Scrivere qualcosa in tema di vocazione non è facile, è un tema che, soprattutto oggi, non si affronta sempre con disinvoltura. Non perché l'argomento non sia gradito ma perché si tratta di manifestare una parte di sé, e questo impone chiaramente dei limiti. L'argomento "vocazione", infatti, tocca profondamente la persona, la raggiunge nelle sue fibre piú intime.
Cercherò di affrontare l'argomento nel modo più semplice possibile. Il discorso sulla vocazione lo paragono a quello dell'innamoramento e dell'amore. Provate a chiedere ad una persona - ma ad una persona seria - di parlare di questa esperienza; farà qualche accenno, qualche discorso generico, ma certamente terrà per sé ciò che c'è di piú intimo, di piú prezioso e di piú caro. L'amore ha i suoi segreti e sono segreti che devono essere custoditi gelosamente. Questo è tanto piú vero quando si tratta di vocazione. Mi è capitato piú volte di partecipare a giornate vocazionali o cose simili e mi sono ritrovato spesso a non condividere alcuni discorsi e "scelte stilistiche". Forse sarà per una certa ritrosia nei confronti delle cose organizzate e "massificate", comunque questa è la mia impressione.
A questo discorso sarebbe opportuno premetterne uno sulla "teologia della bellezza". Perché teologia della bellezza? Per la semplice ragione che senza bellezza non c'è né innamoramento né amore. Non a caso il mosaico ravennate che ho scelto per questa pagina l'ho intitolato "Il bel Pastore". Si tratta di un versetto evangelico (Gv 10,11) che in genere viene tradotto nella forma più ovvia, più scontata e più facile; una forma che non richiede tante spiegazioni: "il buon Pastore". Quando c'è l'aggettivo "buono" tutto è chiaro, il moralismo è sempre facile da intendere. Ma non è ovvio che Dio è buono? Certo che dovrebbe essere ovvio, ma in greco kalòs significa anche bello. Quando si parla di Dio "bellezza" e "bontà" sono due aspetti di un'unica realtà, non dimentichiamolo mai. Fatta questa indispensabile premessa andiamo avanti.
La vocazione, come chiamata all'amore, implica un dialogo personale che è difficile portare in pubblico; anzi, oltre un certo limite è impossibile perché, come dice la Scrittura, bisogna "tenere nascosto il segreto del re" (Tb 12,7). Ovviamente in un'epoca che ama i livellamenti, le desacralizzazioni, le demitizzazioni, le dietrologie, etc... questa prospettiva non piace. Chissà perché c'è una gran voglia di normalità, di uniformità e di qualunquismo? C'è molta gente conformemente anticonformista in circolazione. Ha senso poi essere anticonformisti? Artificiosamente anticonformisti? Non credo. Ha senso invece essere semplicemente se stessi senza curarsi delle mode correnti che passano anche molto in fretta. C'è dunque una gran voglia di "normalità" che ci spinge a curiosare nella vita privata degli altri per vedere se sono "normali" come noi. Ci rallegriamo, quasi tiriamo un sospiro di sollievo, quando vediamo che il personaggio politico, o qualche altro personaggio importante, ha i nostri stessi difetti oppure ne ha di peggiori. Se poi applichiamo questo stato di cose al mondo ecclesiale arriviamo al top...
È invece no! Il discorso sulla vocazione rifugge dalle banalizzazioni, anche perché la posta in gioco è davvero alta. Se la maggior parte dei giovani cerca "l'altra metà" in un ragazzo o in una ragazza, il giovane o anche l'adulto che si sente chiamato, trova la sua ragione di vita in... Abbiamo il coraggio di dirlo? Il coraggio di usare una parola grossa, davvero grossa? Ce l'abbiamo! La ragione di vita non sta in una creatura finita e limitata ma in Dio stesso. L'altra "metà", anzi il "Tutto" dell'uomo di Dio è Dio stesso. Proprio cosí. E se non fosse cosí ci sarebbe da chiedersi su cosa può reggersi una vita senza questo singolare, straordinario, unico, incredibile ma autentico rapporto di amore. La filantropia è una gran bella cosa ma non si può vivere di sola filantropia. La vocazione ha una dimensione verticale che - se è autentica - sfocia nell'orizzontale. È una donazione totale quindi, che innesca un rapporto incomparabilmente piú grande di quello che può scaturire fra un uomo e una donna. È un rapporto che si fonda radicalmente sull'amore e sulla bontà e gratuità di Dio. Solo nella misura in cui la persona si fonda totalmente in Lui è capace di incarnarlo nella sua vita.
