati sul tappeto»? Rispose il beato Francesco: «Dovete sapere che assieme al Signore nostro furono crocifissi anche due ladroni. Noi possediamo la vera croce del Signore e Salvatore nostro Gesú Cristo, e questa noi l'adoriamo e la circondiamo della piú profonda devozione. Ora, mentre questa santa e vera croce del Signore fu consegnata a noi, a voi invece sono state lasciate le croci dei due ladroni. Ecco perché non ho avuto paura di camminare sui segni della croce dei ladroni. Tra voi e per voi non c'è nulla della santa croce».

2. Il sultano gli sottopose anche un'altra questione: «Il vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vi vuol togliere la tonaca, ecc. Quanto piú voi cristiani non dovreste invadere le nostre terre, ecc.». Rispose il beato Francesco: «Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Altrove, infatti, è detto: Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te (Mt 5,25). E con questo ha voluto insegnarci che se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell'occhio, dovremmo essere disposti a separarlo, ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tenta di allontanarci dalla fede e dall'amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui quanti piú uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi». Tutti gli astanti furono presi da ammirazione per le risposte di lui».

 

 

La legittimità della difesa

Nel testo appena esposto balza immediatamente all'occhio un nuovo elemento: la plausibilità, in linea di principio, delle campagne crociate. Stando alla testimonianza attribuita a frate Illuminato da Rieti, Francesco mette l'accento non sulla politica o l'economia o la cultura, ma, come è comprensibile, sulla fede. In Francesco la difesa della fede può giustificare l'azione crociata. San Bonaventura da Bagnoregio nell'opera In Hexaemeron, coll. XIX, n. 14, in Opera omnia V, 422 (cfr. et Miscellanea bonaventuriana, XV, 5) riferisce anche un altro episodio riguardante questo incontro, derivato dalla stessa fonte - e cioè frate Illuminato da Rieti - e che potrebbe aprire uno spiraglio sull'approccio culturale all'Islam all'epoca di Francesco:

«Ecco un esempio del beato Francesco, quando si recò a predicare al sultano. Questi gli domandò d'accettare una disputa con i ministri della sua religione. Ma il Santo gli rispose che non era possibile iniziare con loro una disputa sulla fede, perché se si voleva imbastirla sulla base della ragione, la fede è sopra i ragionamenti umani, se invece attraverso argomenti scritturistici, essi non accettavano la Scrittura. Insisteva perciò che piuttosto ci si sottomettesse insieme alla prova del fuoco: si preparasse un grande fuoco ed entrassero sia lui che i ministri della sua religione».

Francesco, in base a questo testo, sembra conosca sufficientemente i suoi interlocutori visto che rileva la relativa povertà degli elementi comuni per un dialogo efficace. Un confronto laico more hodierno sulla base della ragione però non era certo concepibile all'epoca. In realtà, anche oggi, eccezion fatta per alcuni ambiti modernisti dell'Islam, un approccio laico e puramente razionale fra Cristianesimo e Islam è molto difficile. Francesco ovviamente esclude anche l'argomento scritturistico, cioè biblico, sapendo bene che, a maggior ragione, un simile terreno di confronto sarebbe stato respinto. Rimaneva cosí solo il terreno della prassi, cioè della fede vissuta e dei segni, in questo caso quello del camminare in mezzo al fuoco: l'Islam, al di fuori di un ambito prettamente integralista, è sensibile ad una testimonianza cristiana autentica. Di fronte ad essa il credente mussulmano risponde non di rado con il rispetto e la tolleranza. Francesco lo sa ed è proprio su questo terreno che - a detta di San Bonaventura - intende portare il confronto. In ogni caso si tratterà di una vittoria sua, personale, non riuscirà purtroppo - ce lo conferma la storia - ad aprire un dialogo e un confronto culturale piú ampio, tanto meno aperto ad un'evoluzione politica e diplomatica sempre opportuna. A sfavore della prova del fuoco tuttavia si deve rilevare che il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva condannato l'ordalia (const. 18, De iudicio sanguinis et duelli clericis interdicto) ed è difficile immaginare che Francesco volesse ricorrervi. Piú volte però San Bonaventura definisce e giustifica l'agire di Francesco come... superno illustratus oraculo: si tratta di un'allusione alla nota frase paolina: «L'uomo spirituale [...] giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» (1Cor 2,15).

Resta, come già detto, un dubbio: fino a che punto queste testimonianze esprimono realmente lo spirito di Francesco? Non è facile dirlo. Non cosí per quanto riguarda il testo della sua Regola non bollata (RegNB XVI, 1-10: FF 42-43), della cui autenticità non possiamo dubitare, e dove ritroviamo senza dubbio il suo pensiero:

«Dice il Signore: Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe (Mt 10, 6). Perciò quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare fra i Saraceni e altri infedeli, vadano con il permesso del loro ministro e servo. Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che essi sono idonei ad essere mandati; infatti dovrà rendere ragione al Signore, se in queste come in altre cose avrà proceduto senza discrezione. I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1Pt 2,13) e confessino di essere cristiani. L'altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non rinascerà per acqua e Spirito Santo non potrà entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)».

In queste parole rivolte ai frati missionari, sembra proprio di cogliere lo stesso atteggiamento interiore rilevato nella Chronique d'Ernoul: Francesco è un vero uomo di pace, un uomo realista, concreto e alieno dai compromessi. Non accetta lo spirito di discordia, ma se un dialogo si rivela impossibile, ovvero sterile, accetta con un sereno spirito critico la scelta dell'interlocutore. Non cosí per i missionari invece, ai quali dice: «siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» (cfr. 1Pt 2,13). E piú avanti aggiunge: «E tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che si sono donati e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesú Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poiché dice il Signore: "Colui che perderà l'anima sua per causa mia la salverà per la vita eterna"» (RegNB XVI, 10-11: FF 45). In ogni caso Francesco non guarda tanto all'aspetto politico-economico e nemmeno a quello culturale, egli è piú preoccupato per la fede, una fede che va testimoniata anche dinanzi alla spada minacciosa dell'Islam; una fede che è, in ultima analisi, il fondamento piú fecondo e vitale di tutta l'umana civiltà.

Certamente Francesco, se fosse stato possibile, non avrebbe mai voluto il ricorso alle crociate, ma da questo non si può certo affermare che le condannasse in blocco sic et simpliciter. Senza dubbio fu uno dei pochi uomini dell'epoca in grado di concepire vie nuove, al di là delle soluzioni puramente conflittuali, che allora apparivano come l'unica risposta possibile. Egli ebbe anche il coraggio della critica aperta, infatti, l'appello che Francesco rivolse al sultano e che la Chronique d'Ernoul ci ha trasmesso resta intatto, incisivo e sincero:

«Se tu, sire, vorrai credere alle nostre parole, noi consegneremo la tua anima a Dio, perché ti diciamo in verità che se tu morrai in questa legge che ora professi, sarai perduto né mai Dio avrà la tua anima. Proprio per questo noi siamo venuti. Ma se ci darai ascolto e vorrai comprendere, noi ti mostreremo con argomenti irrefutabili, alla presenza dei piú saggi dottori del regno, se li vorrai convocare, che la vostra legge è falsa» (FF 2232).

 

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