Il nostro Partner, colui che completa il nostro essere è Dio stesso. Bella presunzione verrebbe da dire, non è vero? Sì, se questo discorso avesse come fondamento le proprie qualità umane. Il fatto è che questo discorso invece si fonda sull'amore di Dio. Noi siamo testimoni dell'amore di Dio, non del nostro amore. Che un consacrato sia capace di amare come vorrebbe il Vangelo è tutto da dimostrare e sarà da dimostrare fino all'ultimo, ma che creda nell'amore di Dio per lui, per tutti noi è un'altra cosa. La nostra forza non si fonda su di noi ma su di Lui. Ma perché - si chiedono alcuni - la Chiesa impone l'obbligo del celibato ai preti? Domanda errata, è vero esattamente il contrario: la Chiesa chiama agli ordini sacri solo chi ha la vocazione al celibato. È la vocazione alla totale consacrazione a Dio - insita nel celibato - che precede e qualifica la vocazione al sacerdozio. È il segno, quello del celibato, che il sacerdote non è un semplice funzionario investito di un pubblico ministero. O siamo amici di Dio e profeti o rischiamo di non essere niente, non ci sono alternative.
Questa dimensione "verticale" è essenziale, altrimenti possiamo trovarci dinanzi a tutto fuorché a un amico e a un ministro di Dio. È di questo che tutti nel profondo del cuore abbiamo bisogno: parlare con Dio. Nella misura in cui permetteremo a Dio di entrare nella nostra vita e di investirci totalmente chi incontrerà noi incontrerà Lui: "Chi ascolta voi ascolta me" (Lc 10,16). Eccoci di fronte a un bello scandalo! Incontrare Dio in un uomo? Magari in un uomo dall'aspetto modesto! P. Pio da Pietrelcina non aveva un fisico eccezionale, eppure ha attratto milioni di persone! Ebbene sí, l'uomo di Dio ha un fascino che può trascendere anche l'aspetto fisico. Anche i giudei si scandalizzavano di Gesú: "...ti lapidiamo... perché tu, che sei uomo, ti fai Dio" (cfr. Gv 10,33). Ancora oggi se parlate di incarnazione ad un pio ebreo, ad un credente mussulmano rischiate di perdere la stima. Eppure è questa la vertiginosa bellezza della nostra fede, una delle ragioni principali della sua credibilità: ...et homo factus est, Dio si è fatto uomo (Gv 1,14) e ha permesso all'uomo di vederlo, di toccarlo, di sentire la sua voce. "Filippo... chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14,9) questo dice Gesú all'apostolo che gli chiede: "Mostraci il Padre e ci basta" (Gv 14,8). Quanti "Filippo" ci capita di incontrare nella nostra vita?
E noi dobbiamo essere in grado di dire: "Chi vede me...". No, a questo non possiamo certo arrivare, però come l'apostolo Pietro possiamo almeno dire: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina" (At 3,6). Anche Lutero si scandalizzava delle mediazioni umane e questo fa pensare. In fondo è facile credere nel "Dio" degli illuministi, nel "Grande architetto dell'universo" dei massoni, nelle divinità irraggiungibili e lontane di certe filosofie e religioni orientali. Il Dio che si fa uomo è imbarazzante, da fastidio, mette in crisi, un po' come quei preti che anziché starsene chiusi in sacrestia si occupano dei problemi reali della gente smuovendo le acque di certi stagni sociali e politici. Ma questi non si chiamano anche "profeti"? Francesco d'Assisi e Don Bosco - per citarne solo alcuni - non erano profeti? Perché Don Bosco ha infastidito tanti benpensanti - anche ecclesiastici - della sua epoca? Gli amici di Dio, si sa, sono fatti cosí! L'amore non si può mettere in scatola, prima o poi infrange tutte le regole umane. Se guardiamo con attenzione, nella vita dei santi ci sono sempre pizzichi di follia, però la loro follia è piú sana della nostra "normalità", per non dire della nostra aurea mediocrità.
Ora veniamo ad un argomento davvero importante. Quando si parla di vocazione in molti sorge spontanea una domanda: ma come è possibile? Come è possibile cosa? Non facciamo gli ingenui, va bene amare Dio e il prossimo, però siamo anche uomini, abbiamo le nostre esigenze... E qui vorrei essere particolarmente incisivo, stile militare. Chi parla così non ha le idee chiare su molte cose. Se uno ha messo dei compartimenti stagni fra la sua vita di fede, la sua affettività e la sua sessualità è una sorta di dissociato, non ha capito cose che sono fondamentali. È proprio questo il punto, uno dei punti fondamentali.
L'amore di Dio abbraccia tutta la nostra vita, tutta la nostra persona, affettività e sessualità incluse. Forse quelli che hanno sentito dire qualcosa di Freud proporranno subito la storiella della "sublimazione". No, non si tratta di sublimare. Cosa significa sublimare? Sarebbe il caso, per esempio, di uno che non avendo trovato moglie ha dedicato tutta la sua vita alla musica... È evidente che non è questa la nostra strada. Si tratta di integrare non di sublimare. L'amico di Dio si dona totalmente a Dio perché Dio viva e operi pienamente in lui. Francesco d'Assisi ha dato tutto di sé a Dio, anche la sua affettività. Il suo non era un amore disincarnato, astratto e puramente spirituale ma umano, concreto e soprannaturale al tempo stesso. È lo Spirito che ci aiuta a realizzare tutto questo, senza di Lui a ben poco servirebbe la nostra disciplina. E qui mi piace fare un cenno ad Aelredo di Rievaulx e ai luoghi di formazione che talvolta abbiamo creato.
Estasi di S. Teresa Roma - (S. Maria della Vittoria)
Troppe volte abbiamo ceduto alla tentazione del puritanesimo, troppe volte in nome della "purezza" sono stati messi al bando i segni più elementari della fraternità. Le testimonianze su realtà che erano e sono in contrasto stridente con il Vangelo purtroppo non mancano! Sia chiaro però, non si tratta di essere paladini di strane aperture o di esperimenti audaci. È giusto essere prudenti, è estremamente difficile l'arte dell'educazione e del governo delle anime, ma non possiamo dimenticare ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere. Aelredo di Rievaulx è una di quelle figure eccezionali cadute in oblio perché propugnatori di un valore - quello dell'amicizia - che a detta di un malinteso ascetismo non era abbastanza spirituale e disincarnato. Quante volte dalla mitezza del Vangelo si è passati - anche nella storia del francescanesimo - alla fermissima severità?
La disciplina conventuale dei secoli scorsi - quanto a rigidità - farebbe impallidire il più austero regolamento di disciplina militare. E dire che Gesù ha pianto per i suoi amici, infatti, del rapporto fra Lui e Lazzaro gli stessi giudei dicevano: "Vedi come lo amava!" (Gv 11,36). La forza della Chiesa, la sua vera autorità e credibilità sta proprio in questo modo di amare: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). Anche per questo il cristianesimo non ha affatto concluso la sua storia ma ha ancora molto da dare all'umanità. Viviamo in un'epoca piena di contraddizioni, di compromessi di ogni genere; mai come in questo secolo l'umanità ha conosciuto tragedie immani; però viviamo anche in un'epoca che più di ogni altra è caratterizzata dalla libertà e la libertà è il presupposto indispensabile per un amore autentico. Questa, potenzialmente, è l'epoca del Vangelo, forse più di quanto non lo sia stata ogni altra epoca della storia umana.
Purtroppo gli esseri umani hanno un'abilità straordinaria nel fabbricarsi le catene. Cristo ci libera e noi, incapaci di usare la libertà, ci costruiamo nuove catene nascondendole sotto il manto di valori reali ma tutt'altro che vissuti e questa è la cosa più triste. Questa è la migliore pedagogia verso l'ateismo e l'immoralità. C'è ancora tanto lavoro da fare se vogliamo che le comunità ecclesiali si fondino sulla forza dell'amore e della responsabilità e non su obblighi imposti dall'alto e dall'esterno. Anche questa è una ragione che spinge a credere che la nostra storia cristiana sia ancora in gran parte da costruire. Vien da credere che il cristianesimo in questi duemila anni abbia vissuto prevalentemente in una realtà socio-politica e culturale costantiniana. Per alcuni aspetti è stato anche il Concilio Vaticano II a inaugurare i tempi nuovi, quelli della libertà, dove ci viene chiesto di costruire tutto sulla novità del Vangelo e sulla ricchezza dell'esperienza passata, senza gli strumenti coercitivi del potere politico ed economico. È un'utopia? Può darsi, certamente è il segno che in questi tempi Dio chiama più che mai.
Allora perché la crisi delle vocazioni? Le cause sono tante e mi limito a considerarne solo alcune. Un anziano vescovo, un padre conciliare, un vero uomo di Dio, era solito dire: "Certamente Dio dona continuamente vocazioni alla sua Chiesa, siamo noi che non le sappiamo accogliere". È una convinzione che non è possibile non condividere. Si dice che Don Bosco fosse solito dire che un giovane su tre ha delle qualità che possono essere indizio di una vocazione. Ebbene, se è così, se è davvero così e se una stella di prima grandezza come Don Bosco ha detto una cosa simile, vuol dire che lo Spirito Santo lavora davvero bene, ma vuol dire anche che noi lavoriamo molto male, con buona pace della nostra pastorale vocazionale. Le vocazioni non seguono i mass-media, neppure quelli ecclesiali, seguono solo i veri maestri e i testimoni.
«Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo» (Sal 24,3-4)
Un'altra causa su cui vale la pena soffermarsi e il nostro attuale sistema socio-culturale ed educativo. Siamo figli di una falsa rivoluzione sessuale, una delle tante false rivoluzioni che affliggono la nostra storia. Ci siamo liberati - si dice - di tabù millenari. Niente di più falso. I tabù sono rimasti tutti, le uniche cose che sono cambiate, com'era da prevedersi, sono i costumi sociali e l'audacia di chi è privo di dignità. Vogliamo una prova circa il persistere dei veri tabù? Domandiamoci se esiste nelle famiglie un'educazione dell'affettività, una vera educazione all'amore. In alcuni casi esiste un'educazione sessuale a contenuto prevalentemente fisiologico-sanitario ma raramente è dato di vedere un'educazione integrale della persona.
Raramente ho visto un'educazione mirata ad aiutare il giovane a gestire anche l'affettività e i sentimenti. I giovani, soprattutto i ragazzi, da questo punto di vista sono i più trascurati dai genitori e talvolta sono incapaci di gestire se stessi, le proprie potenzialità e le proprie energie. Purtroppo le conseguenze di una falsa educazione, al limite della barbarie, che vede nella licenziosità un accettabile segno di virilità, sono ancora ben visibili. La rivoluzione, quella vera, è ancora al di là dell'orizzonte! Il risultato di questo sistema è un edonismo che intorbida l'occhio e rende insipido ogni ideale, ogni valore e ogni senso di dignità. I modelli educativi del passato avevano sicuramente molti difetti, in fondo stiamo pagando le conseguenze di ignoranze sapientemente coltivate, ma avevano almeno un pregio: precludendo al giovane l'accesso precoce all'esperienza sessuale lo spingevano a cercare qualcosa di diverso che poteva sfociare in un'ideale superiore.
Quanti geni ha partorito un sogno giovanile insoddisfatto? Il giovane di oggi vive all'insegna del tutto e subito, non deve cercare, non deve conquistare più niente, esclusi gli obiettivi prefabbricati e preconfezionati dalla società come titoli di studio e beni di consumo. Certamente il giovane oggi non reinventerà la lampadina, il telegrafo senza fili e il motore a ciclo Otto, però potrà inventare nuove storie di amore capaci di illuminare il mondo molto più della lampadina di Edison, di unire l'umanità molto più del telegrafo senza fili, di abbattere le distanze molto più del motore a ciclo Otto. Lo ripeto ancora: questo è il tempo della chiamata.
Niente è più antievangelico del lassismo o del puritanesimo senza amore. Il puritanesimo non è cristiano. Parliamo con franchezza: la crisi morale esplosa negli anni '60 è in parte la conseguenza di un puritanesimo senza amore, senza affetto, senza equilibrio... senza Dio. Le torture psicologiche e morali di alcuni ambienti educativi hanno forse creato più mentalità immature e morbose di quante non ne abbia create l'industria cinematografica. Chi ha avuto dei genitori che l'hanno amato, chi ha avuto il dono della vera amicizia, chi ha incontrato un padre spirituale degno di questo nome sa cosa significa essere amati, sentirsi amati dell'amore stesso di Cristo.
Un sorriso, un gesto di affetto sincero, un'amicizia solida, valgono più di mille prediche rigoriste. Così, pian piano - niente si impara subito - si capisce che la felicità consiste non tanto nell'essere amati quanto nell'amare. Così, a poco a poco, si capisce che la felicità consiste nell'amare senza nulla chiedere. Così, nel tempo, si capisce che la castità per il regno dei cieli è una fonte di gioia per sé e per gli altri. È come un segno, un dono permanente, un sigillo che attesta ai nostri e agli occhi altrui che abbiamo scelto di amare senza confini.
Esortazione apostolica post-sinodale «Pastores dabo vobis» di S. S. Giovanni Paolo II
La bellezza, nostalgia di Dio - Conferenza del card. Joseph Ratzinger
Santità trinitaria del Sacerdote - Conferenza di mons. Bruno Forte